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2018-07-25
Pensioni, gli immigrati «prendi e fuggi»
Ansa
Prendi la pensione e scappa. L'ultimo caso viene da Genova, dove sette extracomunitari, tra cui curiosamente un israeliano, incassavano la pensione sociale nonostante avessero lasciato da anni l'Italia. Erano tornati nei loro Paesi d'origine, dove vivevano grazie al sussidio Inps e quindi a carico dei contribuenti italiani. Non si tratta di spiccioli, poiché avrebbero percepito in totale 270.000 euro senza averne diritto. La Guardia di finanza li ha denunciati per truffa e indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, ma ovviamente è impensabile ottenere l'estradizione o recuperare il maltolto.
Questa storia rappresenta solo la punta di un iceberg, almeno a giudicare dai numeri: risultano oggi circa 65.000 immigrati titolari di una pensione assistenziale, con una netta impennata dal 2014, quando se ne contavano 44.600. Ovviamente non tutti sono truffatori che approfittano delle maglie larghe e delle pieghe burocratiche del nostro welfare. Anche se è molto complicato, per ammissione delle forze dell'ordine, smascherare chi fa il furbo.
Ma vediamo cosa dice la legge. Innanzitutto le pensioni di tipo assistenziale sono sganciate dai contributi: si può ottenerle senza avere mai lavorato un giorno. Ne hanno diritto tutti coloro che hanno compiuto 66 anni e 7 mesi di età e sono residenti in Italia da oltre dieci anni, indipendentemente dal fatto che siano stranieri o meno, purché si trovino in situazione d'indigenza. Il reddito deve essere inferiore a 5.889 euro annui per un single e a 11.778 euro se si è coniugati. Tuttavia c'è un obbligo: restare in Italia.
La norma prevede che venga sospeso l'assegno se il titolare soggiorna all'estero per più di 30 giorni: «Qualora lo straniero abbia ottenuto la misura assistenziale», dice la regola, «e fuoriesca dall'Italia per un periodo superiore a un mese, l'erogazione dell'assegno è sospesa, salvo che dimostri che la sua assenza dal territorio italiano è dipesa da gravi motivi di salute. Dopo un anno di sospensione, se l'interessato è ancora all'estero, l'assegno viene revocato definitivamente». Riassumendo: l'Inps concede pensioni sociali senza fare distinzioni tra italiani, comunitari ed extracomunitari con carta di soggiorno, apolidi e rifugiati politici. La cittadinanza non ha importanza.
Quello che conta è dimostrare di aver vissuto in Italia per almeno dieci anni (prima del 2009 non era necessario neppure questo) e di trovarsi in stato di bisogno. Ogni mese si ricevono 453 euro più la tredicesima, una sorta di «reddito di cittadinanza» anche per chi cittadino in realtà non è. Una cifra consistente se si considera che in Marocco lo stipendio medio si aggira sui 350 euro mensili, in Senegal 150, in Albania 315 e in Argentina 480.
Quindi parte dei beneficiari stranieri (sarebbero un migliaio i casi scoperti per un danno di circa 20 milioni) torna a vivere nel Paese d'origine senza darne comunicazione e continua a usufruire del vitalizio.
Tra i truffatori fino a oggi denunciati dalle Fiamme gialle, le nazionalità più rappresentate sono albanese, marocchina e argentina. Bisogna specificare che sono stati pizzicati anche alcuni nostri connazionali che si erano trasferiti all'estero e continuavano a farsi versare la pensione su conti italiani. Due coniugi ottantenni risultavano abitare nella provincia di Potenza, ma in realtà erano espatriati in Venezuela nel 1955.
Ma come mai, nonostante le banche dati elettroniche incrociate, è così complicato individuare i truffatori? Le forze dell'ordine spiegano che non è semplice controllare che il beneficiario della pensione ne goda in Italia: la prova principale, infatti, sono i visti sui documenti e sulle banche dati ministeriali al momento dell'espatrio, ma se uno straniero esce da un'altra nazione dell'Unione europea, allora l'espatrio non è segnalato all'Italia e di conseguenza all'Inps. Una lacuna che la dice lunga su quanta strada debba ancora fare l'Europa per dirsi unita.
Tra i casi più eclatanti c'è quello di una coppia di anziani coniugi di origine tunisina, residenti solo per a finta a Firenze: non solo i due hanno incassato 120.000 euro, ma gli investigatori hanno accertato «movimenti di capitali verso il Principato di Monaco per 370.000 euro».
Insomma, spendevano la pensione sociale a Montecarlo tra una puntata al casinò e una gita in Costa Azzurra. C'era poi una donna argentina di 70 anni, solo formalmente residente in provincia di Cagliari, che ha usufruito indebitamente di assegni per 47.000 euro, «movimentando capitali verso la Repubblica Popolare Cinese per 95.000 euro».
È stato appurato che a volte chi godeva dell'aiuto sociale possedeva nel proprio Paese anche tre o quattro appartamenti intestati. Per ritirare i soldi ci sono vari metodi, ma il più gettonato è quello di farsi accreditare la somma su un conto cointestato con amici o parenti.
Dalla Romania, invece, si organizzavano appositi pulmini con i quali gli assistiti stranieri venivano a prelevare e poi facevano subito ritorno in patria. Vero è, come spiega l'Inps, che «l'assegno sociale è provvisorio e il possesso dei requisiti di reddito e di effettiva residenza sono verificati ogni anno». Ma è anche vero che alla fine l'istituto previdenziale non verifica nulla e si accontenta della documentazione presentata dai beneficiari; ecco allora residenze fittizie, permessi di soggiorno contraffatti, autocertificazioni mendaci e utenze elettriche fantasma.
