Badolato, piccolo borgo calabrese non lontano dalla Riace di Mimmo Lucano, racconta una storia di immigrazione e di ombre, di propaganda sull’accoglienza e di potere criminale. Sul finire degli anni ’90 le coste calabresi iniziarono a essere meta di sbarchi continui. Badolato fu il primo laboratorio dell’accoglienza diffusa e trovò nel regista Wim Wenders un cantore cinematografico con il cortometraggio Il volo, girato proprio qui con Ben Gazzarra (doppiato da Giancarlo Giannini) e Luca Zingaretti. I migranti prima venivano accolti nel centro rifugiati, poi nelle case vuote del borgo, in un esperimento di ripopolamento che viene raccontato come il modello per poter riscrivere il destino di un paese quasi fantasma. E che sussiste ancora oggi. Qui ieri mattina il sindaco civico di centrosinistra Giuseppe Nicola Parretta, con un passato nella Fgci, nel Partito comunista ed esperienza da delegato sindacale della Cgil, già eletto due volte in passato (e con sulle spalle uno scioglimento per infiltrazioni mafiose) e tornato sullo scranno nel 2021 con il 94,1 per cento di preferenze, è stato arrestato (ai domiciliari) per presunti legami con la ’ndrangheta. Avrebbe trasformato la gestione amministrativa in un campo di battaglia tra clientele e favori. L’inchiesta della Procura antimafia di Catanzaro ha svelato che la cosca Gallace di Guardavalle, attraverso Antonio Paparo (finito in carcere), avrebbe esercitato il pieno controllo dell’apparato comunale. Per inquadrare la figura di Antonio Paparo gli inquirenti ricordano che durante la latitanza del boss Cosimo Damiano Gullace i Paparo gli avrebbero offerto assistenza in un bunker inaccessibile assicurando, a turno, ogni notte, la presenza di almeno un componente della famiglia. La gestione del potere sarebbe passata per nomine pilotate, assunzioni mirate e, soprattutto, la spartizione di fondi pubblici. Il sindaco, stando all’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Catanzaro Sara Merlini (nei confronti di 44 indagati), avrebbe preso «accordi con Paparo finalizzati alla gestione, in un’ottica comune, di fondi pubblici che sarebbero pervenuti nei successivi dieci anni all’Ente e che avrebbero potuto portare direttamente benefici economici a Paparo e alle società di cui è di fatto il dominus». In cambio il sindaco avrebbe chiesto e ottenuto «appoggio mafioso per la risoluzione di controversie che lo riguardavano». Ma anche «appoggio elettorale», accettando nella sua lista la candidatura del figlio di Paparo, Maicol (ai domiciliari), poi eletto e nominato presidente del Consiglio comunale. Uno degli episodi più emblematici riguarda proprio lo smaltimento dei barconi utilizzati dai migranti per raggiungere la costa. Un business in cui le imprese vicine alla ’ndrangheta avrebbero trovato spazio. Il 3 novembre 2021 un peschereccio con 122 migranti si arenò a Badolato, venne sequestrato e affidato al Comune. Il sindaco aveva inizialmente affidato la rimozione dell’imbarcazione a un altro imprenditore, ma Antonio Paparo intervenne per bloccare l’assegnazione. Quel lavoro doveva passare nelle sue mani. Le intercettazioni rivelano il linguaggio e il modus operandi della fase elettorale. «Tutti devono uscire (essere eletti, ndr) sennò me li faccio nemici capitali... che gli brucio pure le macchine...», diceva Antonio Paparo. «Questa volta se non c’è uno dei miei non voto! Voto contro», affermava con arroganza. La gestione del Comune sarebbe stata compromessa da un patto elettorale illecito. Per assicurarsi la vittoria, la cricca aveva orchestrato la presentazione di due liste: oltre a Vivi Badolato fu creata una lista civetta chiamata Uniti per Badolato. Questa strategia aveva un duplice scopo: evitare il rischio che la tornata