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2021-05-13
Quarant'anni fa l'attentato a Giovanni Paolo II
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Piazza san Pietro, 13 maggio 1981: Karol Wojtyla colpito dalla pistola di Alì Agca (Getty Images)
I colpi esplosi a distanza ravvicinata (3,5 metri) da una Browning calibro 9 colpirono il pontefice all'addome, provocando una grave ferita addominale che trapassò il corpo uscendo dalla zona sacrale con il proiettile che terminò la sua corsa sul sedile della papamobile, una Fiat Campagnola aperta e senza alcuna protezione. Un altro proiettile lo colpirà di striscio al braccio destro, ferendo di rimbalzo due donne di cittadinanza statunitense, Ann Orde e Rose Hall. L'attentatore, capelli corti scuri e pelle olivastra, è braccato pochi istanti dopo, mentre il Papa si accasciava sul sedile della Campagnola in corsa verso il Policlinico Gemelli. Si trattava di Mehmet Alì Agca, un cittadino turco di 23 anni affiliato al gruppo terroristico di estrema destra "Lupi Grigi" da poco evaso dal carcere in Turchia per l'assassinio nel 1979 del giornalista del quotidiano Milliyet Abdi Ipecki. Portato in carcere e interrogato mentre Karol Woytila lottava tra la vita e la morte, Agca fornirà subito dichiarazioni contraddittorie dichiarandosi filocomunista. Il giallo si infittiva già nelle ore immediatamente successive all'attentato, quando dalle dichiarazioni dei molti testimoni che si trovavano a poca distanza dal Pontefice emersero divergenze e contraddizioni soprattutto sul numero dei colpi esplosi (secondo alcuni tre o addirittura quattro) e sulla presenza di uno o più complici. La tesi che avrebbe messo in dubbio fin da subito l'azione di un "lupo solitario" fu supportata da una fotografia scattata da un corrispondente televisivo di una rete di Detroit affiliata alla ABC. Presente in Piazza San Pietro durante un periodo di vacanza, Lowell Newton riuscì a fotografare pochi istanti dopo la sparatoria, un uomo di spalle con una pistola in mano intento alla fuga.
La condanna di Agca all'ergastolo sarà veloce, la sentenza pronunciata dalla Corte d'Assise già il 22 luglio successivo (senza appello da parte della difesa dell'imputato) ma da quel momento in poi la grande sfida sarebbe stata quella di individuare complici e soprattutto i mandanti dell'attentato a quel Papa che stava cambiando gli equilibri del mondo. La prima ipotesi ad emergere dalle indagini e dagli interrogatori dell'attentatore in carcere fu forse la più logica ed ipoteticamente più credibile vista la situazione internazionale nel 1981 e l'appoggio del Papa polacco al sindacato cattolico Solidarnosc. Quella che si delineò per prima, era una pista che passava dalla Bulgaria, e fu percorsa durante la prima fase delle indagini coordinate dal giudice istruttore Ilario Martella. L'idea di fondo era che il mandante finale fosse il KGB, il servizio segreto sovietico, che avrebbe agito tramite l'intelligence del paese satellite Bulgaria. Un' ipotesi supportata anche dal fatto che la capitale Sofia era nota per essere un punto nevralgico della mafia turca per il traffico di droga proveniente da oriente. Qui sarebbero stati reclutati Agca e gli ipotetici complici, riforniti di armi e di appoggi a Roma per compiere l'attentato del secolo. Ali Agca, interrogato in carcere, fece il nome di due cittadini bulgari residenti nella Capitale: si trattava di Sergej Antonov, caposcalo della compagnia aerea Balkan Air, e di Jelo Vassilev, addetto militare dell'ambasciata bulgara. Il killer turco li avrebbe incontrati a Roma dopo un breve soggiorno di copertura all'università per stranieri di Perugia. Durante il periodo degli interrogatori e dell'ipotesi della pista bulgara Agca mantenne sempre un atteggiamento ambiguo e spesso contraddittorio, indicando durante l'iter processuale l'esistenza di una rete di complici appartenenti ai Lupi Grigi ed alla mafia turca. Tra di essi figurava il presunto complice Oral Celik ritratto in piazza San Pietro dal giornalista americano anche lui membro di spicco dei Lupi Grigi. Assieme ad Agca aveva passato un periodo di latitanza in Iran e successivamente in Bulgaria, dove la rete dei terroristi panturchi latitanti aveva trovato una base sicura, con collegamenti con le associazioni nazionalistiche degli emigrati turchi anche in Germania occidentale. Tra i complici dell'attentato del 13 maggio oltre a Celik, l'imputato indicherà agli inquirenti i nomi di Bekir Celenk (deceduto in carcere nel 1985) Omer Bagci (che avrebbe fornito in Svizzera la pistola Browning) e Musa Serdar Celebi (ai vertici dell'associazione panturca in Germania Ovest). La pista bulgara, seguita fino alla metà degli anni ottanta, non mancava tuttavia di mostrare ombre che minacciavano di minarne le fondamenta. Una di queste fu l'ipotesi che il depistaggio verso le responsabilità di Mosca e dei servizi bulgari (e della Stasi