Quale può essere la soluzione per bloccare la truffa? C'è chi ipotizza che potrebbe servire l'obbligo del ritiro in contanti e di persona del denaro, con l'abolizione degli accrediti su conti correnti bancari o postali. In questo modo si potrebbe certificare mensilmente, tramite firma al ritiro, la dimora effettiva e abituale nello Stato italiano.
Altri ritengono indispensabile integrare le banche dati europee, in modo che venga segnalato il beneficiario che varca in uscita le frontiere dell'Unione europea. Anche se lo fa da Francia, Spagna o Portogallo.
Carlo Piano
Pure gli italiani sono stati emigranti. Ma la metà ritornava a casa propria
Ci risiamo, torna la madre di tutte le argomentazioni immigrazioniste: accogliamoli, perché anche noi fummo emigranti. Ci riprova, stavolta, Gian Antonio Stella, che sul Corriere della Sera, ieri, ci ha parlato degli «italiani sui lazzaretti del mare», a partire da un libro di Augusta Molinari, Navi di Lazzaro.
L'analogia con l'attualità è onnipresente praticamente in ogni riga. Infatti, «anche i nostri nonni subirono feroci blocchi navali» ad opera dei Toninelli dell'epoca. I nostri connazionali, inoltre, agli occhi degli autoctoni «venivano dopo. Prima i brasiliani. Prima gli uruguagi. Prima gli argentini». Paragoni storici per paragoni storici, chissà allora chi avrà raccolto oggi il testimone della «immonda ingordigia di certi armatori», anche se a leggere le inchieste sulle Ong qualche idea ce la possiamo fare.
Il fatto è che le comparazioni storiche azzardate sono sempre un'arma a doppio taglio. Né si capisce in che modo possa servire alla causa di Stella citare Cesare Malavasi, il cronista autore de L'odissea del piroscafo Remo, ovvero il disastroso viaggio di 1500 emigranti respinti dal Brasile, quando questi dice di vergare le sue righe «perché gli uni apprendano che tante rotte dell'emigrazione sono una tratta di bianchi» e «perché gli altri ne ritraggano ammonimento, allorché, sorrisi dalla speranza di un lucro onorato, daranno l'addio alla dolce patria». Il che dimostra che l'immigrazione è neoschiavismo e abbandono della patria, non naturale mobilità umana o gioioso mescolamento foriero di arricchimenti, come vorrebbe la retorica odierna.
L'articolo, del resto, parla dei barconi in cui i migranti eravamo noi e dove spesso le condizioni igieniche precipitavano, con le autorità locali che, salviniane ante litteram, si impuntavano nell'incomprensibile posizione di non considerare come risorse dei disperati affetti da colera. Valli a capire.
Le storie della nostra emigrazione, in realtà, confermano più argomenti contro gli sbarchi di quanti non ne riescano a confutare. E del resto non si capisce come la storia di un Paese di emigranti possa dimostrare che esso debba tramutarsi in un Paese di immigrati, cioè nell'esatto opposto: sarebbe più lecito dedurne la conclusione opposta. Tanto più che la storia di Stati che senza immigrati non esisterebbero, come appunto quelli del Nuovo mondo, non è certo paragonabile a quella di nazioni storiche come l'Italia.
C'è poi un dato che quasi nessuno mette in evidenza quando si parla degli italiani nel mondo: la grandissima quantità di coloro che tornavano indietro, perché bloccati alle frontiere e rimpatriati, oppure perché avevano fallito nella loro ricerca della felicità o anche, al contrario, perché avevano fatto successo e quindi erano nelle condizioni di tornare a casa propria per godersi i risparmi maturati.
Secondo i dati riportati nella monumentale Storia dell'emigrazione italiana, volume a più mani edito qualche anno fa da Donzelli, tra il 1876 e il 1988, quasi 27 milioni di italiani si sono recati all'estero, ma poi, fra gli 11 e i 13 milioni sono ritornati a casa. Nel dettaglio, nel solo ambito americano, su 4.660.427 italiani emigrati negli Usa nel periodo tra il 1880 e il 1950, quasi la metà esatta, ovvero 2.322.451, sono ritornati in patria.
Un dato che andrebbe considerato, quando si inorridisce al solo pensiero che qualche africano sbarcato da noi possa fare ritorno a casa propria, anziché godersi le dolcezze della sua condizione di «nuovo italiano». Ma, a ben vedere, tutto il colossale sforzo fatto sia in Italia, sia nei Paesi di destinazione, per governare il fenomeno, ora con le cattive, ora con le buone, va a contraddire ogni paragone con le semplificazioni umanitarie di oggi.
Basti solo confrontare il sostanziale menefreghismo degli Stati africani, preoccupati solo di battere cassa, con le norme italiane che, già nel 1901, istituirono un Commissariato dell'emigrazione e un Consiglio superiore dell'emigrazione, che tutelava gli emigranti nei porti di imbarco di Napoli, Genova, Palermo e Messina, proteggendoli dagli sfruttatori, e avevano anche sedi nei più importanti Paesi d'accoglienza. Nel secondo decennio del Novecento, inoltre, l'Italia si impegnò per preparare gli emigranti attraverso scuole serali e di fine settimana nelle aree di maggior movimento migratorio. A chi partiva, poi, venivano dati manuali in cui erano riportati consigli pratici e informazioni utili. Chi emigrava era invitato a conoscere le usanze del Paese in cui si recava, a rispettare le leggi e a comportarsi in modo esemplare, anche se sappiamo come questo non sempre accadeva (e questa sì che è una costante di ogni migrazione di uomini).
