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2021-07-24
Per fare dispetto agli avversari trasformano Youns in un martire
Youns El Boussetaoui (Ansa)
Youns El Boussetaoui è morto a Voghera per mano dell'assessore Massimo Adriatici. Con la bava alla bocca i commentatori nazionali puntano il binocolo sul secondo. Perché ha ucciso. Perché ha usato l'arma che portava carica e perché era leghista. L'occasione ghiotta che ha portato Enrico Letta a scrivere il tweet di giornata. Il criminale è l'assessore, l'assassino pistolero. La destra che ama le armi e non le sa nemmeno usare. Peccato fermarsi a uno schema binario che ha trasformato ormai da tempo la sinistra e il Pd in un semplice impulso elettrico. Fatto di cronaca, reazione e attacco. La vita è molto più complessa e le tragedie impongono riflessioni, non semplici spasmi muscolari che in questo caso trasformano Youns in un martire, semplicemente perché vittima di un avversario politico. Il morto merita di più. Almeno da cadavere, merita rispetto. Youns non è un martire ma una vittima. Di sé stesso. Del modello di accoglienza tanto sbandierato e sostenuto dalle felpe di Enrico Letta. Vittima dell'incapacità controllare il territorio e di far rispettare le leggi. Marocchino, 39 anni e due figli. Da dieci anni in Italia ma con più fogli di via. È entrato nel nostro territorio in modo illegale.
Non è mai stato espulso, nonostante le accuse di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Nonostante l'arresto per spaccio e precedenti denunce per produzione di sostanze stupefacenti. In passato è stato accusato di falsità in scrittura privata, falsità materiale e truffa. Guidava senza patente. Prima ancora era stato denunciato per ricettazione e per detenzione illecita di armi e in altra occasione anche di oggetti atti a offendere. Tradotto: armi bianche. Una lunghissima lista di reati che avrebbe richiesto un intervento deciso. Se la legge fosse stata applicata, Youns ora non sarebbe morto. È un dato fattuale. Il che non vuole togliere le responsabilità penali e individuali di Adriatici. Il quale, al momento, risponde del reato di eccesso colposo e sarà processato per questo. Leggendo sui giornali le interviste dei parenti di Youns si capisce quale fosse lo stato di disagio mentale. E il degrado nel quale fosse caduto. Il fatto che sia un degrado ormai comune agli occhi di chi abita in gran parte delle città non elimina il problema. Anzi lo dovrebbe elevare al centro del dibattito politico. Il tweet di Letta che si concentra sulla pallottola e sulla pistola dimostra l'errore madornale e l'ipocrisia verso i clandestini. Youns necessitava di sostegno medico e psichiatrico. Eppure non l'ha avuto. Ma l'effetto drammatico dell'abbandono di migliaia di persone, condannate a stare un gradino sotto la miseria, non è solo che si contribuisce a rafforzare le fila della criminalità, ma anche che si crea uno spaccatura dentro la società potenzialmente deflagrante. Gli immigrati irregolari e gli italiani che vivono del proprio lavoro o dei propri legittimi e sacrosanti patrimoni si sentono abbandonati. Viviamo ogni giorno sotto lo sguardo vigile delle diverse amministrazioni fiscali o di polizia. Chi gode di un patrimonio è aggredito per ogni minimo sbaglio o errore. Paga multe, cartelle fiscali. Sopporta balzelli di ogni tipo. Versa la tassa dei rifiuti anche se sotto casa sembra esserci una discarica. Insomma, qualcosa che sembra uno Stato di polizia.
Eppure basta girare l'angolo e vedere migliaia di Youns liberi di circolare. Liberi di farsi del male e fare del male ai cittadini onesti. Liberi di vandalizzare, molestare e tornare continuamente sul luogo dei loro delitti. Al di là dei gravi reati contro la persona, sembra che ormai in Italia venga perseguito solo chi ha un patrimonio da difendere e tutti gli altri, criminali o sbandati, camminino in un universo intangibile. Così facendo si alimenta il disagio e il fastidio delle persone. Proprio delle migliaia che per scelta non hanno un porto d'armi e desiderano che solo le forze dell'ordine siano tenute a usare la forza per proteggere i contribuenti. Un paradosso politico, se ci si pensa. Il Pd urla contro il porto d'armi e poi contribuisce a penalizzare proprio coloro che non vogliono difendersi da sé.
I partiti, soprattutto la sinistra, dovrebbero comprendere che il rischio è arrivare a un punto di rottura. Dal quale non si torna indietro. Le dinamiche dell'omicidio di Voghera sono tutte da chiarire. Ieri l'assessore interrogato del giudice per decidere l'eventuale ritorno in libertà non ha chiarito il momento più delicato: quando è esploso il colpo.
