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2021-07-22
Il patentino nasce senza scadenza e rischia di diventare un guinzaglio
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Da una parte gli italiani con il patentino verde in mano. Dall'altra tutti gli altri, quelli ancora sprovvisti di una certificazione che condizionerà ancora tanti aspetti di una quotidianità già ampiamente stravolta in questo anno e mezzo di pandemia. Ben prima dell'approvazione del nuovo decreto Covid, in cui verranno fissate le norme cui attenersi nelle prossime settimane, l'ipotesi di estendere l'utilizzo del green pass rischia di creare un solco non solo tra i cittadini, ma anche tra le imprese, con le associazioni dei commercianti che mettono in guardia sul pericolo «discriminazione».
Tra le varie posizioni espresse in questi giorni, del resto, si è già sentito praticamente di tutto: dalla possibilità di prevedere l'uso del lasciapassare anche per entrare nei luoghi di lavoro, con tanto di sospensione della paga o cambio di mansione per chi decide di non vaccinarsi, all'eventualità di mostrare il codice a barre per salire sui mezzi pubblici. Insomma, per quelli che non dispongono della carta verde l'unica possibilità residua è la reclusione. Già da lunedì, lo scenario potrebbe essere più o meno quello paventato da Aldo Cursano, vicepresidente vicario di Fipe-Confcommercio: «Se passa l'obbligo del green pass anche per andare al ristorante, oltre 3 milioni di famiglie italiane verranno letteralmente spaccate in due. Al momento infatti ci sono circa 4 milioni di giovanissimi tra i 12 e i 19 anni non ancora vaccinati: non si tratta di no vax, ma di persone in attesa del loro turno. Molti di questi ragazzi passeranno le vacanze con i genitori, in larga parte già vaccinati, ma non potranno andare neppure a mangiare una pizza con loro». Situazioni del genere potrebbero ripetersi potenzialmente ovunque, dai cinema ai teatri. Perfino nei supermercati.
Per quanto tempo potremmo fare i conti con un Paese diviso in due, tra chi sta dentro e chi resta fuori? E soprattutto, per quanto tempo il decreto Covid, che uscirà oggi dal Consiglio dei ministri e che andrà convertito in legge entro i canonici 60 giorni, imporrà l'uso della «patente» verde anche per le attività più consuete? Lo strumento legislativo, infatti, rischia di nascere già vecchio per tutte quelle persone che da mesi hanno completato il ciclo vaccinale. A oggi, gli italiani che si sono sottoposti alla doppia dose sono poco più di 28 milioni, molti dei quali hanno ricevuto la copertura nei primissimi mesi dell'anno. Si tratta delle categorie più esposte al contagio, come gli over 80, e quelle a stretto contatto con i malati, cioè medici e operatori sanitari. Per loro, l'efficacia della certificazione verde Covid-19 scadrà nei primi giorni d'autunno, quando verranno meno i termini previsti dal governo nel decreto del 22 aprile scorso: validità di sei mesi dal giorno del completamento del ciclo vaccinale. Ebbene, quale scenario si apre per loro? Dal momento che l'ipotesi dei tamponi ogni 48 ore sarebbe piuttosto ardua da perseguire, l'unica via che resta per ottenere il lasciapassare sarebbe il richiamo con terza dose. Un'eventualità inutile, se non addirittura dannosa, secondo quanto riferisce Ignazio Grattagliano, coordinatore per la Regione Puglia della Società italiana di medicina generale e delle cure primarie (Simg): «Una terza dose con lo stesso vaccino già utilizzato non aggiungerebbe altra protezione all'organismo, che già ha acquisito gli anticorpi necessari per far fronte all'infezione. Di contro, si corre il rischio che diventi del tutto inutile: gli anticorpi prodotti dalla vaccinazione agiscono contro il virus originario e non contro le potenziali nuove varianti che possono apparire in futuro». Dagli ospedali filtra una certa preoccupazione: tra i sanitari c'è il timore di vedersi limitare la libertà di movimento, con l'aggravante di trovarsi esposti a un rischio contagio quando la copertura vaccinale sarà più debole.