elettorale fosse invalidata per mancanza di quorum e simulare un apparente pluralismo. In realtà, entrambe le liste rispondevano agli interessi del gruppo e il risultato elettorale era già scritto prima del voto. Tant’è che Antonio Paparo verso la fine della campagna elettorale sentiva già di dover ringraziare i sostenitori: «Non mi era successo mai di vincere prima, prima che si voti... grazie a questi amici… a tutti gli amici, grazie…». Ma bisognava salvare le apparenze. «Così almeno ci facciamo vedere un poco in giro... incontriamo qualcuno... è importante anche questo», diceva Parretta in una conversazione con Antonio Paparo. Una volta preso il municipio Paparo avrebbe mostrato tutta la sua forza: «Pia (una degli assessori, ndr) sta lì fino a quando… sennò per farle ritirare la carica da assessore ci impiego un minuto…». Ma con il municipio infiltrato dalla cosca la propaganda sull’accoglienza non si è fermata, sconfinando i confini italiani. Tanto che la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola lo scorso agosto è stata a Badolato in visita di piacere. E, colpita dall’accogliente cricca del sindaco Parretta, il mese successivo gli ha inviato un messaggio di ringraziamento: «La bellezza del borgo rappresenta un vanto non solo per la Calabria, ma anche per l’intera Europa. Cordiali saluti, Roberta Metsola». Ipse dixit.
La Corte dei conti della Calabria ha definitivamente smontato l’idilliaca favola di Riace raccontata per anni dell’ex reuccio dell’accoglienza Mimmo Lucano. Nella sua visione, che piaceva parecchio agli ultrà di sinistra, Laura Boldrini in primis, pare che Lucano abbia dimenticato un piccolo dettaglio: la gestione trasparente dei fondi pubblici. I giudici lo condannano insieme al responsabile della Protezione civile regionale Salvatore Mazzeo e ad altri due componenti della giunta, Maria Immacolata Cesare e Antonio Rullo (che attualmente è vicesindaco), per aver dilapidato oltre mezzo milione di euro di fondi destinati ai migranti che, evidentemente, non hanno beneficiato del suo famoso altruismo. Complessivamente il danno accertato nei confronti dei big dell’accoglienza, in totale 26 persone più cooperative e associazioni, supera i 4 milioni di euro e sarebbe stato prodotto da una gestione caratterizzata da «condotte» che i giudici contabili valutano come «antigiuridiche e dolose». La sentenza ha sottolineato come la gestione di Lucano fosse ben lontana dal rispetto delle procedure legali. «Coop e associazioni individuate non possedevano i requisiti necessari», si legge nel documento di oltre 400 pagine. L’importo giornaliero per migrante in alcuni casi era stato gonfiato. E Lucano, ora parlamentare europeo, da sindaco che il cordone mediatico protettivo presentava come un esempio, avrebbe agito con «coscienza e volontà di arrecare il danno». Una chiara intenzione di ignorare le normative, anche se, specificano i giudici, «non c’è prova di una intesa truffaldina» con il capo della Protezione civile regionale. Lucano ha tentato di difendersi appellandosi all’emergenza migratoria e cercando di giustificare il mancato rispetto delle procedure. Tuttavia, la Corte è stata chiara: «L’emergenza non giustifica il mancato rispetto delle norme di trasparenza». Le sue azioni non possono essere scusate come semplici errori amministrativi, poiché sarebbero state frutto di decisioni consapevoli e dolose. I giudici parlano infatti di «una precisa volontà di eludere il sistema delineato dalle ordinanze emergenziali, spostando dal soggetto attuatore al Comune l’individuazione degli affidatari del servizio». Con il pallino in mano Lucano avrebbe quindi dimostrato «precisa coscienza e volontà di locupletare (arricchire, ndr) indebitamente i privati