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2018-11-17
Parigi è quasi araba e si indigna per Riace
ANSA
Prima si era paragonato a un oppositore del Terzo Reich («Anche le leggi del periodo nazista erano legalità, ma averle osservate è stato un dramma per l'umanità»). Poi aveva proiettato la sua cittadina nell'eternità dell'epica omerica («Più la colpiscono e più rendono mitica Riace, proprio come Troia»). Insomma, l'ego di Mimmo Lucano di tutto aveva bisogno tranne che il Comune di Parigi si occupasse di lui.
E invece ci tocca vedere anche questo, ben consapevoli che la cosa non farà affatto bene a quel «delirio da sovraesposizione» constatato da una fonte al di sopra di qualsiasi sospetto, come il prefetto Mario Morcone, presidente del Consiglio italiano per i rifugiati, già direttore del Dipartimento che si occupava dei richiedenti asilo.
I fatti: il consiglio comunale della capitale francese ha approvato una delibera in sostegno del sindaco di Riace. Nel documento si legge che «la decisione della giustizia italiana di sospendere il primo cittadino dal suo incarico di primo cittadino è una decisione politica inaccettabile». L'iniziativa di sostegno a Mimmo Lucano è stata promossa dai gruppi Communistes-Front de Gauche, Groupe écologiste e Génération.s. Nel testo si esprime quindi l'auspicio che il sindaco Anne Hidalgo inviti Lucano in città «a testimonianza del sostegno della città di Parigi». Nel testo approvato si plaude alle «eccezionali azioni di solidarietà realizzate da Domenico Lucano» nell'accoglienza dei migranti, in quanto «il sindaco di Riace ha dimostrato che una tale politica è possibile a livello comunale e che è compatibile con il rispetto, la dignità e il benessere dei suoi abitanti».
Alla Hidalgo viene quindi chiesto di «scrivere all'ambasciata della Repubblica italiana per condividere la preoccupazione del Consiglio di Parigi rispetto al trattamento subito da Domenico Lucano». Alla prima cittadina di Parigi viene anche chiesto di «rivolgersi ai propri omologhi sindaci italiani» per riaffermare «la necessaria protezione dei rappresentanti locali e testimoniare solidarietà al sindaco di Riace».
Un appello che non dovrebbe cadere nel vuoto, se è vero che la Hidalgo, già all'epoca in cui fu emesso il divieto di dimora nei confronti del controverso primo cittadino, twittò: «Solidarietà totale a Domenico Lucano, sindaco di Riace condannato all'esilio per aver accolto dei migranti». Il tutto condito dagli hashtag «Riace non si arresta» e «Riace in ogni città». Si noterà, di sfuggita, che né in questi tweet, né nella delibera si fa menzione delle gravi accuse che pendono sul capo di Lucano. Da apprezzare anche la faccia tosta con cui un divieto di dimora, misura ovviamente temporanea e che viene regolarmente comminata a migliaia di altri normalissimi cittadini italiani, viene spacciato per il più drastico e poetico «esilio». Il sindaco che accoglie coloro che sono scacciati dalle loro terre diventa a sua volta esule: perfetto, per costruire una narrazione strappalacrime, ma decisamente poco aderente alla realtà.
Quanto invece all'idea di costruire una «Riace in ogni città», la Hidalgo sembra comunque già di suo sulla buona strada: pensiamo solo ai ragazzini nordafricani che scorrazzano per le strade del quartiere della Goutte-d'Or, violenti e drogati che di notte vanno a dormire nelle lavatrici automatiche, come avevamo documentato a suo tempo. Non è certo l'unica situazione a rischio della capitale parigina, che ha serissimi problemi di ordine pubblico in tutta la sua periferia. Tanto che verrebbe da dire che è stata semmai la capitale francese a esportare un modello: una banlieue in ogni città.
L'attrazione della Francia per Lucano non è del resto nuova: alla fine di ottobre, un appello per la sua «liberazione immediata» era stato diffuso sui media (se ne trova traccia per esempio sul sito de L'Humanité, l'ex organo ufficiale del Partito comunista francese).
Il tono è da ciclostilato dei collettivi degli anni Settanta: «Di fronte all'offensiva scatenata contro i migranti, i poveri e coloro che li sostengono dal ministro dell'Interno italiano, Matteo Salvini, noi denunciamo questo arresto e affermiamo pubblicamente la nostra solidarietà piena e integrale con coloro che, come Mimmo Lucano, sono entrati in lotta o si apprestano a farlo». Seguiva una lista dei primi firmatari: Mireille Alphonse, vicesindaco di Montreuil, Clémentine Autain, deputata de La France Insoumise, Bally Bagayoko, vicesindaco di Saint Denis, Joel Besse, sindaco di Tarnac Philippe Bouyssou, sindaco d'Ivry-sur-Seine, Elsa Faucillon, deputata del partito comunista, e così via.
