2022-03-22
Per farci sorbire la «nuova normalità» sono pronti anche a sfruttare la guerra
Jeremy Rifkin punta alla rivoluzione green, Tesla a spegnere le auto ai russi. Con il pretesto delle crisi, ci impongono una distopia.Leggendo l’intervista ad Aleksandr Dugin che abbiamo pubblicato ieri, qualcuno - sul versante progressista ma non solo - ha espresso sconcerto. C’è chi è arrivato a sostenere, nemmeno troppo velatamente, che alle posizioni duginiane non andrebbe concessa alcuna visibilità. Altri si sono limitati a giudicare irricevibili le idee del pensatore russo sullo «scontro di civiltà» in atto tra liberalismo e tradizione. È già curioso che qualcuno, in nome della democrazia liberale, invochi l’oscuramento delle opinioni altrui, ma passi. Il punto è che forse - a prescindere dalla guerra in Ucraina - un minimo di riflessione sul futuro di questa benedetta democrazia e di questo molto meno benedetto «ordine liberale» sarebbe il caso di farla. A chi si mostra irritato da Dugin suggeriamo l’attenta lettura di un’altra intervista, per la precisione quella che il saggista americano Jeremy Rifkin ha concesso sempre ieri a Repubblica. Non ha suscitato, quella conversazione, né sconcerto né indignazione. Tuttavia, scorrendola, qualche brivido s’avverte. Rifkin non sembra affranto per il conflitto in atto, anzi. A suo dire la guerra «ci serve da stimolo per una scossa positiva». In buona sostanza, l’illustre statunitense spiega che «dalla crisi» arriverà «una spinta per accelerare la transizione energetica». Non bisogna credere, avverte, «a chi parla di un percorso chissà quanto lungo per liberarci dell’energia fossile. Sono i frutti avvelenati della campagna di marketing dei russi». La sicurezza di Rifkin ha lasciato apparentemente perplesso persino l’intervistatore di Repubblica, che si è peritato di far notare, opportunamente, che «qualche anno per smarcarsi» da gas e petrolio servirà: «Diciamo sette-otto»? Risposta di Rifkin: «Se è per questo anche 10-12. Ma se non cominciamo non arriveremo mai». Ah beh allora... L’aspetto più interessante di queste affermazioni non riguarda tanto lo specifico della questione ucraina, o le eventuali possibilità dell’Europa di fare a meno del gas russo. Il punto centrale è il futuro che Rifkin disegna, la rivoluzione di cui si fa portavoce (per conto di chi?) e il modo in cui pensa di imporla. Con estrema serenità egli vede nella guerra un modo per imporre un cambiamento radicale in Occidente. Grazie al conflitto si darà il via alla mutazione verde, alla transizione energetica, alla nuova rivoluzione industriale (terza o quarta poco cambia). Sentite che cosa afferma l’americano: «L’importante», dice, «è vincere la resistenza delle comunità locali, e quindi serve una capillare evangelizzazione, e abbattere le barriere burocratiche. Serve un impegno coordinato fra Europa, Usa e possibilmente Cina». Rifkin celebra il piano di Joe Biden chiamato Build back better (e già dal nome c’è di che temere, perché se vuoi «ricostruire meglio» prima devi distruggere) e ne parla come di un «progetto per la costituzione di una società più resiliente e digitale, e la creazione di milioni di nuovi posti di lavoro “verdi”». Dal suo punto di vista, «questa dannata guerra ha colto il mondo proprio quando, all’indomani della pandemia, si stava avviando una grande rivoluzione industriale dopo le prime due del passato legate alla ferrovia, al telegrafo, al carbone e poi al petrolio». Capito? Già il virus ci aveva fornito l’opportunità per ricostruire, per ricominciare da zero, per resettare. Rifkin auspica «una rivoluzione delle telecomunicazioni più avanzate, dalle applicazioni dell’Internet of things all’industria e anche all’agricoltura su larga scala, del dispiegamento dei benefici dell’intelligenza artificiale in grado di generare sviluppo, occupazione, calo delle diseguaglianze». Certo, l’americano è un teorico, non un capo di Stato. Tuttavia questa tendenza ad apprezzare gli «choc trasformativi» è qualcosa di più di una fantasticheria da futurologi. Il Grande Reset, libro di Klaus Schwab e altri tanto citato e poco letto a varie latitudini, in fondo non sostiene altro che questo: le crisi spalancano nuove possibilità di mutamento dell’architettura globale. Il Covid ci ha dimostrato, per dire, che la sorveglianza di massa non solo è possibile, ma per molti è auspicabile e persino opportuna. La crisi ucraina ci mette di fronte a nuove e altrettanto pesanti questioni. Come riporta Zerohedge, ad esempio, l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) ha proposto una serie di misure utili a «ridurre lo shock petrolifero seguito all’invasione russa dell’Ucraina e l’embargo sul greggio russo». Ecco alcuni dei suggerimenti: «Ridurre i limiti di velocità sulle autostrade di almeno 10 km orari; lavorare da casa fino a tre giorni alla settimana ove possibile; domeniche senza auto nelle città; aumentare il car sharing e adottare pratiche per ridurre il consumo di carburante; rafforzare l’adozione di veicoli elettrici e più efficienti». È il modo perfetto per iniziare a mettere in pratica la «transizione energetica»: la popolazione può essere invitata a cambiare stile di vita, a ridurre il riscaldamento in casa o a modificare radicalmente le proprie abitudini con la scusa di sostenere una «giusta causa» (quella ucraina, nello specifico). Come per il Covid, ci viene chiesto di agire per «il bene comune», e di rinunciare a piccoli o grandi pezzi di libertà individuale. Chiaro: abbassare il riscaldamento non è poi un grande sacrificio. Ma sull’utilizzo massivo di auto elettriche e «intelligenti» dovremmo ragionare un poco di più. È piuttosto allarmante, a tal proposito, la richiesta giunta a Tesla nei giorni scorsi da vari attivisti, e cioè quella di spegnere le auto dei russi. Intendiamoci: magari lo spegnimento non avverrà. Ma davvero vogliamo incamminarci verso un mondo in cui la nostra auto può essere disattivata a distanza - tra altro da un’azienda che decide in autonomia, e non da uno Stato o un’autorità riconosciuta - per i più svariati motivi? Non è distopia, è uno scenario possibile. Nelle ultime settimane le grandi compagnie tecnologiche hanno bloccato carte di credito, profili, conti correnti, pagine Web e persino testate giornalistiche russe. Domani potrebbero agire così contro chi «nega il cambiamento climatico» o chi contesta certe teorie sui «diritti Lgbt». Come sostiene Rifkin, bisogna «vincere la resistenza delle comunità locali» e dove «l’evangelizzazione» fallisce, si lascia spazio alla forza. Quello ucraino è un conflitto regionale, ma qualcuno ha interesse a trasformarlo davvero in una «guerra di civiltà», o comunque a sfruttarlo per imporre d’imperio cambiamenti su cui nessuno di noi è stato interrogato, su cui nessuno ha votato. Se questo è il futuro della «democrazia liberale», c’è poco da fare i furbi su Dugin.