Un altro capitolo quasi mai affrontato è quello dell'emigrazione come impoverimento della nazione di partenza. Sempre nella Storia dell'emigrazione italiana, Antonio Golini e Flavia Amato, pur tracciando un bilancio globalmente positivo del fenomeno, non possono esimersi dal far notare come l'emigrazione abbia in Italia «pericolosamente alterato il tessuto demografico (provocando lo spopolamento di molti piccoli comuni fino a farlo diventare irreversibile) e depauperato il capitale umano (essendo rimasti in genere gli anziani, le persone meno qualificate e quelle dotate di minor spirito di iniziativa)». Citano inoltre «l'alterazione, specie nelle zone montane, dell'equilibrio demografico-ambientale che, in alcuni casi, ha portato a dissesti idrogeologici e a conseguenze anche drammatiche» e «la perdita della ricchezza costituita dall'insieme dei costi di allevamento e di investimento sostenuti per le persone emigrate».
E, a ben vedere, questo è proprio uno di quegli ambiti in cui il paragone con le migrazioni attuali ha un senso, dato che quei paesini italiani svuotati di forze vive non possono che ricordare gli Stati africani emergenti, ma che in realtà non emergeranno mai, dato che i loro giovani più promettenti mettono da parte i soldi per venire in Italia a vendere collanine. Nel migliore dei casi.
Adriano Scianca
Imprenditore africano: «Non venite in Europa»
Sono sempre più le voci africane che condannano l'immigrazione verso l'Europa, come La Verità di ieri ha documentato ampiamente. Tant'è che persino nei portali maggiormente impegnati sul fronte immigrazionista il messaggio finisce per passare. Pensiamo, per esempio, al sito Redattore sociale, che ieri ospitava la storia di Momar Nate Lo, imprenditore senegalese che ai suoi connazionali manda a dire di restare in Africa.
L'immigrato è arrivato in Italia 15 anni fa e ha passato tutto il suo primo periodo italiano a vendere fazzoletti, accendini, occhiali nel parcheggio della Reggia di Caserta. Non esattamente un impiego ricco di prospettive. Lo stesso dicasi per la carriera di venditore di cd contraffatti sotto la torre di Pisa: «Se andava bene, guadagnavo 10 mila lire al mese», racconta.
Momar ricorda il costante pericolo di finire in carcere e le condizioni di vita non esattamente ottimali: «Dormivamo in dieci in due stanze». Poi, un giorno, un amico italiano, imbianchino, lo ha notato mentre disegnava su un pezzo di carta, dopo una partita di calcio: «Si accorse che ero appassionato di pittura, mi reclutò nella sua ditta, in prova. Cominciammo la mattina dopo alle 7.30».
Una storia a lieto fine, quella di questo senegalese, che da quel giorno si è messo a fare il cartongessista e l'imbianchino, aprendo addirittura un'attività tutta sua.
Una storia che tuttavia non ha convinto Momar che l'emigrazione verso l'Europa sia la strada migliore per gli africani, sopratutto attualmente: «Per gli immigrati di oggi», dice, «è molto più difficile integrarsi, ci sono meno possibilità, a tutti i miei connazionali senegalesi che stanno per partire alla volta dell'Europa, consiglio di restare a casa. Meglio vivere in Senegal piuttosto che rischiare la vita per venire in Italia per poi perdere la dignità vendendo accendini». Non fa una piega.
Che tutti gli immigrati affrontino il viaggio verso l'Europa spinti da situazioni di pericolo o di miseria insostenibile è del resto una cosa a cui credono solo i fan dell'invasione a tutti i costi. In realtà, per molti si tratta di una scommessa sul proprio futuro. Una scommessa rischiosa, in cui c'è molto più da perdere che da guadagnare.
Il messaggio, in ogni caso, è controcorrente. Che si aggiunge a un altro, riportato sempre su Redattore sociale: Momar, infatti, è diventato italiano grazie a una sanatoria attuata nel 2002. Peccato che all'epoca fosse al governo Silvio Berlusconi: «Il governo di centrodestra regolarizzò migliaia di immigrati. Ancora oggi, sono grato a quel governo». Africani che non devono più partire e africani che sono già qui, ma ringraziano Berlusconi: due colpi da cui i lettori del sito potrebbero non riprendersi più.
Fabrizio La Rocca
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Così gli stranieri raggirano i contribuenti italiani: arrivano, chiedono l'assegno sociale ma poi lasciano il nostro Paese. La maggior parte dei furbetti viene da Albania, Marocco e Argentina. E, come spiega la polizia, non è facile pizzicarli.Pure gli italiani sono stati emigranti. Ma la metà ritornava a casa propria. Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera, rilancia il paragone tra le migrazioni di oggi e quelle di ieri. I numeri, però, ci dicono che i due fenomeni sono diversi, così come le politiche utilizzate per governarli.Imprenditore africano: «Non venite in Europa». Momar Nate Lo spiega perché è sbagliato e pericoloso cercare fortuna qui da noi.Lo speciale contiene tre articoli.Prendi la pensione e scappa. L'ultimo caso viene da Genova, dove sette extracomunitari, tra cui curiosamente un israeliano, incassavano la pensione sociale nonostante avessero lasciato da anni l'Italia. Erano tornati nei loro Paesi d'origine, dove vivevano grazie al sussidio Inps e quindi a carico dei contribuenti italiani. Non si tratta di spiccioli, poiché avrebbero percepito in totale 270.000 euro senza averne diritto. La Guardia di finanza li ha denunciati per truffa e indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, ma ovviamente è impensabile ottenere l'estradizione o recuperare il maltolto.Questa storia rappresenta solo la punta di un iceberg, almeno a giudicare dai numeri: risultano oggi circa 65.000 immigrati titolari di una pensione assistenziale, con una netta impennata dal 2014, quando se ne contavano 44.600. Ovviamente non tutti sono truffatori che