2021-08-04
Per i pasdaran del dogma vaccinale i dubbiosi vanno insultati o rieducati
Walter Veltroni invita ad abbassare i toni sul pass. Giusto intento, tuttavia il dem descrive chi la pensa diversamente come un ignorante non da ascoltare, bensì da indottrinare gentilmente. Il dissenso resta inammissibile.Ha molte ragioni Walter Veltroni quando chiede (lo ha fatto ieri tramite il Corriere della Sera) di cambiare i toni e i modi con i quali ci occupiamo del Covid. La brutalità che innerva il dibattito pubblico sulla gestione della pandemia è evidente a chiunque, a prescindere dalle posizioni politiche. Grida, insulti, attacchi all'arma bianca: nulla ci viene risparmiato. Il lessico pandemico, dice Veltroni, ha creato una dimensione totalizzante e ha espulso «dal circuito della comunicazione tutto ciò che esulasse dalla vita a una dimensione alla quale il virus ci ha costretto». Il dibattito si è «radicalizzato», diventando «subitaneamente estremo è violento, in primo luogo proprio nel linguaggio». È senz'altro vero, e anche molto condivisibile: più i giorni passano, più la discussione si radicalizza. Abbassare i toni, evitare la violenza linguistica sarebbe effettivamente opportuno, oltre che più dignitoso per una nazione civile.L'editoriale di Veltroni, pur nella sensibilità e nel rispetto per l'altro che dimostra, è tuttavia rivelatore del vero problema con cui tocca fare i canti. Walter scrive che la radicalizzazione della discussione ha rafforzato «i pregiudizi antiscientifici» e che, nel contempo, «le follie delle fake news hanno inquinato il fiume delle parole e dei conseguenti comportamenti. Il tempo del positivismo tecnologico […] ha lasciato spazio a nuovi pregiudizi contro il sapere, la scienza, la ricerca». Con un pizzico di paternalismo molto veltroniano, l'editorialista spiega che i riottosi – ovvero tutti gli appartenenti alla nebulosa definita «no vax» - non vanno demonizzati, derisi, insultati. Bensì convinti «usando proprio quelle modalità di linguaggio che sembrano ormai desuete. La ragione, i dati, il sapere». Conclude Veltroni: «Accettiamo l'altro da noi, anche il più insopportabile altro da noi, come uno stimolo a spiegarci meglio, non a urlare più forte».Quest'ultima frase è di sicuro apprezzabile. Però tutto il discorso precedente rivela esattamente l'impostazione da cui scaturiscono le tensioni delle ultime settimane. Walter, al solito pacato, invita a usare le «maniere dolci» per convincere i presunti no vax. Parte dalla certezza incrollabile che l'esposizione di dati, numeri e «sapere» sia in grado di far cambiare posizione a chi contesta le misure governative antivirus. Egli, insomma, dà per scontato che ci sia – nel dibattito – una parte che ha ragione e una che ha torto marcio. Una parte, quest'ultima, che è in preda alla «esaltazione muscolare dell'inesperienza e dell'incosapevolezza come garanzia di purezza assoluta», alla «inebriante sensazione di sentirsi parte di un universo solo perché i social, usando gli algoritmi, ti hanno creato attorno una comunità di simili che ti approva, esalta, ti spinge a gridare più forte». I presunti no vax, insomma, appaiono come bambini un po' capricciosi con i quali non serve gridare: meglio qualche caramella e due carezze.Sarà anche un approccio più gentile, non lo mettiamo in dubbio, ma resta ingannevole, perché stabilisce a priori che chi protesta abbia torto. Il discorso veltroniano (che ovviamente coincide con quello prevalente) non tiene conto delle ragioni dell'altro: si limita a cercare la strategia più efficace per riportarlo sulla «strada giusta». Fino ad oggi l'intera riflessione politica e pubblica sul virus si è svolta secondo queste esatte modalità. Si è stabilito che ci fossero una ragione e un torto, e chi è finito dalla parte del torto è stato rapidamente cancellato, mai ascoltato realmente.Il punto non è trovare il modo di neutralizzare la protesta. Non si tratta di «maneggiare con rispetto» il dissenziente, nemmeno fosse un «bambino speciale» a cui usare qualche cortesia. No, qui si tratta di dare reale cittadinanza alle idee che esulino dal sentiero già tracciato. E che non possono essere eliminate esibendo «dati e sapere», perché proprio i «dati e il sapere» le animano.Tanto per cominciare, si dovrebbe smettere di etichettare chiunque muova obiezioni come «no vax». In questa categoria rientrano, volendo semplificare, soltanto coloro che rifiutano i vaccini per motivi «ideologici». Ma il raggio della protesta è estremamente più alto, e va ben oltre l'ideologia o bislacche convinzioni sulle sonde aliene impiantate tramite l'iniezione (guarda caso i media si concentrano sempre su queste). Chi contesta il green pass, ad esempio, parte appunto dai dati, dalle (poche) certezze esposte dagli scienziati, da valutazioni che si fondano sulla logica, non sul preconcetto. Che c'è da «spiegare» a chi osteggia il lasciapassare esibendo cifre e statistiche? Nulla. E infatti il governo non spiega, anzi tende a reprimere. I media e i «maestri del pensiero» non dialogano, ma attaccano.Ci sono persone (intellettuali, giornalisti, politici) che non si esprimono berciando o insultando, al contrario espongono le proprie argomentazioni con molto garbo. Eppure vengono aggredite, vilipese, liquidate come ignoranti o «senza cervello», come ha scritto Piergiorgio Odifreddi. Tra gli altri, è capitato, lunedì sera su Rete 4, a Elisabetta Gardini di Fratelli d'Italia. Ma è accaduto pure a Giorgio Agamben, trattato come un vecchio rincitrullito per aver osato scrivere alcuni commenti molto raffinati sulla pandemia.Certo, la violenza verbale c'è eccome pure sul fronte contestatario. Ma i casi appena citati dimostrano che esiste una violenza del pensiero dominante che è precedente a qualunque discorso pubblico. Il potere ha già stabilito come debbano andare le cose, di conseguenza il dissenso non è ammesso, nemmeno se è educato, nemmeno se si basa sui dati e la logica. Chiaro: meglio la gentilezza del manganello, ma se i presupposti sono questi vuol dire che ci tocca scegliere tra rieducazione o repressione violenta. Cioè fra le alternative solitamente proposte dai regimi autoritari.Da una parte ci sono i «sorci» di Burioni, dall'altra Veltroni che fa lezione ai piccoli indisciplinati. Il secondo è più dolce, però l'approccio non è molto diverso. E a metterlo in atto, a proporre restrizioni e discriminazioni anche feroci, sono proprio coloro che, per anni, hanno gridato al «pericolo nero», al «fascismo di ritorno», al «rischio per la democrazia». A quanto pare, difendevano la democrazia perché volevano riservarsi il privilegio di sospenderla.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)