Certo, il video esplicita chiaramente l'aggressione subita nei momenti immediatamente precedenti. Molti dei testimoni e degli abitanti della cittadina lombarda descrivono il marocchino come un pugile. Il codice penale parifica la capacità di uccidere di un paio di pugni a quella del mirino di una pistola. Ma si tratta di un argomento tecnico che sarà al centro del dibattimento e del processo. Il codice penale non deve fare politica. I partiti invece sì. Fare di Youns un martire significa disprezzarlo tre volte. Prima quando viene abbandonato in una condizione di disperazione e degrado. Secondo, ogni qual volta la magistratura, le norme e le forze dell'ordine finiscono con l'alimentare le tensioni e rinunciano a fare il proprio dovere per evitare il giorno della marmotta. Arrestare, compilare scartoffie, liberare. Arrestare di nuovo. Terzo, lo si disprezza quando lo si usa per una battaglia politica che servirà solo a creare altrove un nuovo Youns.
Adriatici interrogato per tre ore. «Non ricordo come partì il colpo»
Questa mattina con ogni probabilità ci sarà la decisione del gip di Pavia, Maria Cristina Lapi, che si è riservata di confermare gli arresti domiciliari per Massimo Adriatici, indagato per «eccesso colposo di legittima difesa», e avrà tempo fino alle 15 di questo pomeriggio. L'assessore alla Sicurezza di Voghera è stato interrogato per circa tre ore nella giornata di ieri a proposito dell'omicidio di Youns El Bousseatoui, trentanovenne di origine marocchina, per poi salire in auto in compagnia dei suoi legali.
Il politico leghista, dando la sua versione al giudice, ha ribadito come il colpo sia partito fortuitamente, durante il tafferuglio. L'avvocato Pipicelli in conferenza stampa ha reso noto come Adriatici non abbia «un ricordo preciso e non sia stato in grado di precisare come esattamente sia partito questo colpo». I legali dell'indagato hanno dichiarato che «Massimo Adriatici aveva sempre il colpo in canna perché, quando uno è sottoposto a un addestramento da poliziotto e si porta dietro un'arma, sa che se si trova in una situazione di pericolo può andare in panico. Se si toglie la sicura, invece, si può sparare senza stress, senza fare ulteriori attività che portino via del tempo». E hanno aggiunto: «Come in altre circostanze ha girato con quest'arma nella propria tasca, perché aveva fatto richiesta di porto d'armi per delle situazioni di pericolo della sua persona che erano state presentate alle autorità competenti e ritenute sussistenti. Gli era, infatti, appena stato rinnovato il porto d'armi». Secondo gli avvocati «sono insussistenti le ragioni di una custodia cautelare» per Adriatici, descritto come «vittima di una violenza inattesa che l'ha fatto cadere a terra procurandogli uno stato di confusione». Dalle parole degli avvocati si apprende anche che «è una persona a tratti disperata per la morte di El Bousseatoui. È un uomo con una grande umanità non come viene descritto da qualcuno in modo totalmente strumentale; un individuo normale, che non ha mai avuto un appunto nella sua carriera professionale».
Nella giornata di oggi la comunità marocchina parteciperà a una manifestazione indetta a Voghera. La morte dei connazionali Youns El Bousseatoui, per un colpo di pistola, Adil Belakhdim, sindacalista investito da un camion durante una manifestazione sindacale a Novara, Sara El Jaafari e Hanan Nekhla, travolte in un campo da una mietitrebbia, ha lasciato disorientata e sbigottita la comunità marocchina.
«Noi vogliamo sensibilizzare le istituzioni italo-marocchine affinché siano garanti dello stato di diritto. Siamo consapevoli che questi sono casi isolati, ma, purtroppo, il fatto che siano accaduti in tempi ravvicinati, coinvolgendo componenti della comunità marocchina, è comunque un segnale di viva preoccupazione per noi tutti. A Treviso qualcuno ha lanciato l'idea di manifestare davanti alla sede della Lega, ma noi, come comunità responsabile, non vogliamo essere preda di strumentalizzazioni. Piuttosto, con coscienza e con fermezza, intendiamo sensibilizzare tutti, italiani e non, affinché si persegua sempre il valore della convivenza civile e democratica, nel rispetto delle diversità culturali, che rappresentano la ricchezza di ogni società moderna», si legge nel comunicato stampa.