Alcuni delle città citate, con amministratori così attenti alla cronaca italiana e all'eterno rischio fascismo che incomberebbe sull'Italia, sono peraltro collocate proprio in quelle periferie violente e completamente arabizzate di cui si diceva: pensiamo a Montreuil, a Saint Denis, a Ivry-sur-Seine. Comuni che forse avrebbero bisogno di uscire da questo trip ideologico e cominciare a guardare in faccia i problemi derivanti da quell'immigrazione incontrollata che loro sembrano volere, invece, con ancor meno controlli.
Adriano Scianca
L’imam che esultò per Charlie Hebdo fa la star nelle moschee di Torino
In Tunisia gli hanno vietato di fare sermoni, in Quebec gli hanno impedito di tenere una conferenza e, dove va a predicare il suo islam radicale, l'imam estremista finito pure in galera? Ma in Italia, ovviamente. E per la precisione a Torino dove, in queste ore Béchir Ben Hassen, l'uomo che nel 2015 giustificò l'attentato a Charlie Hebdo sostenendo, in buona sostanza, che quei giornalisti se l'erano andata a cercare, sta facendo il tour delle moschee per parlare di Maometto, di legge coranica e perché no, per cercare proseliti alla sua visione integralista contraria alla libertà di opinione, all'alcol e ai festeggiamenti di qualsiasi tipo.
Non è uno scherzo: due giorni fa, il predicatore, arrivato in città è stato accolto come un divo nella moschea di corso Giulio Cesare, mentre, ieri, avrebbe visitato quella di via Saluzzo, senza che nessuno trovasse nulla di particolarmente strano, nella sua presenza.
Eppure Béchir Ben Hassen, membro dell'Unione mondiale degli studiosi dell'Islam, è ben noto per le sue posizioni estremiste.
Durante una diretta su internet, seguitissima dai suoi numerosi seguaci (sono più di 50.000 i fanatici che lo seguono sul web) il 10 gennaio del 2015 parlando della strage di Charlie Hebdo sostenne che «la punizione per chiunque insulti il profeta Maometto è la morte e dovrà essere punito». A causa delle sue prediche radicali, persino in Tunisia, Paese a maggioranza musulmana, la sua presenza non è ben tollerata.
Già dal 2012 le autorità tunisine lo tenevano d'occhio. A quel tempo l'imam si era avvicinato al capo della Fratellanza musulmana tunisina, Rached Ghannouchi, con il quale, a quanto risulta, avrebbe voluto proporre un referendum per applicare la sharia in Tunisia. E in seguito, anche nei momenti più caldi del terrorismo di matrice islamica, non fece mai segreto delle proprie convinzioni arrivando, in diverse occasioni pubbliche, a professare apertamente l'astinenza dall'alcol, sostenendo che la vendita dovrebbe essere vietata, ad esprimersi contro l'emancipazione femminile e a sostenere che molti festeggiamenti (tra cui quello di San Valentino) andrebbero aboliti. Per questo lo Stato tunisino, lo scorso marzo, accogliendo le proteste dei moderati, ha deciso di vietargli la possibilità di tenere orazioni pubbliche.
E in Quebec non gli è andata meglio. Nel marzo del 2015 l'Università di Laval aveva programmato una lezione contro la radicalizzazione islamica che prevedeva anche la sua presenza. Prima dell'evento, però, ci fu una levata di scudi da parte della politica: «Siamo interdetti nell'apprendere che quest'uomo a cui sono vietati i sermoni in Tunisia, che è stato cacciato da una moschea e arrestato dall'Interpol nel 2013 abbia il diritto di venire a spiegare ai nostri studenti come prevenire la radicalizzazione», sostenne pubblicamente la deputata Nathalie Roy, ottenendo la cancellazione di quello e di tutto il ciclo di incontri a cui il predicatore aveva previsto di partecipare.
Recentemente, in Francia Ben Hassen è stato condannato a sei mesi di carcere per aver diffamato un professore svizzero, mentre in Marocco è stato pure arrestato, dietro mandato dell'Interpol, per essersi rifiutato di concedere alla ex moglie la custodia dei loro quattro figli.
Nonostante questo, lo scorso ottobre, l'imam è stato ospite della comunità musulmana trentina e ha predicato nelle moschee di Trento, già segnalate come possibili focolai di radicalizzazione terroristica, mentre ora è Torino ad accoglierlo a braccia aperte.
