2021-04-18
Partita vinta ai tassisti del mare
Enrico Letta con il fondatore di Open Arms, Oscar Camps (Ansa)
Il processo per sequestro di persona a Matteo Salvini segna la resa definitiva dei politici ai magistrati. E sancisce che i confini, in Italia, sono stati aboliti per via giudiziaria: opporsi alla pretesa delle Ong di sbarcare i migranti tutti qui è infatti impossibile.«Dottò, la preferisce al burro o al sugo?». Non si tratta della tagliatella all'uovo ma della giustizia, che a Catania chiede il non luogo a procedere per Matteo Salvini e a Palermo lo manda a processo. Stessa tipologia di reato, stesso codice penale, atti molto simili (i pm palermitani hanno acquisito le deposizioni catanesi), conclusioni diametralmente opposte. Un caso di scuola per studenti di giurisprudenza ma uno scenario inquietante per i cittadini che osservano la bilancia della legge in bilico solo nelle boiserie delle aule di tribunale. All'apparenza la dea bendata sembra quella della fortuna o di certi sorteggi arbitrali del passato, pallina fredda-pallina calda. In nome dell'incertezza del diritto, a 207 chilometri di distanza, nella stessa regione, la decisione politica di un ministro nell'esercizio delle sue funzioni viene giudicata da «richiesta di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste» (Andrea Bonomo sotto l'Etna) a «non ci sono elementi per il non luogo a procedere» (il gup Lorenzo Jannelli nell'aula bunker dell'Ucciardone). Il surreale slalom parallelo continua. Salvini aveva intuito tutto. Quando due giorni fa ha annunciato che non poteva recarsi con la delegazione della Lega a incontrare Mario Draghi per un «impegno famigliare», stava andando dai figli a spiegare loro che avrebbe potuto finire a processo per il presunto sequestro di 147 persone tenute per sei giorni a bordo della Open Arms. E questo è successo proprio nel caso più apparentemente pacifico: se qualche dubbio poteva teoricamente sorgere per il blocco di navi italiane come la Diciotti e la Gregoretti, è difficile immaginare un ministro alla sbarra per avere chiesto controlli e garanzie rispetto a un'imbarcazione battente bandiera spagnola con a bordo stranieri non identificati. In linea di principio, a nessuno è mai venuto in mente di denunciare per sequestro di persona Alberto Sordi vestito da vigile che intima all'automobilista: «Accosti e favorisca la patente». All'università si insegna che i giudici devono «applicare la legge alla quale sono soggetti», non interpretarla. Lo scandisce la Costituzione più bella del mondo. Perché i codici non sono spartiti musicali nei quali il genio di Herbert Von Karajan può esaltare una nota che Carlos Kleiber non sentirebbe mai. La legge non suona, è impersonale e muta. Invece da Catania a Palermo la musica cambia, si decompone, diventa rumore di lotta politica. Dove il sindaco Leoluca Orlando, che si dimenticò di costituirsi parte civile nel procedimento contro le cosche 2.0, lo ha fatto contro un leader politico a lui avverso. In teoria sarà una sentenza a sancire che limitare l'immigrazione è illegale. È tutta una faccenda da spiegare, se a Salvini va male lo farà fra qualche anno la Cassazione. Qualche garantista della domenica con la sindrome da Horatio Nelson ha già argomentato che «il processo non è contro Salvini ma per stabilire se basta essere ministri per bypassare i doveri del diritto del mare». Stridore di unghie sul vetro; quello esercitato fu il diritto esclusivo di Marc Reig Creus, comandante della Open Arms, di scegliersi il luogo dove creare un incidente diplomatico per forzare la mano al governo italiano. Inoltre un processo non è un convegno con le tartine al tonno finali ma un rito che prevede un imputato. E se l'imputato è un ministro nell'esercizio delle sue prerogative, alla sbarra non c'è solo lui, ma le scelte legittime del parlamento eletto.Chi difende il primato della politica sa che fin qui non si doveva arrivare. In democrazia una linea politica suffragata da atti parlamentari non può essere scardinata da un tribunale ma eventualmente solo (come è accaduto per i decreti Sicurezza) da una nuova maggioranza. Con il processo a Salvini non solo il giudice si sostituisce al Parlamento - ormai è uno sport che va dai doveri dei monopattini alle adozioni gay - ma lo fa attraverso un dibattimento processuale. Una toga, in primo grado, dirà ai ministri presenti e futuri come dovranno comportarsi davanti all'immigrazione indiscriminata. E forse un giorno quale cravatta indossare. È il sabba perfetto per piccoli Berja della politica e per l'esercito di giacobini che affolla la sinistra piddina e grillina, abituata a eliminare gli avversari per via giudiziaria. Ma è anche la vittoria di Pirro di Matteo Renzi che dopo essersi esibito in un assolo ciceroniano in difesa della democrazia, nel giorno più nero votò per l'autorizzazione a procedere e disse da pugnalatore in penombra: «Game over». Ora il senatore di Scandicci (con quale credibilità?) continua a ripetere che «serve una riforma strutturale della Giustizia». Si rilegga i capi d'imputazione, misuri la distanza in passi fra Catania e Palermo e si prenda a schiaffi: il corto circuito davanti ai nostri occhi è anche figlio suo. Game over. Salvini è entrato ufficialmente nel tritacarne, si faccia dare qualche dritta da Silvio Berlusconi sugli effetti. Ci è entrato da solo, anche se in Italia il premier viene definito presidente del Consiglio proprio perché presiede un organismo collegiale chiamato Consiglio dei ministri. Una collegialità voluta dai padri costituenti per impedire colpi di testa e condividere, bilanciare responsabilità collettive. Quindi di Giuseppe Conte, di Danilo Toninelli, di tutto l'esecutivo, al di là delle fumose distinzioni fra scelte politiche e scelte amministrative. Torna alla mente la conversazione fra Paolo Auriemma e Luca Palamara: «Non vedo dove stia sbagliando Salvini». «Hai ragione ma bisogna attaccarlo». Era l'ultima occasione.