approfittano delle maglie larghe e delle pieghe burocratiche del nostro welfare. Anche se è molto complicato, per ammissione delle forze dell'ordine, smascherare chi fa il furbo.Ma vediamo cosa dice la legge. Innanzitutto le pensioni di tipo assistenziale sono sganciate dai contributi: si può ottenerle senza avere mai lavorato un giorno. Ne hanno diritto tutti coloro che hanno compiuto 66 anni e 7 mesi di età e sono residenti in Italia da oltre dieci anni, indipendentemente dal fatto che siano stranieri o meno, purché si trovino in situazione d'indigenza. Il reddito deve essere inferiore a 5.889 euro annui per un single e a 11.778 euro se si è coniugati. Tuttavia c'è un obbligo: restare in Italia. La norma prevede che venga sospeso l'assegno se il titolare soggiorna all'estero per più di 30 giorni: «Qualora lo straniero abbia ottenuto la misura assistenziale», dice la regola, «e fuoriesca dall'Italia per un periodo superiore a un mese, l'erogazione dell'assegno è sospesa, salvo che dimostri che la sua assenza dal territorio italiano è dipesa da gravi motivi di salute. Dopo un anno di sospensione, se l'interessato è ancora all'estero, l'assegno viene revocato definitivamente». Riassumendo: l'Inps concede pensioni sociali senza fare distinzioni tra italiani, comunitari ed extracomunitari con carta di soggiorno, apolidi e rifugiati politici. La cittadinanza non ha importanza. Quello che conta è dimostrare di aver vissuto in Italia per almeno dieci anni (prima del 2009 non era necessario neppure questo) e di trovarsi in stato di bisogno. Ogni mese si ricevono 453 euro più la tredicesima, una sorta di «reddito di cittadinanza» anche per chi cittadino in realtà non è. Una cifra consistente se si considera che in Marocco lo stipendio medio si aggira sui 350 euro mensili, in Senegal 150, in Albania 315 e in Argentina 480. Quindi parte dei beneficiari stranieri (sarebbero un migliaio i casi scoperti per un danno di circa 20 milioni) torna a vivere nel Paese d'origine senza darne comunicazione e continua a usufruire del vitalizio.Tra i truffatori fino a oggi denunciati dalle Fiamme gialle, le nazionalità più rappresentate sono albanese, marocchina e argentina. Bisogna specificare che sono stati pizzicati anche alcuni nostri connazionali che si erano trasferiti all'estero e continuavano a farsi versare la pensione su conti italiani. Due coniugi ottantenni risultavano abitare nella provincia di Potenza, ma in realtà erano espatriati in Venezuela nel 1955.Ma come mai, nonostante le banche dati elettroniche incrociate, è così complicato individuare i truffatori? Le forze dell'ordine spiegano che non è semplice controllare che il beneficiario della pensione ne goda in Italia: la prova principale, infatti, sono i visti sui documenti e sulle banche dati ministeriali al momento dell'espatrio, ma se uno straniero esce da un'altra nazione dell'Unione europea, allora l'espatrio non è segnalato all'Italia e di conseguenza all'Inps. Una lacuna che la dice lunga su quanta strada debba ancora fare l'Europa per dirsi unita. Tra i casi più eclatanti c'è quello di una coppia di anziani coniugi di origine tunisina, residenti solo per a finta a Firenze: non solo i due hanno incassato 120.000 euro, ma gli investigatori hanno accertato «movimenti di capitali verso il Principato di Monaco per 370.000 euro». Insomma, spendevano la pensione sociale a Montecarlo tra una puntata al casinò e una gita in Costa Azzurra. C'era poi una donna argentina di 70 anni, solo formalmente residente in provincia di Cagliari, che ha usufruito indebitamente di assegni per 47.000 euro, «movimentando capitali verso la Repubblica Popolare Cinese per 95.000 euro».È stato appurato che a volte chi godeva dell'aiuto sociale possedeva nel proprio Paese anche tre o quattro appartamenti intestati. Per ritirare i soldi ci sono vari metodi, ma il più gettonato è quello di farsi accreditare la somma su un conto cointestato con amici o parenti. Dalla Romania, invece, si organizzavano appositi pulmini con i quali gli assistiti stranieri venivano a prelevare e poi facevano subito ritorno in patria. Vero è, come spiega l'Inps, che «l'assegno sociale è provvisorio e il possesso dei requisiti di reddito e di effettiva residenza sono verificati ogni anno». Ma è anche vero che alla fine l'istituto previdenziale non verifica nulla e si accontenta della documentazione presentata dai beneficiari; ecco allora residenze fittizie, permessi di soggiorno contraffatti, autocertificazioni mendaci e utenze elettriche fantasma. Quale può essere la soluzione per bloccare la truffa? C'è chi ipotizza che potrebbe servire l'obbligo del ritiro in contanti e di persona del denaro, con l'abolizione degli accrediti su conti correnti bancari o postali. In questo modo si potrebbe certificare mensilmente, tramite firma al ritiro, la dimora effettiva e abituale nello Stato italiano. Altri ritengono indispensabile integrare le banche dati europee, in modo che venga segnalato il beneficiario che varca in uscita le frontiere dell'Unione europea. Anche se lo fa da Francia, Spagna o Portogallo.Carlo Piano<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pensioni-gli-immigrati-prendi-e-fuggi-2589599210.