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2021-05-28
Partiti spiazzati: Semplificazioni oggi in Cdm
Mario Draghi (Pool /Insidefoto/Augusto Casasoli/Mondadori Portfolio via Getty images)
Si va verso un compromesso complessivamente ragionevole, anche se i sindacati - Cgil in testa - mentre rivendicano un risultato positivo sulle semplificazioni, continuano a dichiararsi sul piede di guerra sui licenziamenti.
Ma procediamo con ordine. Oggi andrà in Consiglio dei ministri il decreto Semplificazioni: possibile che vada tutto liscio, o che invece occorra ancora qualche altro giorno per le limature. Ma siamo sostanzialmente in dirittura d'arrivo, anche considerando il doppio impegno assunto dal governo con Bruxelles: varo del provvedimento entro fine maggio e sua conversione in legge entro giugno (obiettivo più difficile, visto che il Parlamento ha tempo 60 giorni per convertire i decreti).
Ieri Mario Draghi, insieme al ministro del Lavoro Andrea Orlando, ha visto i rappresentanti sindacali. Alcune ore prima si era invece riunita la cabina di regia (organo, come si sa, costituzionalmente inesistente, eppure ormai affermatosi di fatto). Presenti, con Draghi, i ministri Vittorio Colao, Roberto Cingolani, Enrico Giovannini, Andrea Orlando, Dario Franceschini, Daniele Franco, Massimo Garavaglia, Renato Brunetta, Elena Bonetti, Roberto Speranza, Fabiana Dadone, più il sottosegretario Roberto Garofoli. Giancarlo Giorgetti era in collegamento online.
Risultato? Su richiesta pressoché generale, è stato accantonato - per essere bocciato - il criterio del massimo ribasso, un po' da tutti ritenuto nemico della qualità delle offerte e quindi delle opere pubbliche da realizzare. Il solito Enrico Letta, reduce da una sequenza di umiliazioni, ha provato a mettere il cappello su questo punto: «L'eliminazione del massimo ribasso è un ottimo segnale. L'avevamo chiesto con forza. Bene». Ma in realtà - su questo - erano e sono d'accordo tutti. Ecco infatti la reazione di Matteo Salvini: «Non si parlerà più di appalti al massimo ribasso per le opere pubbliche, che non tutelano l'interesse collettivo e nemmeno quello delle imprese sane».
Dopo di che, per ciò che riguarda invece il subappalto, si profila un innalzamento oltre il 40% della quota dei lavori che potrebbero andare in subappalto, anche considerando la struttura delle imprese operanti in Italia. Su questo, i sindacati incassano una mezza sconfitta. Ma recuperano con una mezza vittoria sul trattamento normativo di tutti i lavoratori coinvolti: anche quelli legati alle imprese in subappalto si vedranno infatti applicare le norme del contratto collettivo nazionale dei lavoratori facenti capo alle imprese appaltatrici.
Insomma, un compromesso che potrebbe tenere, come sottolinea il ministro per le Pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti, secondo cui la situazione «si sta ricomponendo grazie al metodo, all'efficacia e all'efficienza del presidente Draghi». Il decreto va in cdm, dunque? «Penso di sì», risponde la renziana.
Morale, oggi in Cdm dovrebbero arrivare il decreto semplificazioni e il Pnrr, con i suoi cosiddetti tre pilastri: la progettazione della governance del piano stesso, le semplificazioni e un piano di reclutamento nella pubblica amministrazione.
Resta da capire quale sarà l'atteggiamento del sindacato, a partire dalla Cgil di Maurizio Landini, sull'altro corno della questione, e cioè la norma sui licenziamenti. Fallito il blitz di Orlando, che voleva estendere lo stop per un tempo eccessivamente lungo, sembra ormai acquisita l'altra mediazione voluta da Draghi: stop fino a fine giugno, e poi possibilità di licenziare tranne che per le imprese che ricorrono alla cassa integrazione. In sostanza non un divieto assoluto di licenziare ma un forte disincentivo a farlo. Su questo però una Cgil in cerca di protagonismo minaccia ancora sciopero.
Il che rischia di essere incomprensibile nel metodo (rilanciare l'economia di un Paese con uno sciopero generale è un'impostazione per lo meno curiosa), oltre che massimalista e ideologico nel merito, perché una norma come quella inizialmente ipotizzata dal ministro del Lavoro avrebbe caricato sulle imprese un'alea enorme, tale da poterle schiacciare, in ultima analisi mettendo a rischio tutti i posti di lavoro, non solo alcuni. Vedremo se anche su questo, dopo la mossa falsa di Orlando, il Pd continuerà a dare spago a Landini.