Tra «coloro che saran sospesi» potrebbero finire anche tutti gli italiani che hanno contratto il virus. Per loro, al momento, è prevista un'unica dose, da somministrare entro i sei mesi dall'infezione, superati i quali ne vanno fatte due. A conti fatti, alla fine dell'estate migliaia di persone potrebbero ritrovarsi in tasca una certificazione scaduta. Sembra che al ministero della Salute si siano accorti solo ora del possibile cortocircuito, tanto che è partita la corsa per mettere una pezza: «Le persone guarite dal Covid-19 potranno effettuare un'unica dose di vaccino entro 12 mesi dal primo tampone positivo dopo la malattia», ha spiegato all'Ansa il sottosegretario alla Salute Andrea Costa. Il provvedimento potrebbe vedere la luce alla fine della settimana.
Se i presupposti per ottenere il green pass si rivelano già oggi complicati, cosa potrebbe accadere se un'estensione temporale dello strumento rendesse necessario aggiungerne degli altri, che magari con la sfera sanitaria hanno poco o nulla a che vedere? Magari aver pagato regolarmente le tasse o avere una fedina penale immacolata. Scenari irrealistici, probabilmente, ma chi può dirsi al sicuro se già tante conquiste nel campo dei diritti sono state calpestate in nome delle ragioni sanitarie?
Abbiamo pure gli esodati del vaccino
Il grido «facciamo come i francesi!» fa tremare gli esodati dei vaccini. In attesa di leggere nel nuovo decreto le regole su quanto e come verrà esteso il green pass obbligatorio, c'è infatti una categoria di italiani che rischia di rimanere sospesa nel limbo: quelli che hanno partecipato alla sperimentazione di Reithera. Non essendo il vaccino ancora approvato, perché appunto in fase di studio, chi ha ricevuto la dose non può ricevere il green pass che vale solo per i vaccini autorizzati dalla Ue e non può comunque vaccinarsi con quelli autorizzati perché gli è stato somministrato un prodotto diverso e possono avere già sviluppato anticorpi. L'ultimo studio di Reithera, quello di Fase 2 iniziato a marzo, è stato fatto su 917 volontari arruolati (quello di Fase 1 era su 45). Stesso discorso vale per i volontari che si sono fatti inoculare l'altro vaccino italiano Covid-eVax, delle aziende Takis e Rottapharm Biotech. La sperimentazione clinica di Fase 1 e 2, frutto di una collaborazione internazionale alla quale partecipa anche l'Istituto Spallanzani (coinvolto anche nello sviluppo di Reithera), è in corso. Parliamo in questo caso di 80 persone in fase 1 e 240 previsti per la fase 2, quindi circa 300 volontari in totale anche se ad alcuni di essi è stato somministrato il placebo. Gli «esodati» di Reithera e Takis potranno comunque contare su un green pass ad hoc? Vedremo, sperando che qualcuno ci abbia pensato.