subaffidatari, in fase tanto di stipula quanto di esecuzione della convenzione». In sostanza, le «condotte antigiuridiche» di Lucano e Mazzeo, che avrebbero causato il danno erariale, vengono riassunte a partire dalla convenzione, dall’approvazione della stessa e dal subappalto del servizio ad associazioni, fino alla stipula del contratto con i subappaltatori e alla proroga dello stesso. Tutto l’iter risulterebbe viziato. Eppure, Lucano, esaltato dalla rivista Fortune, che nel 2016 lo aveva inserito tra i 50 uomini più influenti del pianeta, ha continuato a godere di uno speciale salvacondotto mediatico che a ogni sciagura continua ad assolverlo. Le responsabilità di questa vicenda, poi, le avrebbe condivise. La Corte ha messo in evidenza soprattutto il ruolo di Salvatore Mazzeo, nominato soggetto attuatore dalla Protezione civile. «Ha violato le disposizioni normative e le direttive impartite dalla presidenza del Consiglio», portando a una serie di irregolarità nelle convenzioni e nelle modalità di gestione dei fondi. Mazzeo è accusato di aver creato un sistema che avrebbe facilitato «l’indebita percezione di contributi pubblici», compromettendo la corretta assistenza ai migranti e favorendo, di fatto, una rete di affari poco chiara e senza garanzie. È emblematico, secondo i giudici, il caso della cooperativa Le Rasole. L’accusa avrebbe accertato che l’offerta per l’accoglienza dei profughi sosteneva di poter contare sull’esistenza di 300 posti «da subito disponibili» nel comune di Rogliano. Quella disponibilità, però, si è scoperto, sarebbe stata solo «fittizia». Alla data dell’offerta, infatti, Le Rasole «non aveva la disponibilità» della struttura da utilizzare (un ex hotel) che è risultata «acquisita (con contratto di affitto, ndr)» solo successivamente. Ma questa non è l’unica anomalia: l’hotel «poteva ospitare 80 persone» rispetto alle 300 che gli amanti dell’accoglienza hanno deciso di stiparci dentro. Aveva fatto jackpot, invece, il consorzio di cooperative Calabriaccoglie (attualmente in liquidazione), al quale sarebbe stato concesso il massimo compenso, scelta che per i giudici si è rivelata «una mera regalia senza giustificazione giuridica o economica, sia per i costi sostenuti dalla struttura, sia per le condizioni dell’ospitalità, di certo non ottimali». Il danno ammonterebbe a 830.000 euro. È finita male pure per l’Arci di Riace-Stignano, che per una sorta di contrappasso ora, insieme a Mazzeo e a Cosimo Damiano Musuraca (che dell’Arci era il responsabile), dovrà risarcire la presidenza del Consiglio per 103.000 euro per aver «chiesto e ottenuto» compensi che i giudici hanno ritenuto «sproporzionati rispetto alle prestazioni rese» ai migranti ospitati. Per tutti i condannati i giudici hanno escluso il «potere riduttivo», una prerogativa esclusiva dei giudici contabili che permette loro di ridurre discrezionalmente il risarcimento: «La natura dolosa delle condotte e la gravità della vicenda», hanno valutato, «non consentono l’esercizio del potere riduttivo». Condanne piene, contro le quali ora Lucano & Co potranno ricorrere alla Sezione centrale. Sempre che gli convenga.
Il processo di beatificazione è finalmente completato. Ora Mimmo Lucano può ascendere al cielo tra schiere di fedeli adoranti. Può tornare a essere un santino sul comò di tutti i bravi progressisti, e siamo certi che non mancherà di camminare sulle acque e di esibire le stimmate fresche a ogni giro di angolo. La notizia uscita mercoledì per l’ex sindaco di Riace è senz’altro positiva, e ne siamo felici. È stato condannato a un anno e 6 mesi di carcere con pena sospesa, una inezia rispetto a ciò che avevano chiesto i suoi accusatori nel processo Xenia, di cui si è appunto concluso il secondo grado.
