2019-12-20
Parte l’impeachment e rischia di inguaiare più i dem che Trump
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Il processo al presidente è destinato a finire in nulla al Senato. Ma può azzoppare i suoi fautori in vista delle elezioni 2020.Si è respirata alta tensione al sesto dibattito tra i candidati alla nomination democratica, che ha avuto luogo ieri sera a Los Angeles e che ha ospitato sinora il minor numero di contendenti nell'ambito delle attuali sovraffollate primarie dell'asinello.Lo speciale contiene due articoli.L'Armageddon a stelle e strisce è servito. Mercoledì, la Camera dei rappresentanti ha formalmente messo in stato d'accusa Donald Trump: si tratta del terzo presidente a subire un processo di impeachment nella storia americana, dopo Andrew Johnson (nel 1868) e Bill Clinton (nel 1998). Il voto è avvenuto in seguito a un estenuante dibattito parlamentare. Se i deputati repubblicani si sono graniticamente compattati attorno al presidente, nella maggioranza democratica si è verificato invece qualche scricchiolio: per il primo capo d'imputazione (abuso di potere) si sono registrate due defezioni, mentre per il secondo (intralcio al Congresso) ce ne sono state tre. Tutto questo, mentre la deputata delle Hawaii e attuale candidata alla nomination democratica per le presidenziali del 2020, Tulsi Gabbard, ha votato «presente» in entrambe le occasioni. «Non possiamo fare affidamento sulle prossime elezioni come rimedio alla cattiva condotta presidenziale quando il presidente minaccia la stessa integrità di quelle elezioni», ha dichiarato il presidente della commissione giudiziaria, il democratico Jerrold Nadler. Feroce la reazione di Trump che, nel corso di un comizio in Michigan mercoledì sera, ha tuonato: «I democratici stanno mostrando il loro disprezzo per l'elettore americano. È dall'inizio che stanno cercando di mettermi in stato d'accusa». Il presidente ha anche parlato di «suicidio politico».Il processo, presieduto dal giudice capo della Corte suprema John Roberts, si terrà in Senato, il cui controllo è nelle mani dei repubblicani che detengono 53 seggi su 100: numeri che, nei fatti, rendono altamente improbabile arrivare a una rimozione di Trump dallo scranno presidenziale. Per ottenere una condanna è infatti necessario un quorum pari a due terzi dei voti: una soglia difficilmente raggiungibile anche in caso si verificasse qualche defezione nel partito di Trump. Ciononostante lo scontro politico si è spostato, nelle ultime ore, sul versante procedurale. La speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, ha infatti minacciato di allungare i tempi della trasmissione al Senato dei capi d'imputazione, se non avrà la certezza che i repubblicani ascoltino nel processo ulteriori testimoni. Domenica scorsa, era stato il leader della minoranza al Senato, Chuck Schumer, a chiedere che venissero convocati alcuni funzionari dell'amministrazione Trump: proposta nettamente respinta dal capogruppo dell'elefantino, Mitch McConnell, che ha parlato ieri di una «crociata partigiana». La Pelosi sembra insomma voler mettere i repubblicani sotto pressione, per costringerli ad accettare la propria linea.Il punto è capire quanto questa eventuale strategia si rivelerà efficace. Se è vero che molti esponenti repubblicani al Senato vogliono un processo breve, la Casa Bianca non è granché di questo avviso. Non solo Trump auspica una sorta di riscossa alla camera alta, ma non bisogna dimenticare un ulteriore fattore: svariati degli attuali candidati alla nomination democratica 2020 sono senatori (Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Amy Klobuchar, Cory Booker e Michael Bennet). Nel caso il processo non si concludesse entro il 3 febbraio (data di inizio delle primarie democratiche), tutti loro sarebbero costretti a rimanere al Senato in una fase elettorale molto delicata, con conseguente rischio di azzoppamento politico. Senza trascurare, inoltre, che un processo lungo rischierebbe di oscurare mediaticamente le stesse primarie. L'impeachment contro Clinton iniziò il 19 dicembre del 1998 e si concluse il 12 febbraio dell'anno successivo, mentre quello contro Johnson si protrasse