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="pure-gli-italiani-sono-stati-emigranti-ma-la-meta-ritornava-a-casa-propria" data-post-id="2589599210" data-published-at="1765536169" data-use-pagination="False"> Pure gli italiani sono stati emigranti. Ma la metà ritornava a casa propria Ci risiamo, torna la madre di tutte le argomentazioni immigrazioniste: accogliamoli, perché anche noi fummo emigranti. Ci riprova, stavolta, Gian Antonio Stella, che sul Corriere della Sera, ieri, ci ha parlato degli «italiani sui lazzaretti del mare», a partire da un libro di Augusta Molinari, Navi di Lazzaro. L'analogia con l'attualità è onnipresente praticamente in ogni riga. Infatti, «anche i nostri nonni subirono feroci blocchi navali» ad opera dei Toninelli dell'epoca. I nostri connazionali, inoltre, agli occhi degli autoctoni «venivano dopo. Prima i brasiliani. Prima gli uruguagi. Prima gli argentini». Paragoni storici per paragoni storici, chissà allora chi avrà raccolto oggi il testimone della «immonda ingordigia di certi armatori», anche se a leggere le inchieste sulle Ong qualche idea ce la possiamo fare. Il fatto è che le comparazioni storiche azzardate sono sempre un'arma a doppio taglio. Né si capisce in che modo possa servire alla causa di Stella citare Cesare Malavasi, il cronista autore de L'odissea del piroscafo Remo, ovvero il disastroso viaggio di 1500 emigranti respinti dal Brasile, quando questi dice di vergare le sue righe «perché gli uni apprendano che tante rotte dell'emigrazione sono una tratta di bianchi» e «perché gli altri ne ritraggano ammonimento, allorché, sorrisi dalla speranza di un lucro onorato, daranno l'addio alla dolce patria». Il che dimostra che l'immigrazione è neoschiavismo e abbandono della patria, non naturale mobilità umana o gioioso mescolamento foriero di arricchimenti, come vorrebbe la retorica odierna. L'articolo, del resto, parla dei barconi in cui i migranti eravamo noi e dove spesso le condizioni igieniche precipitavano, con le autorità locali che, salviniane ante litteram, si impuntavano nell'incomprensibile posizione di non considerare come risorse dei disperati affetti da colera. Valli a capire. Le storie della nostra emigrazione, in realtà, confermano più argomenti contro gli sbarchi di quanti non ne riescano a confutare. E del resto non si capisce come la storia di un Paese di emigranti possa dimostrare che esso debba tramutarsi in un Paese di immigrati, cioè nell'esatto opposto: sarebbe più lecito dedurne la conclusione opposta. Tanto più che la storia di Stati che senza immigrati non esisterebbero, come appunto quelli del Nuovo mondo, non è certo paragonabile a quella di nazioni storiche come l'Italia. C'è poi un dato che quasi nessuno mette in evidenza quando si parla degli italiani nel mondo: la grandissima quantità di coloro che tornavano indietro, perché bloccati alle frontiere e rimpatriati, oppure perché avevano fallito nella loro ricerca della felicità o anche, al contrario, perché avevano fatto successo e quindi erano nelle condizioni di tornare a casa propria per godersi i risparmi maturati. Secondo i dati riportati nella monumentale Storia dell'emigrazione italiana, volume a più mani edito qualche anno fa da Donzelli, tra il 1876 e il 1988, quasi 27 milioni di italiani si sono recati all'estero, ma poi, fra gli 11 e i 13 milioni sono ritornati a casa. Nel dettaglio, nel solo ambito americano, su 4.660.427 italiani emigrati negli Usa nel periodo tra il 1880 e il 1950, quasi la metà esatta, ovvero 2.322.451, sono ritornati in patria. Un dato che andrebbe considerato, quando si inorridisce al solo pensiero che qualche africano sbarcato da noi possa fare ritorno a casa propria, anziché godersi le dolcezze della sua condizione di «nuovo italiano». Ma, a ben vedere, tutto il colossale sforzo fatto sia in Italia, sia nei Paesi di destinazione, per governare il fenomeno, ora con le cattive, ora con le buone, va a contraddire ogni paragone con le semplificazioni umanitarie di oggi. Basti solo confrontare il sostanziale menefreghismo degli Stati africani, preoccupati solo di battere cassa, con le norme italiane che, già nel 1901, istituirono un Commissariato dell'emigrazione e un Consiglio superiore dell'emigrazione, che tutelava gli emigranti nei porti di imbarco di Napoli, Genova, Palermo e Messina, proteggendoli dagli sfruttatori, e avevano anche sedi nei più importanti Paesi d'accoglienza. Nel secondo decennio del Novecento, inoltre, l'Italia si impegnò per preparare gli emigranti attraverso scuole serali e di fine settimana nelle aree di maggior movimento migratorio. A chi partiva, poi, venivano dati manuali in cui erano riportati consigli pratici e informazioni utili. Chi emigrava era invitato a conoscere le usanze del Paese in cui si recava, a rispettare le leggi e a comportarsi in modo esemplare, anche se sappiamo come questo non sempre accadeva (e questa sì che è una costante di ogni migrazione di uomini). Un altro capitolo quasi mai affrontato è quello dell'emigrazione come impoverimento della nazione di partenza. Sempre nella Storia dell'emigrazione italiana, Antonio Golini e Flavia Amato, pur tracciando un bilancio globalmente positivo del fenomeno, non possono esimersi dal far notare come l'emigrazione abbia in Italia «pericolosamente alterato il tessuto demografico (provocando lo spopolamento di molti piccoli comuni fino a farlo diventare irreversibile) e depauperato il capitale umano (essendo rimasti in genere gli anziani, le persone meno qualificate e quelle dotate di minor spirito di iniziativa)». Citano inoltre «l'alterazione, specie nelle zone montane, dell'equilibrio demografico-ambientale che, in alcuni casi, ha portato a dissesti idrogeologici e a conseguenze anche drammatiche» e «la perdita della ricchezza costituita dall'insieme dei costi di allevamento e di investimento sostenuti per le persone emigrate». E, a ben vedere, questo è proprio uno di quegli ambiti in cui il paragone con le migrazioni attuali ha un senso, dato che quei paesini italiani svuotati di forze vive non possono che ricordare gli Stati africani emergenti, ma che in realtà non emergeranno mai, dato che i loro giovani più promettenti mettono da parte i soldi per venire in Italia a vendere collanine. Nel migliore dei casi. Adriano Scianca <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pensioni-gli-immigrati-prendi-e-fuggi-2589599210.