2022-06-12
Bruxelles allarga il solco nel governo. Pd e Lega guardano già alle politiche
Enrico Letta brinda al bando delle auto a combustione: punta ai voti ecologisti alle elezioni 2023 e vuole smarcarsi da Roberto Cingolani, pronto a frenare. Matteo Salvini: «Il segretario dem ha interessi con Pechino o non si spiega».Presentato ai lettori della Stampa sotto un un titolo abbastanza surreale («Il fossile nero che piace a Salvini»), l’intervento di ieri di Enrico Letta volto a difendere strenuamente il voto dell’Europarlamento che metterà al bando dal 2035 le auto diesel e a benzina, raccontava alcune cose già note e ne faceva intuire altre con le quali dovremo imparare ad acquisire familiarità nei lunghissimi 10-11 mesi di campagna elettorale che ci separano dalle politiche del 2023. Tra le cose già note, annotiamo in primo luogo un certo apocalittismo ecologista («la casa brucia», «il disastro climatico», «i nostri figli», «i piani ambientali troppi timidi»). È curioso come, da Al Gore in poi (l’allora vicepresidente Usa pronosticava già alla fine degli anni Novanta l’imminente scioglimento delle calotte polari…), la sinistra senta sempre l’esigenza di rappresentare una pressoché immediata fine del mondo. Ancora: è abbastanza scontato il tentativo di presentare la destra come una congrega di mostri, provando a tatuarle addosso il marchio di nemici del green. Per farlo, Letta ripete ossessivamente che «Salvini ignora» (le urgenze ambientali, la necessità di intervenire). Un grande classico, insomma: la sinistra è sensibile e consapevole, la destra rozza e arrogante. E infine, sempre tra le cose scontate, va registrata una certa dose di ipocrisia: Letta, nel quadro di un voto che avrà effetti complessivi devastanti per l’industria europea, cerca di rifugiarsi in calcio d’angolo rivendicando il fatto che sia stato approvato un emendamento a salvaguardia delle produzioni di eccellenza. Molto bene: Maranello è salva, peccato che 70.000 lavoratori siano comunque a rischio. Dopo di che, ci sono invece due aspetti meno scontati nella sortita «gretina» del segretario del Pd. Il primo è il tentativo di caratterizzare il Pd come partito ambientalista, senza bisogno di delegare il tema a eventuali liste verdi. Da questo punto di vista, per Letta, lo schema non cambia mai: lo ius soli per guardare a uno spezzone di elettorato immigrazionista, il ddl Zan redivivo per cercare di coprire in qualche modo lo spazio dei diritti civili, e ora anche un tentativo di protagonismo ecologista. Secondo un format criticato anni fa dal politologo Mark Lilla, è come se la sinistra si concepisse come somma di campagne minoritarie, peraltro condotte spesso senza nemmeno l’ambizione culturale di parlare un linguaggio maggioritario. Il secondo aspetto inedito dell’intervento di Letta è il tentativo di distinguersi dal governo Draghi, e in particolare dalle posizioni del ministro Roberto Cingolani. Insomma, nella caccia al voto giovane e nello sforzo di cucire addosso al Pd un vestito meno scontatamente governista almeno su qualche tema, Letta ha scelto la nuance ecologista per marcare qualche differenza.Quanto a Matteo Salvini, ieri il leader leghista ha risposto al segretario del Pd sul filo del paradosso: «Letta ha legami con la Cina, interessi con la Cina o non si spiega, a questo punto intervenga il Copasir o i servizi, visto che va di moda...». E ancora, battendo sullo stesso tasto: «Regali il mercato automobilistico alla Cina: così non difendi l’ambiente, non difendi il lavoro».Nello specifico, ovviamente, Salvini ha ragione: non c’è motivo razionale per compiere un errore industriale (colpire un settore, quello dei motori tradizionali, in cui le produzioni Ue sono fortissime), per mettere a rischio una valanga di posti di lavoro, e contemporaneamente per consentire alla Cina di sfruttare un significativo vantaggio rispetto ai nostri Paesi. Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, ha rincarato: «Letta nel recente passato, come raccontato da diverse fonti giornalistiche, è stato co presidente di Tojoy western Europe, la consociata di Tojoy, gruppo cinese impegnato su molti fronti. Rapporti che certo alimentano i nostri sospetti. Non vorremmo che dietro al tema dell’ambiente, ci fosse un disegno per smantellare l’Italia». In termini politici più generali, Salvini ha tentato in realtà di centrare tre bersagli: interpretare le preoccupazioni di produttori, lavoratori e consumatori; puntare su un tema unificante per la Lega, su cui il segretario parla la stessa lingua del ministro Giancarlo Giorgetti e dei governatori del Nord; e infine spostare la polemica dalle opacità delle forze politiche italiane verso la Russia al tema delle influenze cinesi (questione su cui l’intero sistema politico istituzionale italiano dovrebbe svolgere una seria autocritica, tra le storiche tessiture filocinesi a sinistra, la frettolosa adesione del governo M5s-Lega alla Via della seta, la presenza in quell’esecutivo di personalità notoriamente gradite a Pechino, e, non ultima, l’accoglienza trionfale riservata al Quirinale - da Sergio Mattarella in persona - a Xi Jinping nel non lontano 2019). Più in generale, la sensazione è che nell’interminabile campagna elettorale che ci porterà al maggio del 2023 (se quella sarà la data delle politiche), il gioco delle contrapposizioni tra i partiti membri dell’attuale coalizione di unità nazionale sarà sempre più pane quotidiano. Ancora ieri, lo stesso Salvini è sembrato dire nettamente no a una possibile ripetizione dell’esperienza: «Noi abbiamo detto sì a questo governo di emergenza solo perché c’era la pandemia: poi di governi tecnici, di governi non eletti o di governi con il Pd noi non ne faremo e non ne accetteremo più evidentemente». Fino al voto del 2023 i toni saranno questi, poi chissà.