Alessia Pedrielli
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Il consiglio comunale della capitale francese approva una delibera in sostegno di Mimmo Lucano: «Sua sospensione inaccettabile». A quanto pare le periferie in fiamme e le bande di migranti violenti che girano per la città transalpina non hanno insegnato nulla.L'imam che esultò per Charlie Hebdo fa la star nelle moschee di Torino. Béchir Ben Hassen aveva giustificato il terrorismo. Ora ha tenuto due sermoni in Italia.Lo speciale comprende due articoli.Prima si era paragonato a un oppositore del Terzo Reich («Anche le leggi del periodo nazista erano legalità, ma averle osservate è stato un dramma per l'umanità»). Poi aveva proiettato la sua cittadina nell'eternità dell'epica omerica («Più la colpiscono e più rendono mitica Riace, proprio come Troia»). Insomma, l'ego di Mimmo Lucano di tutto aveva bisogno tranne che il Comune di Parigi si occupasse di lui. E invece ci tocca vedere anche questo, ben consapevoli che la cosa non farà affatto bene a quel «delirio da sovraesposizione» constatato da una fonte al di sopra di qualsiasi sospetto, come il prefetto Mario Morcone, presidente del Consiglio italiano per i rifugiati, già direttore del Dipartimento che si occupava dei richiedenti asilo. I fatti: il consiglio comunale della capitale francese ha approvato una delibera in sostegno del sindaco di Riace. Nel documento si legge che «la decisione della giustizia italiana di sospendere il primo cittadino dal suo incarico di primo cittadino è una decisione politica inaccettabile». L'iniziativa di sostegno a Mimmo Lucano è stata promossa dai gruppi Communistes-Front de Gauche, Groupe écologiste e Génération.s. Nel testo si esprime quindi l'auspicio che il sindaco Anne Hidalgo inviti Lucano in città «a testimonianza del sostegno della città di Parigi». Nel testo approvato si plaude alle «eccezionali azioni di solidarietà realizzate da Domenico Lucano» nell'accoglienza dei migranti, in quanto «il sindaco di Riace ha dimostrato che una tale politica è possibile a livello comunale e che è compatibile con il rispetto, la dignità e il benessere dei suoi abitanti». Alla Hidalgo viene quindi chiesto di «scrivere all'ambasciata della Repubblica italiana per condividere la preoccupazione del Consiglio di Parigi rispetto al trattamento subito da Domenico Lucano». Alla prima cittadina di Parigi viene anche chiesto di «rivolgersi ai propri omologhi sindaci italiani» per riaffermare «la necessaria protezione dei rappresentanti locali e testimoniare solidarietà al sindaco di Riace». Un appello che non dovrebbe cadere nel vuoto, se è vero che la Hidalgo, già all'epoca in cui fu emesso il divieto di dimora nei confronti del controverso primo cittadino, twittò: «Solidarietà totale a Domenico Lucano, sindaco di Riace condannato all'esilio per aver accolto dei migranti». Il tutto condito dagli hashtag «Riace non si arresta» e «Riace in ogni città». Si noterà, di sfuggita, che né in questi tweet, né nella delibera si fa menzione delle gravi accuse che pendono sul capo di Lucano. Da apprezzare anche la faccia tosta con cui un divieto di dimora, misura ovviamente temporanea e che viene regolarmente comminata a migliaia di altri normalissimi cittadini italiani, viene spacciato per il più drastico e poetico «esilio». Il sindaco che accoglie coloro che sono scacciati dalle loro terre diventa a sua volta esule: perfetto, per costruire una narrazione strappalacrime, ma decisamente poco aderente alla realtà. Quanto invece all'idea di costruire una «Riace in ogni città», la Hidalgo sembra comunque già di suo sulla buona strada: pensiamo solo ai ragazzini nordafricani che scorrazzano per le strade del quartiere della Goutte-d'Or, violenti e drogati che di notte vanno a dormire nelle lavatrici automatiche, come avevamo documentato a suo tempo. Non è certo l'unica situazione a rischio della capitale parigina, che ha serissimi problemi di ordine pubblico in tutta la sua periferia. Tanto che verrebbe da dire che è stata semmai la capitale francese a esportare un modello: una banlieue in ogni città. L'attrazione della Francia per Lucano non è del resto nuova: alla fine di ottobre, un appello per la sua «liberazione immediata» era stato diffuso sui media (se ne trova traccia per esempio sul sito de L'Humanité, l'ex organo ufficiale del Partito comunista francese). Il tono è da ciclostilato dei collettivi degli anni Settanta: «Di fronte all'offensiva scatenata contro i migranti, i poveri e coloro che li sostengono dal ministro dell'Interno italiano, Matteo Salvini, noi denunciamo questo arresto e affermiamo pubblicamente la nostra solidarietà piena e integrale con coloro che, come Mimmo Lucano, sono entrati in lotta o si apprestano a farlo». Seguiva una lista dei primi firmatari: Mireille Alphonse, vicesindaco