dal 2 marzo al 26 maggio del 1868. Alla luce di questo, la Casa Bianca potrebbe avere tutto da guadagnare nel caso si allungassero i tempi, visto che Trump avrebbe la possibilità di brandire la questione in campagna elettorale, infiammando la propria base e cercando magari di accattivarsi il voto degli indecisi. Un sondaggio di Gallup, diffuso l'altro ieri, ha d'altronde evidenziato come - da settembre a oggi - il sostegno all'impeachment sia diminuito del 6% a livello nazionale. È quindi palese che Trump si giocherà la rielezione sui dossier dell'economia e non sulla messa in stato d'accusa.Del resto, che i democratici pretendano un processo equo sarà anche giusto in termini di principio. Ma i primi ad aver trasformato questa situazione in uno strumento di mera lotta politica sono stati loro. Contrariamente ai precedenti storici, nel corso dell'indagine per impeachment non hanno garantito al partito d'opposizione un potere paritetico. Inoltre, questa stessa indagine si è basata su un rapporto interamente redatto dal partito avverso a quello del presidente in carica, invece che su un'inchiesta condotta da un procuratore speciale. Infine, nei casi di Johnson e Clinton il dibattito verteva su fatti incontestabili, il problema era se fossero o meno meritevoli di impeachment. Ad oggi, invece, non sono emerse prove irrefutabili nemmeno del fatto contestato a Trump, e cioè che il presidente abbia ricattato l'omologo di Kiev, Volodymyr Zelensky, affinché questi facesse partire un'indagine sugli affari ucraini del figlio del rivale democratico Joe Biden.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/parte-limpeachment-e-rischia-di-inguaiare-piu-i-dem-che-trump-2641657191.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="al-sesto-dibattito-democratico-amy-klobuchar-attacca-trump-parlando-di-watergate-internazionale" data-post-id="2641657191" data-published-at="1757789474" data-use-pagination="False"> Al sesto dibattito democratico Amy Klobuchar attacca Trump parlando di «Watergate internazionale» Andrew Yang (Ansa) Si è respirata alta tensione al sesto dibattito tra i candidati alla nomination democratica, che ha avuto luogo ieri sera a Los Angeles e che ha ospitato sinora il minor numero di contendenti nell'ambito delle attuali sovraffollate primarie dell'asinello. Soltanto sette i competitor sul palco: Joe Biden, Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Pete Buttigieg, Amy Klobuchar, Andrew Yang e Tom Steyer. Sull'intero dibattito ha aleggiato costantemente lo spettro del caucus dell'Iowa, che si terrà il prossimo 3 febbraio e che ha portato Buttigieg e la Warren a scontrarsi duramente, con la seconda che ha rimproverato il primo di farsi foraggiare da ricchi finanziatori. Il sindaco di South Bend si è difeso, dichiarando: «Donald Trump e i suoi alleati hanno reso evidente che non si fermeranno davanti a nulla. Questa è la nostra possibilità, questa è la nostra unica possibilità di sconfiggere Donald Trump e non dovremmo provare a farlo con una mano legata dietro la schiena». Il sindaco ha quindi ritorto le critiche della Warren contro la stessa senatrice, rimproverandole di aver ricevuto generosissime donazioni nel corso della sua ultima campagna elettorale per lo scranno in Senato. La questione non si è tuttavia risolta nell'aspro dibattito tra i due. Anche Sanders è andato all'attacco, accusando Biden e Buttigieg per aver ottenuto finanziamenti da miliardari. Tra l'altro, non è che il veleno si sia fermato al problema delle donazioni. La Klobuchar ha infatti rinverdito le sue critiche a Buttigieg, rinfacciandogli - come nei precedenti dibattiti - l'assenza di esperienza. Come accennato, questo coacervo di attacchi incrociati è stato principalmente determinato dalla furibonda concorrenza legata al caucus dell'Iowa: la competizione elettorale che aprirà il processo vero e proprio delle primarie e - rispetto a cui - si registra a oggi una profonda incertezza nei sondaggi. Se Biden vi appare in difficoltà, è pur vero che l'ex vicepresidente spererebbe nella faida tra Buttigieg e la Warren per imporsi, sebbene Sanders pare stia guadagnando non poco terreno in loco. Al di là delle disfide