Nel frattempo, tornando a Reithera, in questi giorni si è tenuto un incontro nella sede di Castel romano tra Antonella Folgori, presidente di Reithera Italia, Stefano Colloca, socio e responsabile dello sviluppo scientifico, e Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, con una delegazione del ministero degli Esteri messicano. Già lo scorso 13 luglio si era svolto allo Spallanzani una riunione tra l'ambasciatore della Repubblica del Messico Carlos Garcia d'Alba ed il direttore Francesco Vaia cui avevano partecipato rappresentanti della società biotech. Obiettivo: approfondire l'opportunità di sostenere la fase 3 della sperimentazione, quella che precede l'autorizzazione all'uso clinico. Nonché la possibilità, una volta ottenuto il via libera al vaccino prodotto dall'azienda italiana, di vendere il prodotto anche all'estero. In questo momento il gruppo, dopo la fase 1 sperimentata con lo Spallanzani, sta completando gli studi di fase due con 24 centri clinici. Nella fase 3 bisognerà invece continuare la sperimentazione con centinaia di centri in Italia e nel mondo, per testare il vaccino anche sulle diverse etnie. Sebbene l'interesse dei messicani e di altri investitori sudamericani (da Cile e Brasile) venga già dipinto dai compañeros di Repubblica come la dimostrazione che il vaccino prodotto a Castel Romano fa gola a parecchi, è soprattutto Reithera ad aver bisogno - urgentemente - di fondi per andare avanti. Il progetto del vaccino «italiano» si è infranto sull'alt delle toghe e le inadempienze dell'ex commissario Domenico Arcuri (oggi ancora al timone di Invitalia). A metà marzo 2020, infatti, lo Spallanzani chiude un accordo con Reithera e avvia il primo mini finanziamento. Il 23 marzo il Consiglio nazionale delle ricerche approva il protocollo d'intesa con l'istituto romano che riceve così 8 milioni: 5 dalla Regione Lazio e 3 dal Cnr. Tra aprile e maggio Arcuri convoca i vertici di Reithera suggerendo di non ascoltare le sirene di fondi esteri. Il vaccino sarebbe dovuto rimanere italiano, anche a costo di brandire l'arma del golden power. A febbraio del 2021 Invitalia finalizza la promessa di finanziare il vaccino con 88 milioni ma quando diventa socio ne versa soltanto 11. Con l'arrivo di Mario Draghi, Arcuri decade da commissario. A metà maggio 2021, la Corte dei Conti boccia il contratto di Reithera con Invitalia perché l'investimento per il progetto non può comprendere l'acquisto della sede operativa. Per la Fase 3 servirà arruolare fra i 5 e i 10.000 volontari ma il costo della sperimentazione si aggira attorno ai 60 milioni. Che Reithera non ha.
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Le ipotesi allo studio sull'attestato sanitario penalizzano i ragazzi (ancora senza dose), i più veloci a immunizzarsi (che sarebbero costretti a un altro richiamo) e i guariti. Rinviando il ritorno alla normalità.I partecipanti ai test di Reithera restano in un limbo burocratico senza certificato. Il farmaco infatti non è ancora stato approvato e non possono riceverne uno differente.Lo speciale contiene due articoli.Da una parte gli italiani con il patentino verde in mano. Dall'altra tutti gli altri, quelli ancora sprovvisti di una certificazione che condizionerà ancora tanti aspetti di una quotidianità già ampiamente stravolta in questo anno e mezzo di pandemia. Ben prima dell'approvazione del nuovo decreto Covid, in cui verranno fissate le norme cui attenersi nelle prossime settimane, l'ipotesi di estendere l'utilizzo del green pass rischia di creare un solco non solo tra i cittadini, ma anche tra le imprese, con le associazioni dei commercianti che mettono in guardia sul pericolo «discriminazione». Tra le varie posizioni espresse in questi giorni, del resto, si è già sentito praticamente di tutto: dalla possibilità di prevedere l'uso del lasciapassare anche per entrare nei luoghi di lavoro, con tanto di sospensione della paga o cambio di mansione per chi decide di non vaccinarsi, all'eventualità di mostrare il codice a barre per salire sui mezzi pubblici. Insomma, per quelli che non dispongono della carta verde l'unica possibilità residua è la reclusione. Già da lunedì, lo scenario potrebbe essere più o meno quello paventato da Aldo