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="imprenditore-africano-non-venite-in-europa" data-post-id="2589599210" data-published-at="1765536169" data-use-pagination="False"> Imprenditore africano: «Non venite in Europa» Sono sempre più le voci africane che condannano l'immigrazione verso l'Europa, come La Verità di ieri ha documentato ampiamente. Tant'è che persino nei portali maggiormente impegnati sul fronte immigrazionista il messaggio finisce per passare. Pensiamo, per esempio, al sito Redattore sociale, che ieri ospitava la storia di Momar Nate Lo, imprenditore senegalese che ai suoi connazionali manda a dire di restare in Africa. L'immigrato è arrivato in Italia 15 anni fa e ha passato tutto il suo primo periodo italiano a vendere fazzoletti, accendini, occhiali nel parcheggio della Reggia di Caserta. Non esattamente un impiego ricco di prospettive. Lo stesso dicasi per la carriera di venditore di cd contraffatti sotto la torre di Pisa: «Se andava bene, guadagnavo 10 mila lire al mese», racconta. Momar ricorda il costante pericolo di finire in carcere e le condizioni di vita non esattamente ottimali: «Dormivamo in dieci in due stanze». Poi, un giorno, un amico italiano, imbianchino, lo ha notato mentre disegnava su un pezzo di carta, dopo una partita di calcio: «Si accorse che ero appassionato di pittura, mi reclutò nella sua ditta, in prova. Cominciammo la mattina dopo alle 7.30». Una storia a lieto fine, quella di questo senegalese, che da quel giorno si è messo a fare il cartongessista e l'imbianchino, aprendo addirittura un'attività tutta sua. Una storia che tuttavia non ha convinto Momar che l'emigrazione verso l'Europa sia la strada migliore per gli africani, sopratutto attualmente: «Per gli immigrati di oggi», dice, «è molto più difficile integrarsi, ci sono meno possibilità, a tutti i miei connazionali senegalesi che stanno per partire alla volta dell'Europa, consiglio di restare a casa. Meglio vivere in Senegal piuttosto che rischiare la vita per venire in Italia per poi perdere la dignità vendendo accendini». Non fa una piega. Che tutti gli immigrati affrontino il viaggio verso l'Europa spinti da situazioni di pericolo o di miseria insostenibile è del resto una cosa a cui credono solo i fan dell'invasione a tutti i costi. In realtà, per molti si tratta di una scommessa sul proprio futuro. Una scommessa rischiosa, in cui c'è molto più da perdere che da guadagnare. Il messaggio, in ogni caso, è controcorrente. Che si aggiunge a un altro, riportato sempre su Redattore sociale: Momar, infatti, è diventato italiano grazie a una sanatoria attuata nel 2002. Peccato che all'epoca fosse al governo Silvio Berlusconi: «Il governo di centrodestra regolarizzò migliaia di immigrati. Ancora oggi, sono grato a quel governo». Africani che non devono più partire e africani che sono già qui, ma ringraziano Berlusconi: due colpi da cui i lettori del sito potrebbero non riprendersi più. Fabrizio La Rocca
Ppalazzo Berlaymont (Getty Images)
In base allo schema ipotizzato, per quanto se ne può sapere, Bruxelles convoglierebbe le attività immobilizzate della Banca centrale russa in una linea di credito a tasso zero per l’Ucraina. L’Ue intenderebbe coprire 90 miliardi di euro del deficit di finanziamento dell’Ucraina, che è di 135 miliardi di euro, per i prossimi due anni attingendo a queste attività. A Kiev verrebbe chiesto di rimborsare il prestito solo dopo che Mosca avrà accettato di risarcire i danni causati dalla sua aggressione. Cosa che non avverrà mai. La proposta non ha precedenti nella storia moderna e solleva enormi dubbi e alcune contrarietà su aspetti di grande rilevanza.
Innanzitutto, sul tema delicato della compensazione monetaria destinata a coprire i danni o le perdite subite durante una guerra. Da che mondo è mondo, dalle imposizioni di Roma verso Cartagine dopo la prima e seconda guerra punica, alla guerra franco- prussiana fino a giungere alla Prima e Seconda guerra mondiale, sono sempre stati coloro che hanno perso le guerre che hanno dovuto pagare i debiti, e non il contrario. L’Ue su questa materia capovolge la storia.
In secondo luogo ci sono potenziali implicazioni economiche e strategiche: l’utilizzo degli asset sovrani russi per emettere il prestito di riparazione potrebbe avere effetti «a catena» in tutta l’Eurozona e provocare un esodo di investitori preoccupati da decisioni unilaterali delle autorità in futuro. Ma il punto dirimente e controverso in questo dibattito riguarda non tanto la già avvenuta immobilizzazione degli stessi, bensì l’effettiva possibilità di una confisca permanente. Nel caso degli asset di soggetti «riconducibili» al Cremlino (si pensi ad esempio agli oligarchi) inoltre, le confische rischierebbero di collidere col rispetto dei diritti di godimento di proprietà facenti parte della cornice dei diritti umani. Ancor più complicata è la confisca permanente di asset di diretta proprietà di uno Stato estero, che sono protetti dall’immunità e dal diritto internazionale. Inoltre, una delle più intuitive conseguenze di una confisca da parte dei Paesi europei sarebbe la sicura ritorsione russa. Il Cremlino ha infatti fatto sapere di avere pronta una lista di asset occidentali da aggredire a tal fine. A ogni modo, gli investimenti in Russia e riserve in rublo differiscono significativamente da Paese a Paese, e a essere particolarmente esposti sono proprio i paesi dell’Unione europea. Più che a livello di riserve delle varie banche centrali dei singoli Stati o della stessa Bce, una forte vulnerabilità risiede negli investimenti europei su suolo russo. Stando a fonti russe, su 288 miliardi di dollari la quota di asset degli Stati europei vale oltre 220 miliardi, ossia più del 75%.