intestine, non sono ovviamente mancati gli strali contro Trump. Con la parziale eccezione di Yang, tutti i candidati ieri sera sul palco hanno duramente attaccato il presidente sulla questione dell'impeachment, con la Klobuchar che si è addirittura spinta a parlare di un «Watergate internazionale». Da notare tuttavia che sul palco ieri fossero presenti ben tre senatori (Sanders, la Warren e la stessa Klobuchar) e che - qualora il processo di impeachment alla camera alta dovesse sforare il 3 febbraio, costoro sarebbero costretti a sospendere temporaneamente la propria campagna elettorale, con conseguente rischio di danno politico. Un ulteriore fuoco di fila contro l'inquilino della Casa Bianca si è poi registrato sul versante economico: nonostante i buoni risultati conseguiti nel 2019 dagli Stati Uniti in termini di prodotto interno lordo e bassissima disoccupazione, i vari contendenti hanno sostenuto che questi fattori non avrebbero impatto positivo per la classe media, lamentando - tra l'altro - un basso livello dei salari: salari che - tuttavia - nell'ultimo anno hanno registrato una crescita del 3,1%. Attacchi contro Trump si sono verificati anche sul fronte della politica estera. Se Sanders ha criticato i legami del presidente americano con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, Buttigieg ha speso parole dure per l'attuale politica della Casa Bianca in Medio Oriente: questo, anche se lui stesso - per mesi - si fosse detto favorevole a un minor coinvolgimento statunitense nell'area, arrivando ad auspicare un celere ritiro delle truppe americane dall'Afghanistan: posizione ribadita anche ieri sera, quando il sindaco ha dichiarato: «Non possiamo continuare con queste guerre senza fine». Esattamente quello che dice anche Trump dai tempi del 2016. Qualche stranezza si è registrata anche sulla Cina: molti dei candidati hanno accusato l'inquilino della Casa Bianca di non aver mantenuto una posizione chiara sulle proteste di Hong Kong e di non tenere in debita considerazione la questione dei diritti umani. Resta tuttavia il fatto che, poche settimane fa, il presidente americano abbia siglato una legge bipartisan del Congresso in forte sostegno dell'ex colonia britannica. E - cosa molto interessante - nessuno dei contendenti sul palco ha chiarito in modo netto se, da presidente, vorrà abolire o meno i dazi contro Pechino. Segno che, forse, su questo punto ci sia molto più accordo con Trump di quanto non si voglia dare a vedere. Come in alcuni dei precedenti confronti televisivi, anche ieri sera la figura di Barack Obama ha aleggiato sul dibattito, soprattutto per aver detto di auspicare donne nei posti di potere e che gli anziani dovrebbero farsi da parte. Una posizione che i candidati più attempati sul palco hanno respinto. Sanders ha sostenuto che il problema siano i miliardari, mentre Biden ha invocato la sua esperienza politica. Come che sia, l'ex presidente democratico continua a cercare di influenzare il processo delle primarie: non è un mistero che tema uno spostamento del partito eccessivamente a sinistra, anche se queste frequenti intrusioni rischiano di determinare ulteriori divisioni in seno a un asinello già parecchio spaccato per conto suo. A livello generale, è difficile parlare di veri e propri vincitori nel dibattito di ieri. Al di là del veleno e delle tensioni, non si sono verificate gaffe inenarrabili e la stessa presenza di un numero inferiore di candidati sul palco ha permesso un maggiore approfondimento dei temi di discussione. I problemi restano tuttavia intatti. All'orizzonte non si scorge una figura di fungere realmente da federatore del partito, mentre le distanze tra centro e sinistra continuano a rivelarsi sostanzialmente incolmabili. Senza poi considerare che anche tra i centristi si vanno man mano consolidando asti e antipatie (si pensi solo al duello tra Buttigieg e la Klobuchar). Infine, oltre a Obama, convitato di pietra è risultato anche Michael Bloomberg che ha già reso noto di non essere granché intenzionato a prendere parte ai dibattiti televisivi. Una linea che potrebbe risultare controproducente nel medio termine.
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