Cursano, vicepresidente vicario di Fipe-Confcommercio: «Se passa l'obbligo del green pass anche per andare al ristorante, oltre 3 milioni di famiglie italiane verranno letteralmente spaccate in due. Al momento infatti ci sono circa 4 milioni di giovanissimi tra i 12 e i 19 anni non ancora vaccinati: non si tratta di no vax, ma di persone in attesa del loro turno. Molti di questi ragazzi passeranno le vacanze con i genitori, in larga parte già vaccinati, ma non potranno andare neppure a mangiare una pizza con loro». Situazioni del genere potrebbero ripetersi potenzialmente ovunque, dai cinema ai teatri. Perfino nei supermercati. Per quanto tempo potremmo fare i conti con un Paese diviso in due, tra chi sta dentro e chi resta fuori? E soprattutto, per quanto tempo il decreto Covid, che uscirà oggi dal Consiglio dei ministri e che andrà convertito in legge entro i canonici 60 giorni, imporrà l'uso della «patente» verde anche per le attività più consuete? Lo strumento legislativo, infatti, rischia di nascere già vecchio per tutte quelle persone che da mesi hanno completato il ciclo vaccinale. A oggi, gli italiani che si sono sottoposti alla doppia dose sono poco più di 28 milioni, molti dei quali hanno ricevuto la copertura nei primissimi mesi dell'anno. Si tratta delle categorie più esposte al contagio, come gli over 80, e quelle a stretto contatto con i malati, cioè medici e operatori sanitari. Per loro, l'efficacia della certificazione verde Covid-19 scadrà nei primi giorni d'autunno, quando verranno meno i termini previsti dal governo nel decreto del 22 aprile scorso: validità di sei mesi dal giorno del completamento del ciclo vaccinale. Ebbene, quale scenario si apre per loro? Dal momento che l'ipotesi dei tamponi ogni 48 ore sarebbe piuttosto ardua da perseguire, l'unica via che resta per ottenere il lasciapassare sarebbe il richiamo con terza dose. Un'eventualità inutile, se non addirittura dannosa, secondo quanto riferisce Ignazio Grattagliano, coordinatore per la Regione Puglia della Società italiana di medicina generale e delle cure primarie (Simg): «Una terza dose con lo stesso vaccino già utilizzato non aggiungerebbe altra protezione all'organismo, che già ha acquisito gli anticorpi necessari per far fronte all'infezione. Di contro, si corre il rischio che diventi del tutto inutile: gli anticorpi prodotti dalla vaccinazione agiscono contro il virus originario e non contro le potenziali nuove varianti che possono apparire in futuro». Dagli ospedali filtra una certa preoccupazione: tra i sanitari c'è il timore di vedersi limitare la libertà di movimento, con l'aggravante di trovarsi esposti a un rischio contagio quando la copertura vaccinale sarà più debole. Tra «coloro che saran sospesi» potrebbero finire anche tutti gli italiani che hanno contratto il virus. Per loro, al momento, è prevista un'unica dose, da somministrare entro i sei mesi dall'infezione, superati i quali ne vanno fatte due. A conti fatti, alla fine dell'estate migliaia di persone potrebbero ritrovarsi in tasca una certificazione scaduta. Sembra che al ministero della Salute si siano accorti solo ora del possibile cortocircuito, tanto che è partita la corsa per mettere una pezza: «Le persone guarite dal Covid-19 potranno effettuare un'unica dose di vaccino entro 12 mesi dal primo tampone positivo dopo la malattia», ha spiegato all'Ansa il sottosegretario alla Salute Andrea Costa. Il provvedimento potrebbe vedere la luce alla fine della settimana.Se i presupposti per ottenere il green pass si rivelano già oggi complicati, cosa potrebbe accadere se un'estensione temporale dello strumento rendesse necessario aggiungerne degli altri, che magari con la sfera sanitaria hanno poco o nulla a che vedere? Magari aver pagato regolarmente le tasse o avere una fedina penale immacolata. Scenari irrealistici, probabilmente, ma chi può dirsi al sicuro se già tante conquiste nel campo dei diritti sono state calpestate in nome delle ragioni sanitarie? <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/patentino-senza-scadenza-rischia-guinzaglio-2653884603.