Resta infatti un punto politico di fondo, che riporta alla sostanziale inaffidabilità del Pd: se non ci fosse stato il tentato blitz di Orlando, poi inevitabilmente costretto a fare un passo indietro, la Cgil non avrebbe avuto il pretesto di scatenare lo scontro col governo a causa del successivo cambiamento della norma. Magari Landini avrebbe lo stesso alzato i toni, ma è stato Orlando a offrirgli l'occasione su un piatto d'argento. A testimonianza del fatto che il Pd, lungi dall'essere forza stabilizzatrice del governo, crea un problema al giorno.
Letta a Palazzo Chigi per ricucire. E da incendiario diventa pompiere
Un Enrico Letta in uno stato di palpabile difficoltà politica ha varcato ieri il portone di Palazzo Chigi, dopo la sequenza di problemi (tutti evitabili, tutti volontariamente procurati) che lui stesso ha causato al governo e alla maggioranza. L'elenco è così lungo da essere ormai difficile da recitare a memoria: ius soli, legge Zan, voto ai sedicenni, tassa di successione, fino alle ultime sparate del Pd su licenziamenti e semplificazioni.
Dopo la stroncatura della scorsa settimana da parte di Mario Draghi in persona dell'aumento della tassa di successione («Non è tempo di prendere soldi, è tempo di darne»), Letta si era affrettato a rendere nota una sua telefonata di presunto chiarimento con il premier, precisando in un comunicato, con una certa coda di paglia, che con Draghi c'è «consuetudine di rapporti». Non sfugge a nessuno che, nella vita personale e nella politica, quando c'è tale consuetudine, non si avverte il bisogno di ribadirla per iscritto.
La realtà è che a Palazzo Chigi c'è irritazione crescente verso il Pd: e non solo per le rodomontate direttamente ascrivibili a Letta, ma anche per il ruolo incendiario che il ministro Andrea Orlando, nella partita sui licenziamenti, ha giocato rispetto alla Cgil.
È per questo che Letta ieri è andato a Canossa, naturalmente cercando - subito dopo - di dissimulare l'imbarazzo, e anzi di rivendicare la tenuta delle sue posizioni. Ecco infatti il tweet post meeting: «Lungo e proficuo colloquio a Chigi con Draghi. Sintonia piena e determinazione ad accelerare le riforme su giustizia, fisco, lavoro e semplificazioni che sono alla base del patto con l'Ue, riforme per le quali porteremo le nostre idee e troveremo le migliori sintesi. Avanti». E ancora: «Con Draghi abbiamo parlato delle grandi riforme, quella della giustizia, che è importantissima, la riforma del fisco, dentro cui noi proporremmo varie idee, fra cui quella sulla successione per i patrimoni più ricchi, poi le semplificazioni, il mercato del lavoro. Con Draghi abbiamo condiviso un metodo, noi portiamo le nostre proposte, lavoriamo nella stessa direzione».
Il tentativo di salvare capra e cavoli è fin troppo evidente: da un lato, provare a riaccreditarsi come leale forza di maggioranza; dall'altro, ribadire che Letta e il Pd non rinunceranno alle loro posizioni («Porteremo le nostre idee»). Insomma, tirare la corda per poi trovare «le migliori sintesi».
In giornata Letta ha anche riunito la segreteria del partito al Nazareno con all'ordine del giorno la riforma fiscale e le proposte dem, oltre alle elezioni amministrative di ottobre. Anche qui un tentativo un po' affannoso di presentarsi come partito «sia di lotta sia di governo», in realtà barcamenandosi tra una sostanziale subalternità all'agenda Draghi e il tentativo di far vedere che invece esiste anche un'agenda Letta. Operazione finora pateticamente fallita: tutti vedono che, in mancanza di un'effettiva capacità di incidere, il Pd lettiano si è buttato sulla mera propaganda, peraltro largamente inefficace.
In fin dei conti, il neosegretario sconta due contraddizioni ormai brucianti. La prima è quella di aver provato - all'inizio del suo mandato - ad accreditare la Lega come forza destabilizzatrice e il Pd come partito leale e credibile: ora, però, i fatti stanno clamorosamente dimostrando il contrario. La seconda contraddizione sta nell'altra operazione non riuscita: quella di assorbire e contemporaneamente «civilizzare» i grillini. L'assorbimento è fallito, visto che (a partire da Roma) il M5s farà corsa autonoma alle amministrative, e anche culturalmente è proprio il Pd (si pensi all'ennesimo bonus proposto da Letta stesso) che sembra subire la peggiore influenza pentastellata. Non viceversa.