di Montreuil, Clémentine Autain, deputata de La France Insoumise, Bally Bagayoko, vicesindaco di Saint Denis, Joel Besse, sindaco di Tarnac Philippe Bouyssou, sindaco d'Ivry-sur-Seine, Elsa Faucillon, deputata del partito comunista, e così via. Alcuni delle città citate, con amministratori così attenti alla cronaca italiana e all'eterno rischio fascismo che incomberebbe sull'Italia, sono peraltro collocate proprio in quelle periferie violente e completamente arabizzate di cui si diceva: pensiamo a Montreuil, a Saint Denis, a Ivry-sur-Seine. Comuni che forse avrebbero bisogno di uscire da questo trip ideologico e cominciare a guardare in faccia i problemi derivanti da quell'immigrazione incontrollata che loro sembrano volere, invece, con ancor meno controlli. Adriano Scianca<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/parigi-e-quasi-araba-e-si-indigna-per-riace-2620115747.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="limam-che-esulto-per-charlie-hebdo-fa-la-star-nelle-moschee-di-torino" data-post-id="2620115747" data-published-at="1765406676" data-use-pagination="False"> L’imam che esultò per Charlie Hebdo fa la star nelle moschee di Torino In Tunisia gli hanno vietato di fare sermoni, in Quebec gli hanno impedito di tenere una conferenza e, dove va a predicare il suo islam radicale, l'imam estremista finito pure in galera? Ma in Italia, ovviamente. E per la precisione a Torino dove, in queste ore Béchir Ben Hassen, l'uomo che nel 2015 giustificò l'attentato a Charlie Hebdo sostenendo, in buona sostanza, che quei giornalisti se l'erano andata a cercare, sta facendo il tour delle moschee per parlare di Maometto, di legge coranica e perché no, per cercare proseliti alla sua visione integralista contraria alla libertà di opinione, all'alcol e ai festeggiamenti di qualsiasi tipo. Non è uno scherzo: due giorni fa, il predicatore, arrivato in città è stato accolto come un divo nella moschea di corso Giulio Cesare, mentre, ieri, avrebbe visitato quella di via Saluzzo, senza che nessuno trovasse nulla di particolarmente strano, nella sua presenza. Eppure Béchir Ben Hassen, membro dell'Unione mondiale degli studiosi dell'Islam, è ben noto per le sue posizioni estremiste. Durante una diretta su internet, seguitissima dai suoi numerosi seguaci (sono più di 50.000 i fanatici che lo seguono sul web) il 10 gennaio del 2015 parlando della strage di Charlie Hebdo sostenne che «la punizione per chiunque insulti il profeta Maometto è la morte e dovrà essere punito». A causa delle sue prediche radicali, persino in Tunisia, Paese a maggioranza musulmana, la sua presenza non è ben tollerata. Già dal 2012 le autorità tunisine lo tenevano d'occhio. A quel tempo l'imam si era avvicinato al capo della Fratellanza musulmana tunisina, Rached Ghannouchi, con il quale, a quanto risulta, avrebbe voluto proporre un referendum per applicare la sharia in Tunisia. E in seguito, anche nei momenti più caldi del terrorismo di matrice islamica, non fece mai segreto delle proprie convinzioni arrivando, in diverse occasioni pubbliche, a professare apertamente l'astinenza dall'alcol, sostenendo che la vendita dovrebbe essere vietata, ad esprimersi contro l'emancipazione femminile e a sostenere che molti festeggiamenti (tra cui quello di San Valentino) andrebbero aboliti. Per questo lo Stato tunisino, lo scorso marzo, accogliendo le proteste dei moderati, ha deciso di vietargli la possibilità di tenere orazioni pubbliche. E in Quebec non gli è andata meglio. Nel marzo del 2015 l'Università di Laval aveva programmato una lezione contro la radicalizzazione islamica che prevedeva anche la sua presenza. Prima dell'evento, però, ci fu una levata di scudi da parte della politica: «Siamo interdetti nell'apprendere che quest'uomo a cui sono vietati i sermoni in Tunisia, che è stato cacciato da una moschea e arrestato dall'Interpol nel 2013 abbia il diritto di venire a spiegare ai nostri studenti come prevenire la radicalizzazione», sostenne pubblicamente la deputata Nathalie Roy, ottenendo la cancellazione di quello e di tutto il ciclo di incontri a cui il predicatore aveva previsto di partecipare. Recentemente, in Francia Ben Hassen è stato condannato a sei mesi di carcere per aver diffamato un professore svizzero, mentre in Marocco è stato pure arrestato, dietro mandato dell'Interpol, per essersi rifiutato di concedere alla ex moglie la custodia dei loro quattro figli. Nonostante questo, lo scorso ottobre, l'imam è stato ospite della comunità musulmana trentina e ha predicato nelle moschee di Trento, già segnalate come possibili focolai di radicalizzazione terroristica, mentre ora è Torino ad accoglierlo a braccia aperte. Alessia Pedrielli
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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