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Il marocchino ucciso era vittima innanzitutto di sé stesso e di un sistema d'accoglienza che genera caos e ingiustizie.Oggi il gip deciderà se confermare gli arresti domiciliari per l'assessore alla Sicurezza.Lo speciale contiene due articoli. Youns El Boussetaoui è morto a Voghera per mano dell'assessore Massimo Adriatici. Con la bava alla bocca i commentatori nazionali puntano il binocolo sul secondo. Perché ha ucciso. Perché ha usato l'arma che portava carica e perché era leghista. L'occasione ghiotta che ha portato Enrico Letta a scrivere il tweet di giornata. Il criminale è l'assessore, l'assassino pistolero. La destra che ama le armi e non le sa nemmeno usare. Peccato fermarsi a uno schema binario che ha trasformato ormai da tempo la sinistra e il Pd in un semplice impulso elettrico. Fatto di cronaca, reazione e attacco. La vita è molto più complessa e le tragedie impongono riflessioni, non semplici spasmi muscolari che in questo caso trasformano Youns in un martire, semplicemente perché vittima di un avversario politico. Il morto merita di più. Almeno da cadavere, merita rispetto. Youns non è un martire ma una vittima. Di sé stesso. Del modello di accoglienza tanto sbandierato e sostenuto dalle felpe di Enrico Letta. Vittima dell'incapacità controllare il territorio e di far rispettare le leggi. Marocchino, 39 anni e due figli. Da dieci anni in Italia ma con più fogli di via. È entrato nel nostro territorio in modo illegale. Non è mai stato espulso, nonostante le accuse di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Nonostante l'arresto per spaccio e precedenti denunce per produzione di sostanze stupefacenti. In passato è stato accusato di falsità in scrittura privata, falsità materiale e truffa. Guidava senza patente. Prima ancora era stato denunciato per ricettazione e per detenzione illecita di armi e in altra occasione anche di oggetti atti a offendere. Tradotto: armi bianche. Una lunghissima lista di reati che avrebbe richiesto un intervento deciso. Se la legge fosse stata applicata, Youns ora non sarebbe morto. È un dato fattuale. Il che non vuole togliere le responsabilità penali e individuali di Adriatici. Il quale, al momento, risponde del reato di eccesso colposo e sarà processato per questo. Leggendo sui giornali le interviste dei parenti di Youns si capisce quale fosse lo stato di disagio mentale. E il degrado nel quale fosse caduto. Il fatto che sia un degrado ormai comune agli occhi di chi abita in gran parte delle città non elimina il problema. Anzi lo dovrebbe elevare al centro del dibattito politico. Il tweet di Letta che si concentra sulla pallottola e sulla pistola dimostra l'errore madornale e l'ipocrisia verso i clandestini. Youns necessitava di sostegno medico e psichiatrico. Eppure non l'ha avuto. Ma l'effetto drammatico dell'abbandono di migliaia di persone, condannate a stare un gradino sotto la miseria, non è solo che si contribuisce a rafforzare le fila della criminalità, ma anche che si crea uno spaccatura dentro la società potenzialmente deflagrante. Gli immigrati irregolari e gli italiani che vivono del proprio lavoro o dei propri legittimi e sacrosanti patrimoni si sentono abbandonati. Viviamo ogni giorno sotto lo sguardo vigile delle diverse amministrazioni fiscali o di polizia. Chi gode di un patrimonio è aggredito per ogni minimo sbaglio o errore. Paga multe, cartelle fiscali. Sopporta balzelli di ogni tipo. Versa la tassa dei rifiuti anche se sotto casa sembra esserci una discarica. Insomma, qualcosa che sembra uno Stato di polizia. Eppure basta girare l'angolo e vedere migliaia di Youns liberi di circolare. Liberi di farsi del male e fare del male ai cittadini onesti. Liberi di vandalizzare, molestare e tornare continuamente sul luogo dei loro delitti. Al di là dei gravi reati contro la persona, sembra che ormai in Italia venga perseguito solo chi ha un patrimonio da difendere e tutti gli altri, criminali o sbandati, camminino in un universo intangibile. Così facendo si alimenta il disagio e il fastidio delle persone. Proprio delle migliaia che per scelta non hanno un porto d'armi e desiderano che solo le forze dell'ordine siano tenute a usare la forza per proteggere i contribuenti. Un paradosso politico, se ci si pensa. Il Pd urla contro il porto d'armi e poi contribuisce a penalizzare proprio coloro che non vogliono difendersi da sé. I partiti, soprattutto la sinistra, dovrebbero comprendere che il rischio è arrivare a un punto di rottura. Dal quale non si torna indietro. Le dinamiche dell'omicidio di Voghera sono tutte da chiarire. Ieri l'assessore interrogato del giudice per decidere l'eventuale ritorno in libertà non ha chiarito il momento più delicato: