
Cina e Pakistan continuano a rafforzare i loro legami. Un elemento che deve essere monitorato attentamente, soprattutto alla luce della crisi mediorientale in corso.Il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif ha appena concluso una visita nella Repubblica popolare, incontrando il presidente cinese Xi Jinping e siglando 23 accordi. Nell’occasione, i due leader hanno emesso un comunicato congiunto. “Le due parti hanno sostenuto congiuntamente un mondo multipolare equo e ordinato e una globalizzazione economica universalmente vantaggiosa e inclusiva. Entrambe le parti si sono opposte all’egemonia, al dominio e al bullismo, agli approcci esclusivisti, alla politica di potere e all’unilateralismo in tutte le sue forme”, recita il comunicato in quella che vuole palesemente essere una stoccata agli Stati Uniti. “Le due parti”, si legge ancora, “hanno ribadito che la via d'uscita fondamentale dall'attuale crisi a Gaza risiede nella soluzione dei due Stati e nella creazione di uno Stato di Palestina indipendente”. In particolare, secondo Reuters, i due Paesi hanno deciso di rafforzare i rapporti nel settore minerario ed energetico, soprattutto per quanto concerne gas e petrolio. Senza poi trascurare la centralità della Belt and Road Initiative. “Le due parti hanno riconosciuto che il corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec) è stato un progetto pionieristico dell’iniziativa Belt and Road”, afferma il comunicato congiunto. Insomma, Pechino e Islamabad proseguono sulla strada della convergenza. Una simile situazione non può ovviamente non avere degli impatti geopolitici di più vasta portata.Innanzitutto, i legami più stretti tra Cina e Pakistan rappresentano un problema per l’India, che notoriamente non è in buoni rapporti con entrambi i Paesi. In secondo luogo, emergono risvolti per la crisi mediorientale. E questo non soltanto perché, nella dichiarazione congiunta, Pechino e Islamabad hanno invocato la soluzione dei due Stati per risolvere il conflitto di Gaza. Il tema è più profondo e complesso. E chiama in causa il rapporto con l’Iran. Cominciamo col ricordare che, a marzo del 2021, Pechino e Teheran firmarono un patto di cooperazione venticinquennale. Dall’altra parte, era lo scorso aprile, quando l’allora presidente iraniano, Ebrahim Raisi, si recò in Pakistan, avviando con il Paese una fase di distensione dopo vari mesi di relazioni turbolente. Una visita, quella di Raisi, che destò preoccupazione specialmente alla luce del fatto che le ambizioni atomiche dell’Iran stavano, proprio in quel momento, tornando a farsi rilevanti. Non è d’altronde un mistero che il Pakistan sia attualmente l’unico Paese a maggioranza musulmana a detenere un arsenale nucleare. Tutto questo, mentre l’Aiea ha recentemente approvato una mozione di censura ai danni di Teheran. Non solo. Pochi giorni fa, la Cina, insieme alla Russia e allo stesso regime khomeinista, ha invocato il ripristino del controverso accordo sul nucleare iraniano del 2015, da cui l'amministrazione Trump si era ritirata nel 2018.Insomma, Pechino continua a rafforzare il proprio network internazionale. E per l’Occidente, questa, non è una buona notizia.
L’aumento dei tassi reali giapponesi azzoppa il meccanismo del «carry trade», la divisa indiana non è più difesa dalla Banca centrale: ignorare l’effetto oscillazioni significa fare metà analisi del proprio portafoglio.
Il rischio di cambio resta il grande convitato di pietra per chi investe fuori dall’euro, mentre l’attenzione è spesso concentrata solo su azioni e bond. Gli ultimi scossoni su yen giapponese e rupia indiana ricordano che la valuta può amplificare o azzerare i rendimenti di fondi ed Etf in valuta estera, trasformando un portafoglio «conservativo» in qualcosa di molto più volatile di quanto l’investitore percepisca.
Per Ursula von der Leyen è «inaccettabile» che gli europei siano i soli a sborsare per il Paese invaso. Perciò rilancia la confisca degli asset russi. Belgio e Ungheria però si oppongono. Così la Commissione pensa al piano B: l’ennesimo prestito, nonostante lo scandalo mazzette.
Per un attimo, Ursula von der Leyen è sembrata illuminata dal buon senso: «È inaccettabile», ha tuonato ieri, di fronte alla plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo, pensare che «i contribuenti europei pagheranno da soli il conto» per il «fabbisogno finanziario dell’Ucraina», nel biennio 2026/2027. Ma è stato solo un attimo, appunto. La presidente della Commissione non aveva in mente i famigerati cessi d’oro dei corrotti ucraini, che si sono pappati gli aiuti occidentali. E nemmeno i funzionari lambiti dallo scandalo mazzette (Andrij Yermak), o addirittura coinvolti nell’inchiesta (Rustem Umerov), ai quali Volodymyr Zelensky ha rinnovato lo stesso la fiducia, tanto da mandarli a negoziare con gli americani a Ginevra. La tedesca non pretende che i nostri beneficati facciano pulizia. Piuttosto, vuole costringere Mosca a sborsare il necessario per Kiev. «Nell’ultimo Consiglio europeo», ha ricordato ai deputati riuniti, «abbiamo presentato un documento di opzioni» per sostenere il Paese sotto attacco. «Questo include un’opzione sui beni russi immobilizzati. Il passo successivo», ha dunque annunciato, sarà «un testo giuridico», che l’esecutivo è pronto a presentare.
Luis de Guindos (Ansa)
Nel «Rapporto stabilità finanziaria» il vice di Christine Lagarde parla di «vulnerabilità» e «bruschi aggiustamenti». Debito in crescita, deficit fuori controllo e spese militari in aumento fanno di Parigi l’anello debole dell’Unione.
A Francoforte hanno imparato l’arte delle allusioni. Parlano di «vulnerabilità» di «bruschi aggiustamenti». Ad ascoltare con attenzione, tra le righe si sente un nome che risuona come un brontolio lontano. Non serve pronunciarlo: basta dire crisi di fiducia, conti pubblici esplosivi, spread che si stiracchia al mattino come un vecchio atleta arrugginito per capire che l’ombra ha sede in Francia. L’elefante nella cristalleria finanziaria europea.
Manfred Weber (Ansa)
Manfred Weber rompe il compromesso con i socialisti e si allea con Ecr e Patrioti. Carlo Fidanza: «Ora lavoreremo sull’automotive».
La baronessa von Truppen continua a strillare «nulla senza l’Ucraina sull’Ucraina, nulla sull’Europa senza l’Europa» per dire a Donald Trump: non provare a fare il furbo con Volodymyr Zelensky perché è cosa nostra. Solo che Ursula von der Leyen come non ha un esercito europeo rischia di trovarsi senza neppure truppe politiche. Al posto della maggioranza Ursula ormai è sorta la «maggioranza Giorgia». Per la terza volta in un paio di settimane al Parlamento europeo è andato in frantumi il compromesso Ppe-Pse che sostiene la Commissione della baronessa per seppellire il Green deal che ha condannato l’industria - si veda l’auto - e l’economia europea alla marginalità economica.