Bisogna aggiungere anche che a preoccupare molti Paesi sarebbero anche le possibili conseguenze che una confisca così audace economicamente e «legalmente» avrebbe sulla stabilità dell’euro. Dando vita ad un importante precedente reputazionale, l’esproprio degli asset russi rischierebbe infatti di spingere molte banche centrali di vari Paesi stranieri a ridurre le loro riserve in euro come misura cautelare, indebolendo così la valuta dell’eurozona. È in parte un meccanismo già avviato non solo dalla Russia stessa, ma anche da paesi come Turchia o Cina, che da qualche anno stanno via via sganciandosi da valute come il dollaro e l’euro. Del resto chi si fiderebbe più dell’Europa se basta una decisione politica per sottrarre risorse finanziarie di proprietà di soggetti economici e di Stati esteri che hanno investito nel Vecchio continente? Deve averlo compreso bene la stessa Bce, condividendo le preoccupazioni emerse da più parti se ha deciso di rifiutare di fornire garanzie per il prestito di circa 140 miliardi di euro all’Ucraina, non solo perché la proposta della Commissione europea viola il suo mandato, ma si presume anche per le debolezze politiche e legali di una simile iniziativa.
Infine, una annotazione generale. Questa idea della Commissione europea fa, per così dire, uno scempio del concetto di libero mercato, introducendo una idea di capitalismo politico che si avvicina molto al cosiddetto capitalismo di Stato. Un capitalismo che si addice molto alle autocrazie che Bruxelles vorrebbe combattere. Davvero una gran bella pensata. Se invece di rischiare di pagare conseguenze che ricadrebbero sui cittadini europei, utilizzassero quel poco di sale in zucca rimasto per favorire un negoziato di pace ricostruirebbero un po’ di quella credibilità che allo stato attuale sembra decisamente smarrita.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Nella visione del segretario generale della Nato, gli europei saranno «il prossimo obiettivo di Mosca» entro cinque anni. Ma non solo, il conflitto potrebbe addirittura essere «della stessa portata della guerra che hanno dovuto sopportare i nostri nonni e bisnonni». E su queste basi vaghe ha quindi esortato gli alleati ad aumentare gli sforzi di Difesa per scongiurare il temuto conflitto. Poco importa quindi a Rutte se Mosca ha confermato pure ieri che non nutre «alcun piano aggressivo nei confronti dei membri della Nato o dell’Ue». Nella conferenza stampa, a fianco del cancelliere tedesco, Friedrich Merz, il segretario generale della Nato ha poi tirato le orecchie ai Paesi della Nato, colpevoli di non prendere sul serio «la minaccia russa» e di essere «silenziosamente compiacenti».
Ma chi non prende sul serio gli avvertimenti è Bruxelles in merito agli asset russi: il Comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue (Coreper) ha raggiunto un accordo sulla visione rivista della proposta inerente all’articolo 122 del Trattato Ue. E ha dato il via libera alla procedura scritta che si concluderà entro le 17 di oggi. Qualora arrivasse il voto favorevole, il blocco degli asset russi sarà quindi a tempo indeterminato. Si completa così il primo step per far sì che siano utilizzati i beni russi congelati a sostegno Kiev, in vista del Consiglio Ue della prossima settimana. A commentare il risultato è stato il commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis: «È stato approvato in linea di principio un regolamento che proibisce il trasferimento» degli asset russi congelati. E ha quindi spiegato che il regolamento «dovrebbe aiutare con il prestito basato sugli asset russi» visto che «assicura che restino congelati», senza il bisogno di rinnovare il blocco all’unanimità ogni sei mesi. Anche il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è intervenuta in merito dicendo: «Domani (oggi, ndr) spero che sia compiuto il prima passo per l’uso degli asset russi, metterli al sicuro, poi la decisione su come usarli sarà presa al Consiglio Europeo la prossima settimana, in un voto a maggioranza qualificata». A non condividere la linea di Bruxelles sono sicuramente la Slovacchia e l’Ungheria. Il premier slovacco, Robert Fico, ha già scritto al presidente del Consiglio europeo, António Costa: «Vorrei affermare che, in occasione del prossimo Consiglio europeo, non sono in grado di sostenere alcuna soluzione alle esigenze finanziarie dell’Ucraina che preveda la copertura delle spese militari dell’Ucraina per i prossimi anni». Continuando a mettere i puntini sulle i, ha sottolineato: «La politica di pace che sostengo con coerenza mi impedisce di votare a favore del prolungamento del conflitto militare: fornire decine di miliardi di euro per le spese militari significa prolungare la guerra». «Profonda preoccupazione» è stata espressa da Budapest per «la recente tendenza» ad «aggirare le procedure di decisione all’unanimità». Anche perché l’articolo 122 non è «la base giuridica corretta» per bloccare senza scadenza gli asset russi.
Sul fronte delle trattative di pace il tempo stringe. E dopo che Kiev ha inviato la sua versione del piano a Washington, ieri pomeriggio la Coalizione dei volenterosi si è riunita virtualmente. Tra i leader che hanno preso parte, il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyy, il premier britannico, Keir Starmer, il presidente francese, Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Al termine del meeting, il leader di Kiev ha dichiarato: «Stiamo lavorando per assicurare che le garanzie di sicurezza includano componenti serie di deterrenza europea e siano affidabili». E ha avvisato pure Washington: «È importante che gli Stati Uniti siano con noi e sostengano questi sforzi. Nessuno è interessato a una terza invasione russa». Von der Leyen ha ripetuto che «l’obiettivo è raggiungere una pace giusta e sostenibile per l’Ucraina». Le iniziative europee, in ogni caso, per Mosca non sono efficaci. Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha infatti commentato: «L’Europa sta cercando in tutti i modi di sedersi al tavolo delle trattative, ma le idee che coltiva non saranno utili ai negoziati». E ha lanciato un avvertimento già noto ai leader europei: qualora venissero schierate le forze di peacekeeping in Ucraina saranno considerate «immediatamente» gli «obiettivi legittimi» di Mosca.