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Cambio di agenda, meno tempo per litigare. Salta il massimo ribasso ma verrà alzata oltre il 40% la soglia per i subappalti. Resta lo scontro con i sindacati, innescato da Andrea Orlando, sul blocco dei licenziamenti. Maurizio Landini minaccia uno sciopero generale.Il dem dopo il no di Mario Draghi alla tassa di successione: «Troveremo la miglior sintesi»Lo speciale contiene due articoli.Si va verso un compromesso complessivamente ragionevole, anche se i sindacati - Cgil in testa - mentre rivendicano un risultato positivo sulle semplificazioni, continuano a dichiararsi sul piede di guerra sui licenziamenti. Ma procediamo con ordine. Oggi andrà in Consiglio dei ministri il decreto Semplificazioni: possibile che vada tutto liscio, o che invece occorra ancora qualche altro giorno per le limature. Ma siamo sostanzialmente in dirittura d'arrivo, anche considerando il doppio impegno assunto dal governo con Bruxelles: varo del provvedimento entro fine maggio e sua conversione in legge entro giugno (obiettivo più difficile, visto che il Parlamento ha tempo 60 giorni per convertire i decreti).Ieri Mario Draghi, insieme al ministro del Lavoro Andrea Orlando, ha visto i rappresentanti sindacali. Alcune ore prima si era invece riunita la cabina di regia (organo, come si sa, costituzionalmente inesistente, eppure ormai affermatosi di fatto). Presenti, con Draghi, i ministri Vittorio Colao, Roberto Cingolani, Enrico Giovannini, Andrea Orlando, Dario Franceschini, Daniele Franco, Massimo Garavaglia, Renato Brunetta, Elena Bonetti, Roberto Speranza, Fabiana Dadone, più il sottosegretario Roberto Garofoli. Giancarlo Giorgetti era in collegamento online. Risultato? Su richiesta pressoché generale, è stato accantonato - per essere bocciato - il criterio del massimo ribasso, un po' da tutti ritenuto nemico della qualità delle offerte e quindi delle opere pubbliche da realizzare. Il solito Enrico Letta, reduce da una sequenza di umiliazioni, ha provato a mettere il cappello su questo punto: «L'eliminazione del massimo ribasso è un ottimo segnale. L'avevamo chiesto con forza. Bene». Ma in realtà - su questo - erano e sono d'accordo tutti. Ecco infatti la reazione di Matteo Salvini: «Non si parlerà più di appalti al massimo ribasso per le opere pubbliche, che non tutelano l'interesse collettivo e nemmeno quello delle imprese sane».Dopo di che, per ciò che riguarda invece il subappalto, si profila un innalzamento oltre il 40% della quota dei lavori che potrebbero andare in subappalto, anche considerando la struttura delle imprese operanti in Italia. Su questo, i sindacati incassano una mezza sconfitta. Ma recuperano con una mezza vittoria sul trattamento normativo di tutti i lavoratori coinvolti: anche quelli legati alle imprese in subappalto si vedranno infatti applicare le norme del contratto collettivo nazionale dei lavoratori facenti capo alle imprese appaltatrici. Insomma, un compromesso che potrebbe tenere, come sottolinea il ministro per le Pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti, secondo cui la situazione «si sta ricomponendo grazie al metodo, all'efficacia e all'efficienza del presidente Draghi». Il decreto va in cdm, dunque? «Penso di sì», risponde la renziana.Morale, oggi in Cdm dovrebbero arrivare il decreto semplificazioni e il Pnrr, con i suoi cosiddetti tre pilastri: la progettazione della governance del piano stesso, le semplificazioni e un piano di reclutamento nella pubblica amministrazione. Resta da capire quale sarà l'atteggiamento del sindacato, a partire dalla Cgil di Maurizio Landini, sull'altro corno della questione, e cioè la norma sui licenziamenti. Fallito il blitz di Orlando, che voleva estendere lo stop per un tempo eccessivamente lungo, sembra ormai acquisita l'altra mediazione voluta da Draghi: stop fino a fine giugno, e poi possibilità di licenziare tranne che per le imprese che ricorrono alla cassa integrazione. In sostanza non un divieto assoluto di licenziare ma un forte disincentivo a farlo. Su questo però una Cgil in cerca di protagonismo minaccia ancora sciopero. Il che rischia di essere incomprensibile nel metodo (rilanciare l'economia di un Paese con uno sciopero generale è un'impostazione per lo meno curiosa), oltre che massimalista e ideologico nel merito, perché una norma come quella inizialmente ipotizzata dal ministro del Lavoro avrebbe caricato sulle imprese un'alea enorme, tale da poterle schiacciare, in ultima analisi mettendo a rischio tutti i posti di lavoro, non solo alcuni. Vedremo se anche su questo, dopo la mossa falsa di Orlando, il Pd continuerà a dare spago a Landini. Resta infatti un punto politico di fondo, che riporta alla sostanziale inaffidabilità del Pd: se non ci fosse stato il tentato blitz di Orlando, poi inevitabilmente costretto a fare un passo indietro, la Cgil non avrebbe avuto il pretesto di scatenare lo scontro col governo a causa del successivo cambiamento della norma. Magari Landini avrebbe lo stesso alzato i toni, ma è stato Orlando a offrirgli l'occasione su un piatto d'argento. A testimonianza del fatto che il Pd, lungi dall'essere forza stabilizzatrice del governo, crea un problema al giorno. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/partiti-spiazzati-semplificazioni-oggi-in-cdm-2653128289.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="letta-a-palazzo-chigi-per-ricucire-e-da-incendiario-diventa-pompiere" data-post-id="2653128289" data-published-at="1622141894" data-use-pagination="False"> Letta a Palazzo Chigi per ricucire. E da incendiario diventa pompiere Un Enrico Letta in uno stato di palpabile difficoltà politica ha varcato ieri il portone di Palazzo Chigi, dopo la sequenza di problemi (tutti evitabili, tutti volontariamente procurati) che lui stesso ha causato al governo e alla maggioranza. L'elenco è così lungo da essere ormai difficile da recitare a memoria: ius soli, legge Zan, voto ai sedicenni, tassa di successione, fino alle ultime sparate del Pd su licenziamenti e semplificazioni. Dopo la stroncatura della scorsa settimana da parte di Mario Draghi in persona dell'aumento della tassa di successione («Non è tempo di prendere soldi, è tempo di darne»), Letta si era affrettato a rendere nota una sua telefonata di presunto chiarimento con il premier, precisando in un comunicato, con una certa coda di paglia, che con Draghi c'è «consuetudine di rapporti». Non sfugge a nessuno che, nella vita personale e nella politica, quando c'è tale consuetudine, non si avverte il bisogno di ribadirla per iscritto. La realtà è che a Palazzo Chigi c'è irritazione crescente verso il Pd: e non solo per le rodomontate direttamente ascrivibili a Letta, ma anche per il ruolo incendiario che il ministro Andrea Orlando, nella partita sui licenziamenti, ha giocato rispetto alla Cgil. È per questo che Letta ieri è andato a Canossa, naturalmente cercando - subito dopo - di dissimulare l'imbarazzo, e anzi di rivendicare la tenuta delle sue posizioni. Ecco infatti il tweet post meeting: «Lungo e proficuo colloquio a Chigi con Draghi. Sintonia piena e determinazione ad accelerare le riforme su giustizia, fisco, lavoro e semplificazioni che sono alla base del patto con l'Ue, riforme per le quali porteremo le nostre idee e troveremo le migliori sintesi. Avanti». E ancora: «Con Draghi abbiamo parlato delle grandi riforme, quella della giustizia, che è importantissima, la riforma del fisco, dentro cui noi proporremmo varie idee, fra cui quella sulla successione per i patrimoni più ricchi, poi le semplificazioni, il mercato del lavoro. Con Draghi abbiamo condiviso un metodo, noi portiamo le nostre proposte, lavoriamo nella stessa direzione». Il tentativo di salvare capra e cavoli è fin troppo evidente: da un lato, provare a riaccreditarsi come leale forza di maggioranza; dall'altro, ribadire che Letta e il Pd non rinunceranno alle loro posizioni («Porteremo le nostre idee»). Insomma, tirare la corda per poi trovare «le migliori sintesi». In giornata Letta ha anche riunito la segreteria del partito al Nazareno con all'ordine del giorno la riforma fiscale e le proposte dem, oltre alle elezioni amministrative di ottobre. Anche qui un tentativo un po' affannoso di presentarsi come partito «sia di lotta sia di governo», in realtà barcamenandosi tra una sostanziale subalternità all'agenda Draghi e il tentativo di far vedere che invece esiste anche un'agenda Letta. Operazione finora pateticamente fallita: tutti vedono che, in mancanza di un'effettiva capacità di incidere, il Pd lettiano si è buttato sulla mera propaganda, peraltro largamente inefficace. In fin dei conti, il neosegretario sconta due contraddizioni ormai brucianti. La prima è quella di aver provato - all'inizio del suo mandato - ad accreditare la Lega come forza destabilizzatrice e il Pd come partito leale e credibile: ora, però, i fatti stanno clamorosamente dimostrando il contrario. La seconda contraddizione sta nell'altra operazione non riuscita: quella di assorbire e contemporaneamente «civilizzare» i grillini. L'assorbimento è fallito, visto che (a partire da Roma) il M5s farà corsa autonoma alle amministrative, e anche culturalmente è proprio il Pd (si pensi all'ennesimo bonus proposto da Letta stesso) che sembra subire la peggiore influenza pentastellata. Non viceversa.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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