
Il leader insurrezionalista rilancia: «Basta integratori, berrò solo acqua e sale». I compagni stilano una lista di obiettivi sensibili ma salvano il pg della Cassazione.Le condizioni dell’anarco-insurrezionalista Alfredo Cospito sono migliorate rispetto a inizio mese quando è stato trasferito dal carcere di Opera all’ospedale San Paolo di Milano. Per questo ieri ha fatto il viaggio inverso e dall’ospedale ha fatto ritorno in prigione. Quindi nonostante le campane a morto suonate dagli anarchici di mezzo mondo e dai suoi supporter politici al momento, e diciamo per fortuna, il quadro clinico del cinquantacinquenne pescarese sarebbe stabile. Non sappiamo se il merito sia dello yogurt al miele, del cappuccino, delle bustine di zucchero assimilate nei giorni scorsi, ma le condizioni del detenuto sarebbero stazionarie e per questo i medici hanno deciso di dimetterlo. Il presunto leader della federazione anarchica informale è stato riportato presso il Servizio multiprofessionale integrato di assistenza intensiva dell’istituto penitenziario di Opera, dove, assicurano fonti del ministero della Giustizia, continuerà ad essere assicurata la massima attenzione alle sue condizioni di salute. A Opera, però, non sarebbe stato installato l’apparecchio che monitora il cuore costantemente. Comunque Cospito, poi viene descritto da chi lo ha visto in carcere come «lucido e convinto». Il trasferimento è stato deciso a distanza di tre giorni dalla sentenza della Cassazione che ha rigettato il ricorso dell’avvocato Flavio Rossi Albertini, presentato dopo che il tribunale di Sorveglianza aveva confermato il 41 bis disposto per quattro anni nel maggio dell’anno scorso dall’allora Guardasigilli Marta Cartabia . Regime drasticoDopo la decisione degli ermellini, i difensori di Cospito hanno comunicato che il loro assistito da venerdì non prenderebbe più l’integratore a base di potassio. Avrebbe anche rinunciato alle bustine di zucchero e avrebbe deciso di «andare avanti, d’ora in poi, solo ad acqua e sale». Sabato l’anarchico è stato visitato dal consulente di parte, secondo cui «i parametri vitali tengono», ma saremmo «in presenza di una grave denutrizione». Per il medico la situazione è ancora sotto controllo, ma «potrebbe aggravarsi di giorno in giorno alla luce della sospensione degli integratori». Non è escluso che la difesa possa presentare una nuova istanza al tribunale di Sorveglianza davanti al quale verrà trattata l’impugnazione alla decisione del Guardasigilli Carlo Nordio che il 9 febbraio ha respinto la richiesta di sospendere il 41bis. La fuga di notizieParallelamente alla vicenda giudiziaria dell’ideologo della Federazione anarchica informale procede l’indagine della Procura di Roma sulla presunta rivelazione di segreto sui suoi colloqui in carcere per cui è stato iscritto sul registro degli indagati il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. I difensori dell’esponente di Fdi, ascoltato per circa due ore la scorsa settimana, hanno depositato una memoria a piazzale Clodio. L’avvocato Giuseppe Valentino ha messo a disposizione dei pm un documento in cui viene ricostruita la vicenda e vengono citate anche alcune pronunce della Corte di cassazione.La rivolta anarchicaIntanto i compagni di lotta di Cospito non hanno preso bene la decisione della Cassazione e il trasferimento in carcere. E sul Web è iniziato un tam-tam che ha l’obiettivo di fissare con precisione i contorni dei possibili bersagli per le auspicate ritorsioni.Per esempio è stata stigmatizzata la decisione dei giudici del Palazzaccio, una scelta per gli anarchici avrebbe mostrato «la volontà di annientamento da parte dello Stato nei confronti del compagno, già definita a dicembre con l’esito dell’udienza al tribunale di sorveglianza di Roma». E a loro giudizio il «trasferimento dal San Paolo ad Opera si pone perfettamente in linea con tale volontà di annientamento». Su una pagina che si presenta come «un nuovo sito internet a sostegno delle pratiche d’attacco e della solidarietà rivoluzionaria internazionale», particolarmente aggiornato su tutte le azioni degli anarco-insurrezionalisti è comparso un messaggio intitolato «Che siate maledetti» che soppesa le responsabilità e indica gli obiettivi.Lo Stato italiano, infatti, in questa vicenda, non si sarebbe mostrato «unito e unanime». Per esempio «la decisione del boia di piazza Cavour» (così vengono chiamati i giudici della Cassazione) sarebbe arrivata «scavalcando la richiesta del Procuratore generale», il quale, «secondo i riti della giustizia borghese, dovrebbe rappresentare la pubblica accusa», ma che nel caso Cospito, nei giorni scorsi «si era espresso per un annullamento con rinvio della sentenza del 19 dicembre che aveva confermato il provvedimento di 41 bis». Per gli anarchici ci troveremmo davanti a «un paradosso rarissimo» che, però, nei procedimenti che hanno riguardato Cospito, si sarebbe verificato almeno due volte. Infatti anche nel giugno scorso, nell’ambito di un processo perugino che coinvolge l’anarchico e altri suoi compagni, il Pg si era espresso «a favore» degli indagati, senza che la sua richiesta fosse accolta dalla corte. Una frattura che, a giudizio degli estensori del comunicato, non sarebbe casuale, ma evidenzierebbe le «fortissime pressioni portate avanti dalla fazione più manettara e guerrafondaia del potere».Forse perché i veri responsabili andrebbero cercati nell’esecutivo visto che «il 41 bis è il solo provvedimento della