quando è esploso il colpo. Certo, il video esplicita chiaramente l'aggressione subita nei momenti immediatamente precedenti. Molti dei testimoni e degli abitanti della cittadina lombarda descrivono il marocchino come un pugile. Il codice penale parifica la capacità di uccidere di un paio di pugni a quella del mirino di una pistola. Ma si tratta di un argomento tecnico che sarà al centro del dibattimento e del processo. Il codice penale non deve fare politica. I partiti invece sì. Fare di Youns un martire significa disprezzarlo tre volte. Prima quando viene abbandonato in una condizione di disperazione e degrado. Secondo, ogni qual volta la magistratura, le norme e le forze dell'ordine finiscono con l'alimentare le tensioni e rinunciano a fare il proprio dovere per evitare il giorno della marmotta. Arrestare, compilare scartoffie, liberare. Arrestare di nuovo. Terzo, lo si disprezza quando lo si usa per una battaglia politica che servirà solo a creare altrove un nuovo Youns.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/per-fare-dispetto-agli-avversari-trasformano-youns-in-un-martire-2653917710.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="adriatici-interrogato-per-tre-ore-non-ricordo-come-parti-il-colpo" data-post-id="2653917710" data-published-at="1627070669" data-use-pagination="False"> Adriatici interrogato per tre ore. «Non ricordo come partì il colpo» Questa mattina con ogni probabilità ci sarà la decisione del gip di Pavia, Maria Cristina Lapi, che si è riservata di confermare gli arresti domiciliari per Massimo Adriatici, indagato per «eccesso colposo di legittima difesa», e avrà tempo fino alle 15 di questo pomeriggio. L'assessore alla Sicurezza di Voghera è stato interrogato per circa tre ore nella giornata di ieri a proposito dell'omicidio di Youns El Bousseatoui, trentanovenne di origine marocchina, per poi salire in auto in compagnia dei suoi legali. Il politico leghista, dando la sua versione al giudice, ha ribadito come il colpo sia partito fortuitamente, durante il tafferuglio. L'avvocato Pipicelli in conferenza stampa ha reso noto come Adriatici non abbia «un ricordo preciso e non sia stato in grado di precisare come esattamente sia partito questo colpo». I legali dell'indagato hanno dichiarato che «Massimo Adriatici aveva sempre il colpo in canna perché, quando uno è sottoposto a un addestramento da poliziotto e si porta dietro un'arma, sa che se si trova in una situazione di pericolo può andare in panico. Se si toglie la sicura, invece, si può sparare senza stress, senza fare ulteriori attività che portino via del tempo». E hanno aggiunto: «Come in altre circostanze ha girato con quest'arma nella propria tasca, perché aveva fatto richiesta di porto d'armi per delle situazioni di pericolo della sua persona che erano state presentate alle autorità competenti e ritenute sussistenti. Gli era, infatti, appena stato rinnovato il porto d'armi». Secondo gli avvocati «sono insussistenti le ragioni di una custodia cautelare» per Adriatici, descritto come «vittima di una violenza inattesa che l'ha fatto cadere a terra procurandogli uno stato di confusione». Dalle parole degli avvocati si apprende anche che «è una persona a tratti disperata per la morte di El Bousseatoui. È un uomo con una grande umanità non come viene descritto da qualcuno in modo totalmente strumentale; un individuo normale, che non ha mai avuto un appunto nella sua carriera professionale». Nella giornata di oggi la comunità marocchina parteciperà a una manifestazione indetta a Voghera. La morte dei connazionali Youns El Bousseatoui, per un colpo di pistola, Adil Belakhdim, sindacalista investito da un camion durante una manifestazione sindacale a Novara, Sara El Jaafari e Hanan Nekhla, travolte in un campo da una mietitrebbia, ha lasciato disorientata e sbigottita la comunità marocchina. «Noi vogliamo sensibilizzare le istituzioni italo-marocchine affinché siano garanti dello stato di diritto. Siamo consapevoli che questi sono casi isolati, ma, purtroppo, il fatto che siano accaduti in tempi ravvicinati, coinvolgendo componenti della comunità marocchina, è comunque un segnale di viva preoccupazione per noi tutti. A Treviso qualcuno ha lanciato l'idea di manifestare davanti alla sede della Lega, ma noi, come comunità responsabile, non vogliamo essere preda di strumentalizzazioni. Piuttosto, con coscienza e con fermezza, intendiamo sensibilizzare tutti, italiani e non, affinché si persegua sempre il valore della convivenza civile e democratica, nel rispetto delle diversità culturali, che rappresentano la ricchezza di ogni società moderna», si legge nel comunicato stampa.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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