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="abbiamo-pure-gli-esodati-del-vaccino" data-post-id="2653884603" data-published-at="1626893531" data-use-pagination="False"> Abbiamo pure gli esodati del vaccino Il grido «facciamo come i francesi!» fa tremare gli esodati dei vaccini. In attesa di leggere nel nuovo decreto le regole su quanto e come verrà esteso il green pass obbligatorio, c'è infatti una categoria di italiani che rischia di rimanere sospesa nel limbo: quelli che hanno partecipato alla sperimentazione di Reithera. Non essendo il vaccino ancora approvato, perché appunto in fase di studio, chi ha ricevuto la dose non può ricevere il green pass che vale solo per i vaccini autorizzati dalla Ue e non può comunque vaccinarsi con quelli autorizzati perché gli è stato somministrato un prodotto diverso e possono avere già sviluppato anticorpi. L'ultimo studio di Reithera, quello di Fase 2 iniziato a marzo, è stato fatto su 917 volontari arruolati (quello di Fase 1 era su 45). Stesso discorso vale per i volontari che si sono fatti inoculare l'altro vaccino italiano Covid-eVax, delle aziende Takis e Rottapharm Biotech. La sperimentazione clinica di Fase 1 e 2, frutto di una collaborazione internazionale alla quale partecipa anche l'Istituto Spallanzani (coinvolto anche nello sviluppo di Reithera), è in corso. Parliamo in questo caso di 80 persone in fase 1 e 240 previsti per la fase 2, quindi circa 300 volontari in totale anche se ad alcuni di essi è stato somministrato il placebo. Gli «esodati» di Reithera e Takis potranno comunque contare su un green pass ad hoc? Vedremo, sperando che qualcuno ci abbia pensato. Nel frattempo, tornando a Reithera, in questi giorni si è tenuto un incontro nella sede di Castel romano tra Antonella Folgori, presidente di Reithera Italia, Stefano Colloca, socio e responsabile dello sviluppo scientifico, e Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, con una delegazione del ministero degli Esteri messicano. Già lo scorso 13 luglio si era svolto allo Spallanzani una riunione tra l'ambasciatore della Repubblica del Messico Carlos Garcia d'Alba ed il direttore Francesco Vaia cui avevano partecipato rappresentanti della società biotech. Obiettivo: approfondire l'opportunità di sostenere la fase 3 della sperimentazione, quella che precede l'autorizzazione all'uso clinico. Nonché la possibilità, una volta ottenuto il via libera al vaccino prodotto dall'azienda italiana, di vendere il prodotto anche all'estero. In questo momento il gruppo, dopo la fase 1 sperimentata con lo Spallanzani, sta completando gli studi di fase due con 24 centri clinici. Nella fase 3 bisognerà invece continuare la sperimentazione con centinaia di centri in Italia e nel mondo, per testare il vaccino anche sulle diverse etnie. Sebbene l'interesse dei messicani e di altri investitori sudamericani (da Cile e Brasile) venga già dipinto dai compañeros di Repubblica come la dimostrazione che il vaccino prodotto a Castel Romano fa gola a parecchi, è soprattutto Reithera ad aver bisogno - urgentemente - di fondi per andare avanti. Il progetto del vaccino «italiano» si è infranto sull'alt delle toghe e le inadempienze dell'ex commissario Domenico Arcuri (oggi ancora al timone di Invitalia). A metà marzo 2020, infatti, lo Spallanzani chiude un accordo con Reithera e avvia il primo mini finanziamento. Il 23 marzo il Consiglio nazionale delle ricerche approva il protocollo d'intesa con l'istituto romano che riceve così 8 milioni: 5 dalla Regione Lazio e 3 dal Cnr. Tra aprile e maggio Arcuri convoca i vertici di Reithera suggerendo di non ascoltare le sirene di fondi esteri. Il vaccino sarebbe dovuto rimanere italiano, anche a costo di brandire l'arma del golden power. A febbraio del 2021 Invitalia finalizza la promessa di finanziare il vaccino con 88 milioni ma quando diventa socio ne versa soltanto 11. Con l'arrivo di Mario Draghi, Arcuri decade da commissario. A metà maggio 2021, la Corte dei Conti boccia il contratto di Reithera con Invitalia perché l'investimento per il progetto non può comprendere l'acquisto della sede operativa. Per la Fase 3 servirà arruolare fra i 5 e i 10.000 volontari ma il costo della sperimentazione si aggira attorno ai 60 milioni. Che Reithera non ha.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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