La Procura di Locri considerava Lucano il capo di una associazione a delinquere responsabile di «un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio), così orientando l’esercizio della funzione pubblica del ministero dell’Interno e della prefettura di Reggio Calabria, preposti alla gestione dell’accoglienza dei rifugiati nell’ambito dei progetti Sprar, Cas e Msna e per l’affidamento dei servizi da espletare nell’ambito del Comune di Riace». I reati contestati erano tanti e pesanti: la già citata associazione a delinquere, poi abuso d’ufficio, truffa, falsità ideologica e peculato. Alla fine ha retto solo una accusa di falso per una delibera e tra assoluzioni e prescrizioni non è rimasto praticamente nulla.
Da un paio di giorni, dunque, i sostenitori del fu sindaco sono in grande spolvero. Saltellano e gridano felici, portano il Santissimo Mimmo in processione e recriminano, puntano il dito contro i magistrati colpevoli di salvinismo e sovranismo. I giornali parlano di «fine del calvario», assumono tutti toni da giustizia è fatta. Il ritornello è: visto che non c’era niente di storto? Visto che era tutta una macchinazione fascistoide cavalcata dalla stampa di destra? Il più lirico, come al solito, è il sublime Francesco Merlo, che su Repubblica spara batterie di fuochi d’artificio: «Con Mimmo Lucano», gorgheggia, «hanno assolto Ignazio Silone e Carlo Levi. E sarebbe stato più giusto se l’avessero completamente liberato, anche dalle piccole accuse. Ma già così, sostituendo l’enormità dei 13 anni e due mesi con l’esiguità di un anno e 6 mesi, questa condanna - non è un paradosso - assolve l’imputato e condanna i suoi accusatori, gli sceriffi di Sherwood, i giustizieri della Calabria Saudita». Santo! Santo subito! «Con Lucano è assolto il Sud», grida Merlo, e lo seguono schiere di zufolanti cantori dell’immigrazionismo da pied-à-terre. Costoro non si limitano a portare Mimmo in trionfo, ma pretendono di rifarne un modello, di riesumare l’avventura di Riace quale simbolo della integrazione che funziona e può fare scuola. Un pensiero ben sintetizzato dal commento di una giornalista-influencer attivissima e impegnatissima, a cui Riace risveglia passioni sopite: «Un modello che è stato consapevolmente spazzato via, perché contraddiceva ogni narrazione sull’immigrazione che immiserisce e rende insicuri i luoghi, perché ostacolava una gestione dell’immigrazione come pura operazione di polizia». E in fondo il punto è tutto qui, come abbiamo sostenuto dal primo articolo scritto su Riace.
A prescindere dalla vicenda giudiziaria di Lucano e dai suoi esiti, è proprio il sistema che egli ha costruito a emergere come il suo più grande fallimento. Il problema, insomma, è tutto politico e non giudiziario, anche se dalle carte dell’inchiesta emergono i tratti caotici e personalistici della gestione Lucano. Il Comune di Riace non era retto dai migranti, come si vuol fare credere. Non aveva sviluppato una sorta di economia parallela basata sugli stranieri finalmente valorizzati al meglio. Anzi, alcune delle attività tanto sbandierate e celebrate dai giornali erano fittizie. In verità, il modello Riace si basava - come del resto tutte le presunte operazioni di integrazione in Italia - sull’utilizzo di soldi pubblici. E infatti non è crollato per via dell’intervento di magistrati cattivi, ma è collassato quando lo Stato ha smesso di erogare finanziamenti. Un sistema funzionante si sarebbe sostenuto da solo, e questa a ben vedere era la favola che il buon Mimmo raccontava ai suoi interlocutori in solluchero. Paradossalmente (ma in fondo nemmeno troppo), Riace dimostra che la gestione della migrazione di massa è possibile soltanto a fronte di un ingente investimento pubblico, il quale però non viene ripagato. E il tema di cui si dovrebbe discutere è esattamente questo.