macchina da guerra repressiva che viene ordinato direttamente dal ministro della giustizia». Ci troveremmo di fronte alla classica «sentenza politica»: «Richiesto dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, ordinato dal ministro della giustizia del precedente governo Draghi, Marta Cartabia, confermato dall’attuale ministro del governo Meloni, Carlo Nordio, il provvedimento di 41 bis nei confronti di Cospito è responsabilità dello Stato italiano nella sua interezza» ricostruiscono gli improvvisati giuristi con la passione per gli esplosivi. Luminari che ci fanno sapere di «rifiutare ogni tentativo di limitare le responsabilità al governo “fascista”, ogni assoluzione preventiva, ogni distinguo, ogni attenuante». Per loro «questo provvedimento è stato un atto di guerra interna preso dal precedente governo di Unità nazionale, nel mentre lo Stato si mobilitava nella guerra in Ucraina», provvedimento che «l’attuale governo di destra» ha solo confermato. Attacco al governoGli insurrezionalisti considerano Nordio una specie di Ponzio Pilato responsabile di non essersi opposto a quanto deciso dal gabinetto Draghi. Ma a questo punto gli anarchici, forse sopravvalutandosi, si appuntano al petto una medaglia: avere sbarrato la strada al consociativismo. Scrivono infatti: «Se c’è qualcosa che la mobilitazione di questi mesi è riuscita a ottenere, è stata la sconfitta reale e non fittizia – fuori dalle pagliacciate parlamentari e dai riti elettorali – dell’Unità nazionale, rompendo la pace sociale che ammorbava da troppo tempo il Paese, aprendo fratture nell’ordine pubblico della quiete borghese». Una considerazione a cui segue un avvertimento con annesso anatema: «Se oggi qualcuno spera di mettersi al riparo dalla rabbia degli anarchici, si sbaglia di grosso. Siete tutti responsabili, che siate maledetti!». Quindi vengono citate le parole che Cospito avrebbe pronunciato dopo la decisione dei giudici: «Presto morirò, spero che qualcuno dopo di me continuerà la lotta». Una frase che viene così commentata: «Non c’è alcun dubbio che questo avverrà. Volevano ammutolire il compagno, ma le sue parole, i suoi contributi, la sua storia non hanno mai avuto tanta diffusione. Una semina che continuerà a dare frutti per molto tempo». Se Cospito può far ritorno in prigione perché le sue condizioni sono stabili, fuori ribolle una rabbia davvero pericolosa.
Donald Trump (Ansa)
La Corte Suprema degli Stati Uniti si appresta a pronunciarsi sulla legittimità di una parte dei dazi, che sono stati imposti da Donald Trump: si tratterà di una decisione dalla portata storica.
Al centro del contenzioso sono finite le tariffe che il presidente americano ha comminato ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa). In tal senso, la questione riguarda i dazi imposti per il traffico di fentanyl e quelli che l’inquilino della Casa Bianca ha battezzato ad aprile come “reciproci”. È infatti contro queste tariffe che hanno fatto ricorso alcune aziende e una dozzina di Stati. E, finora, i tribunali di grado inferiore hanno dato torto alla Casa Bianca. I vari casi sono quindi stati accorpati dalla Corte Suprema che, a settembre, ha deciso di valutarli. E così, mercoledì scorso, i togati hanno ospitato il dibattimento sulla questione tra gli avvocati delle parti. Adesso, si attende la decisione finale, che non è tuttavia chiaro quando sarà emessa: solitamente, la Corte Suprema impiega dai tre ai sei mesi dal dibattimento per pronunciarsi. Non è tuttavia escluso che, vista la delicatezza e l’urgenza del dossier in esame, possa stavolta accelerare i tempi.
Gennaro Varone
Il pubblico ministero Gennaro Varone sulla separazione delle carriere: «Le correnti sono orientate proprio come un partito politico».
«Non è vero che la separazione delle carriere porrà il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo». Da questa frase comincia l’analisi di Gennaro Varone, pubblico ministero di recente tornato a Pescara dopo una parentesi romana durante la quale si è occupato di delicate indagini sulla pubblica amministrazione (comprese quella sulle mascherine intermediate dal giornalista Mario Benotti, che ora è al centro delle attenzioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, quella sull’ex socio dello studio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e quella sulla mensa di Rebibbia).
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Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it
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Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.
Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.
I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.
Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.
Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.
In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.
Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.
Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.
L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.
Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.
Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative
Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.
La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.
A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.
Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.
Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.
Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.