L’agenda dei negoziati intanto prosegue: domani è previsto un incontro a Parigi tra i funzionari ucraini, americani, francesi, tedeschi e britannici per tentare di raggiungere un consenso sul piano di pace. Secondo quanto riferito da Axios, a rappresentare i leader europei e l’Ucraina saranno i rispettivi consiglieri per la sicurezza nazionale, ma non è ancora chiaro se per gli Stati Uniti parteciperà il segretario di Stato americano, Marco Rubio.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
«Al momento, ci sono tre documenti: i 20 punti fondamentali, le garanzie di sicurezza e il documento sull’economia e la ricostruzione», ha proseguito il funzionario. Sempre ieri, Volodymyr Zelensky ha avuto un colloquio, da lui stesso definito «costruttivo e approfondito», sulle garanzie di sicurezza con alcuni alti funzionari americani: il segretario di Stato, Marco Rubio, il capo del Pentagono, Pete Hegseth, e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff.
Nel frattempo, le relazioni transatlantiche si stanno facendo sempre più tese. Mercoledì sera, Donald Trump ha commentato aspramente la telefonata che, alcune ore prima, aveva avuto con Keir Starmer, Friedrich Merz ed Emmanuel Macron.
«Abbiamo parlato con i leader di Francia, Germania e Regno Unito, tutti ottimi leader, miei cari amici. E abbiamo discusso dell’Ucraina con parole piuttosto forti. E vedremo cosa succede. Voglio dire, stiamo aspettando di sentire le risposte», ha dichiarato il presidente americano, che ha anche rivelato di essere stato invitato a un incontro in Europa, dedicato alla questione delle garanzie di sicurezza. «Prima di andare a un incontro, vogliamo sapere alcune cose», ha affermato, per poi aggiungere: «Vorrebbero che andassimo a un incontro nel fine settimana in Europa, e prenderemo una decisione, a seconda di cosa ci diranno. Non vogliamo perdere tempo». In tal senso, la Casa Bianca ha fatto sapere che Trump non ha ancora deciso se mandare o meno un rappresentante al vertice di Parigi in programma sabato.
È in questo quadro che, ieri, Merz ha chiesto agli Stati Uniti di partecipare a un meeting che dovrebbe tenersi all’inizio della prossima settimana a Berlino. Il cancelliere tedesco ha inoltre sottolineato che il principale nodo sul tavolo risiede in «quali concessioni territoriali l’Ucraina è disposta a fare». Lunedì scorso, Zelensky aveva escluso delle cessioni di territorio, ribadendo una linea in netto contrasto con quella della Casa Bianca che, ormai da tempo, sta cercando di convincere il presidente ucraino a rinunciare al Donbass. A tal proposito, ieri Zelensky ha confermato che le questioni territoriali (soprattutto quelle del Donetsk e di Zaporizhia) sono ancora «in discussione» e che, secondo lui, dovrebbero essere decise tramite «elezioni o referendum. Deve esserci una posizione del popolo ucraino». Ha inoltre aggiunto che gli Usa vorrebbero creare una «zona economica libera» nell’area di Donbass che Kiev, stando ai desiderata della Casa Bianca, dovrebbe eventualmente abbandonare. Infine, secondo il leader ucraino, Washington ritiene che un cessate il fuoco totale sia possibile solo a seguito della firma di un accordo quadro. Ricordiamo che, negli scorsi giorni, Trump si era detto «deluso» da Zelensky, accusando inoltre i leader europei di debolezza. A complicare ulteriormente le relazioni transatlantiche ci si è poi messo Macron che, la scorsa settimana, si è recato in Cina, tentando maldestramente di avviare un processo di pace alternativo a quello condotto da Washington.
Mosca, dal canto suo, ha invece espresso sintonia con la Casa Bianca. «Di recente, quando il rappresentante speciale del presidente Trump, Stephen Witkoff, è stato qui, dopo il suo incontro con Vladimir Putin, entrambe le parti, russa e americana, hanno confermato le intese reciproche raggiunte in Alaska», ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. «L’essenza di queste intese è che l’Ucraina deve tornare ai fondamenti non allineati, neutrali e non nucleari del suo Stato», ha aggiunto. «Dobbiamo dare il giusto riconoscimento al leader americano: dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, ha affrontato seriamente la questione. A nostro avviso, si sta impegnando sinceramente per contribuire a risolvere il conflitto attraverso mezzi politici e diplomatici», ha proseguito. Non solo. Sempre ieri, Mosca ha mostrato apprezzamento verso l’eventualità, rivelata dal Wall Street Journal, che, nel quadro di un potenziale accordo di pace, Washington possa effettuare investimenti in energia russa. «Siamo interessati a un afflusso di investimenti esteri», ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Ciò detto, ieri la Casa Bianca ha detto che il presidente americano è «estremamente frustrato» tanto da Kiev quanto da Mosca.
Trump punta a chiudere la crisi ucraina per sganciare Mosca da Pechino, facendo leva su economia e commercio. Vladimir Putin, dal canto suo, ha bisogno della Casa Bianca per cercare di riacquisire influenza in Medio Oriente: lo zar vuole infatti recuperare terreno in Siria e ritagliarsi il ruolo di mediatore tra Washington e Teheran sul nucleare. Ebbene, davanti ai significativi interessi che stanno alla base del riavvicinamento tra Usa e Russia, gli europei fanno fatica a ritagliarsi un ruolo diplomatico, oltreché geopolitico, di peso.
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