Non importa poi tanto, in fondo, se Lucano abbia falsificato degli atti o se abbia pasticciato con i conti. È molto più rilevante il fatto che il suo intero edificio ideologico fosse privo di fondamenta. Perché ciò certifica che non esiste un modo per gestire le migrazioni che non sia puramente assistenziale. Il tessuto sociale semplicemente non può assorbire numeri elevati di stranieri, e nemmeno una costruzione artificiale, dopata con denaro pubblico, può reggere più di tanto all’urto della realtà. Che sia santificato Lucano, allora: assolto da tanti reati, condannato dalle sue politiche fallimentari.
Lo sapevano dal 1700 che lì c’era una delle porte d’ingresso nella storia; tra quelle acque che ribollono, quelle nebbie sulfuree, prima gli etruschi e poi insieme etruschi e romani andavano cercando la vita. E della loro vita hanno lasciato tracce immense. Si è detto che la trentina di bronzi trovati nel bagno grande di San Casciano dei Bagni, una sorta di onfalos, di ombelico, di quel triangolo magico degli etruschi che ha i suoi vertici in Perugia, Chiusi e Siena, sono paragonabili alla scoperta dei bronzi di Riace.
Niente di più lontano dal vero. Semmai, questa è la Pompei delle acque perché offre testimonianze vive, ma con la vicenda dei bronzi di Riace nulla ha a che spartire. A Reggio Calabria hanno fatto fatica a celebrare i cinquanta anni del ritrovamento dei due meravigliosi guerrieri greci, qui c’è un piccolo Comune - 80 abitanti in centro, 1.500 in tutto - che ha scommesso sulla sua storia e si è comprato gli orti dove gli archeologi hanno condotto i loro studi. Qui c’è già un palazzo del Cinquecento, eredità dei Medici che a San Casciano venivano «a passar l’acque», pronto a diventare il museo interattivo in cui i bronzi recuperati adesso e quelli che emergeranno in seguito continueranno a raccontarsi e farsi patrimonio di cultura, ma anche economico perché incrementano il turismo, perché nobilitano questo centro termale che ventitré secoli dopo la frequentazione etrusco-romana continua a essere la Montecarlo delle spa: salus per aquam.
Pochi lo sanno, e poco lo si deve sapere, ma i vip di mezzo mondo approdano qua per ritrovare la forma, per godere un paesaggio unico, per vivere un contatto vero col naturale. I ritrovamenti di queste settimane serviranno a rieducare gli uomini contemporanei a come fruire di questo angolo di paradiso della Toscana sospesa tra il vulcano esaurito dell’Amiata, le acque di smeraldo del Tirreno, i forteti della Maremma e le armonie della Val di Chiana.
Sono emerse dall’ultima campagna di scavo cominciata due anni fa sotto la direzione di Jacopo Tabolli, archeologo dell’Università per Stranieri di Siena, testimonianze di pregio assoluto. Capaci - sostiene Tabolli - «di riscrivere la storia, sono già al lavoro oltre 60 esperti di tutto il mondo per leggere questo romanzo». Partendo da un tempio dedicato ad Apollo e a suo figlio Esculapio, di epoca imperiale romana, si è cominciato a pensare che dovesse esserci qualcosa di più. Lo ha pensato Tabolli, lo hanno reso possibile Emanuele Mariotti, archeologo incaricato direttamente dal Comune di San Casciano de’ Bagni e direttore dello scavo, e Ada Salvi della Soprintendenza di Siena Grosseto e Arezzo.
La campagna di scavo è stata integralmente finanziata dal Comune di San Casciano dei Bagni e si avvale anche del contributo di società e fondazioni internazionali (Ergon, Heureka Ambiente, Vaseppi Trust, Fondazione Friends of Florence, Max Ulfane). Questa è un’altra eccezionalità. Hanno cercato là dove le tracce settecentesche e novecentesche dicevano che si doveva prestare attenzione. Hanno trovato un tesoro che fa dire al ministro per i Beni culturali, Gennaro Sangiuliano: «Un ritrovamento eccezionale. La stratificazione di diverse civiltà è un unicum della cultura italiana».
In un’area vastissima ci sono piscine, templi, vasche caldissime che hanno conservato nel fango termale, per 23 secoli, bronzetti particolarissimi. Il più bello è un efebo alto circa un metro, i più interessanti sono gli orecchi in bronzo usati come preghiera per farsi udire dagli dei e poi le riproduzioni anatomiche, i bisturi e i ferri chirurgici, i modelli usati dagli aruspici. Il santuario di San Casciano dei Bagni era tutto: terme, area sacra, casa di cura, luogo di meditazione. Fu attivo dal terzo secolo avanti Cristo fino quasi al quinto dopo Cristo, quando i cristiani decisero di chiuderlo. Ricoprirono le vasche con tegole e le sigillarono con le colonne dei templi fatti crollare. Questa ermetica chiusura ha consentito agli oltre trenta bronzetti di riemergere bellissimi e intatti dai fanghi.
Convissero in questo luogo sacro e di salute etruschi e romani mentre si facevano la guerra. Osserva Tabolli: «Abbiamo trovato iscrizioni etrusche in grande quantità e questo ci aiuta a rileggere la storia; sorprende è che qui l’etrusco è rimasto in uso molto più a lungo». Si è detto: San Casciano come i bronzi di Riace. Ma non è così. A Reggio Calabria il cinquantenario di ritrovamento dei due guerrieri greci (bellissimi) è scorso tra mille polemiche (compreso il «corto» finanziato dalla Regione e girato da Gabriele Muccino che è stato diffuso quasi clandestinamente) e ha fatto esclamare: «Noi calabresi non ce li meritiamo, i bronzi».
A San Casciano il giovanissimo sindaco pd, Agnese Carletti, parla «di un sogno che si avvera». Qui c’è il vino buono (siamo a due passi da Montalcino e da Montepulciano) e l’olio è ancor migliore, c’è il paesaggio della val di Chiana. Ma, dice Agnese Carletti: «Noi viviamo di turismo, 60.000 presenze all’anno sono legate alle terme».
Lo sapevano a San Casciano che c’era il tesoro. Avevano cominciato recuperando le terme dei Medici, ma ora lo story telling lo possono scrivere in etrusco.
Mentre Mimmo Lucano mostrava il petto alla Marcia della pace Perugia-Assisi, dalla requisitoria che il pubblico ministero della Procura di Locri Michele Permunian ha fatto in udienza chiedendo la condanna a 7 anni e 11 mesi per l'ex reuccio di Riace (i giudici poi l'hanno condannato a 13 anni e 2 mesi) saltano fuori alcuni particolari inediti del processo. L'incipit del magistrato è questo: il progetto Riace «è nato sano [...] e qui non si stigmatizza l'accoglienza bensì il mercimonio che viene fatto in nome dell'accoglienza».
Con queste parole il magistrato ha fatto a pezzi tutti coloro i quali si sono smanacciati per difendere quello che qualcuno ancora definisce il Modello Riace. «Mi sono chiesto qual è il tema chiave, l'elemento che accomuna tutti o quasi i capi d'imputazione», ha spiegato il pm, «e la risposta che mi sono dato è che il problema centrale è il potere che corrompe chi ce l'ha». E Lucano, secondo il magistrato, «è innegabilmente il primo protagonista di questa vicenda».
«Lo Sprar», spiega la toga, «ha come compito quello di emancipare il migrante, insegnandogli la lingua italiana, offrendogli l'educazione civica, dargli assistenza psicologica e la possibilità di entrare nel mondo del lavoro». Non come i tanto sbandierati laboratori di Lucano. «Erano lo specchietto per le allodole», spiega il pm, «funzionavano per le personalità, per gli ospiti, per i turisti, ma come si può leggere nelle intercettazioni venivano aperti e chiusi ad hoc». Il magistrato ricorda una delle intercettazioni, captata nel giorno della visita di un ministro greco: «Fatti vedere che apri il laboratorio per la cioccolata e portati anche la bambina con te». Ma questa non è l'unica telefonata imbarazzante.
C'è una telefonata di Fernando Capone, legale rappresentante di Città futura (condannato a 9 anni e 10 mesi), che il pm legge in aula: «Avanzano questi soldi, tu non preoccuparti, vai a comprare una cameretta per te e per i ragazzi». E quando l'interlocutore chiede «ma si può fare?», Capone risponde: «No che non si può fare, ma che cazzo te ne frega, l'importante è che tu non debba restituire i soldi. Noi lo facciamo sempre». E il pm riassume in poche parole quello che ha scoperto del Sistema Riace: «Dobbiamo restituire a un certo punto perché non abbiamo speso? Allora fatture false, prestazioni, compriamo qualcosa per noi. Questo è il metodo». E Lucano, secondo il pm, lo fa «per un tornaconto politico elettorale. La prova? Nelle intercettazioni. Lucano conta i voti: “Dalla famiglia Tornese ci vengono 70-80 voti [...] la Taverniti si fotte i soldi, ma non posso allontanarla perché mi porta 20 voti [...]. A me è la politica che mi tiene"». Ma probabilmente c'era pure qualche tornaconto economico.
Il pm fa riferimento al falso contratto di Capone. «L'idea è quella di pagare Capone quale presidente dell'associazione e di dargli 10.000 euro». Capone dice: «Ma me li date veramente?». Lucano: «Sì, sì, te li diamo e poi ce li restituisci». Poi l'ex sindaco si avvicina a Capone e a bassa voce dice: «4.000 te li tieni tu e l'altra metà ce la ridai a noi». E per far crescere il tesoretto scroccato al ministero, il trucco era mantenere i migranti il più a lungo possibile. Come? Taroccando la banca dati delle presenze. La testimone Annalisa Maisto ha detto in udienza: «Noi sapevamo chi entrava ma l'irregolare tenuta della banca dati rendeva impossibile stabilire con certezza l'esatta permanenza». Sulla distrazione dei fondi, perfino il figlio di Mimmo, Roberto, lo ammonisce in una intercettazione che il pm ricorda in aula: «Ma attento papà, guarda che quei fondi ti sono stati dati per gestire i migranti... sono fondi della Comunità europea». E sono stati usati perfino per pagare le feste. In particolare i concerti estivi del 2015 e del 2017. Lucano si impegnò a portare a Riace una serie di personalità e si relazionò con tale Maurizio Senese, che è un organizzatore di concerti. Si parla di una cifra di oltre 60.000 euro, di cui solo 20.000 sono stati pagati con un contributo regionale. Ecco la ricostruzione del pm: «Il comune di Riace non ha fondi per sostenere le spese dei concerti estivi, né ci sono fondi regionali, salvo quei 20.000 euro. Quindi, chi ha pagato questo residuo di 47.000 euro? Il comune no, don Giovanni Coniglio (parroco di Riace, ndr) no, la Regione no. Li ha pagati Lucano? Come? Con i fondi dello Sprar, con i fondi pubblici».
E dalle intercettazioni «emerge», spiega il pm, «che Lucano teme che gli venga contestata una concussione per questo fatto, ovvero che è andato a fare la questua tra le varie associazioni, chiedendo di contribuire, perché d'altra parte sono feste dell'accoglienza, perché rientrano nel Festival dell'accoglienza, allora voi associazioni che campate con i fondi destinati all'accoglienza dovete contribuire. Chi con 3.000 euro, chi 5.000. Ecco come si crea la provvista con cui poi Lucano paga Senese».
E Senese ha pagato gli artisti. Dai contratti, infatti, emerge che gli artisti bisognava pagarli in anticipo, con il bonifico che doveva arrivare il giorno prima o, almeno, due ore prima del concerto, altrimenti non si esibiscono. «Roberto Vecchioni si è esibito», ricorda il pm, «i Marvanza si sono esibiti e tutta quella serie di artisti...». Tutti pagati con i fondi dello Sprar. In nome dell'accoglienza.