tedesco-orientale) fossero state suggerite ad Agca dopo l'omicidio, durante la carcerazione ad Ascoli Piceno. Il killer turco aveva infatti condiviso la cella con uno degli esponenti più feroci e potenti delle Brigate Rosse, Giovanni Senzani (autore dell'omicidio del fratello del pentito Patrizio Peci) il quale, oltre ad insegnare l'italiano ad Agca, si pensò avesse potuto costruire ad hoc la pista bulgara come depistaggio per coprire ipotetiche responsabilità altrui, che emergeranno più tardi. Uno degli aspetti più controversi della vicenda giudiziaria riguardava l'appartamento romano di Sergej Antonov, che Agca descrisse minuziosamente fornendo addirittura una piantina della casa. Dalla descrizione dell'interno, tuttavia, emerse una contraddizione in quanto l'imputato insistette di avere notato una porta a soffietto tra due stanze, che in realtà non esisteva. La porta in questione era in realtà presente nell'appartamento al piano inferiore dello stabile, abitato da Padre Felix Morlion, un prete messicano presente in Italia sin dal dopoguerra e noto come confidente della CIA tramite l'associazione "Pro Deo" da lui fondata. La conferma venne successivamente da Giulio Andreotti che conosceva l'abitazione del prete anticomunista durante una delle udienze del processo. Proseguendo nel proprio comportamento camaleontico, Agca montava e smontava in breve tempo le indagini, facendo dichiarazioni che si intrecciavano col caso della sparizione di Emanuela Orlandi, che secondo il turco sarebbe stata rapita dai servizi occidentali per ottenere la sua scarcerazione. In quel periodo emerse anche l'ipotesi che l'attentatore del Papa fosse entrato in contatto con il SISMI nella persona di Francesco Pazienza, che secondo Agca avrebbe insistito sull'attribuzione dell'attentato ai servizi segreti dei Paesi dell'Est, idea apertamente supportata da Michael Ledeen l'accademico e consigliere della Difesa Usa che nei giorni dell'attentato a Wojtyla si trovava di stanza a Roma e a stretto contatto con i servizi segreti italiani. Durante la lunga fase processuale che vide la carcerazione del solo Ali Agca, il detenuto fece ulteriori dichiarazioni sulle presunte responsabilità che coinvolgevano il cardinale Agostino Casaroli così come l'Ayatollah Khomeini. Nel 2000 la domanda di grazia fu firmata da Carlo Azeglio Ciampi con il nulla osta del Vaticano e il killer fu estradato in Turchia per terminare di scontare la pena per l'assassinio del giornalista Ipecki. Verrà scarcerato definitivamente nel 2010.
Accanto all'inchiesta giudiziaria sull'attentato a Wojtyla si sono affiancate ipotesi di origine religiosa, principalmente legati al terzo mistero di Fatima e a San Pio da Pietrelcina. Nel primo caso la premonizione dell'attentato al Papa fu il risultato di una delle visioni della Vergine trascritta solo nel 1944 dall'unica pastorella sopravvissuta e divenuta suor Lucia. La visione, svelata poi dallo stesso Wojtyla nel Giubileo del 2000, mostrò un vescovo vestito di bianco trascinarsi verso la sommità di un monte per essere poi ucciso barbaramente dalla soldataglia. Giovanni Paolo II, molto devoto alla Madonna di Fatima, volle donare come ex voto il proiettile che lo aveva trapassato che sarà incastonato nella corona della Vergine nel santuario della cittadina portoghese. Per quanto riguarda invece la preveggenza di Padre Pio, questa fu rivelata dal frate allo stesso futuro Pontefice durante una visita nel 1948. In quell'occasione il Santo si rivolse a Wojtyla anticipandogli la propria elezione a Sommo Pontefice (una cosa impensabile per un non italiano in quegli anni) e che l'avvenimento sarebbe stato funestato successivamente dallo scorrere del sangue.
Ad oggi, quarant'anni dopo l'attentato, non è stato identificato alcun mandante certo.
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Era mercoledì 13 maggio 1981. Erano le ore 17:17. Gli estremi temporali dell'attentato subito da Papa Giovanni Paolo II in piazza San Pietro quarant'anni fa sembrano usciti dalla cabala. Due, forse tre, colpi di pistola furono esplosi da distanza ravvicinata al Pontefice durante il bagno di folla nel corso dell'udienza generale del mercoledì. I colpi esplosi a distanza ravvicinata (3,5 metri) da una Browning calibro 9 colpirono il pontefice all'addome, provocando una grave ferita addominale che trapassò il corpo uscendo dalla zona sacrale con il proiettile che terminò la sua corsa sul sedile della papamobile, una Fiat Campagnola aperta e senza alcuna protezione. Un altro proiettile lo colpirà di striscio al braccio destro, ferendo di rimbalzo due donne di cittadinanza statunitense, Ann Orde e Rose Hall. L'attentatore, capelli corti scuri e pelle olivastra, è braccato pochi istanti dopo, mentre il Papa si accasciava sul sedile della Campagnola in corsa verso il Policlinico Gemelli. Si trattava di Mehmet Alì Agca, un cittadino turco di 23 anni affiliato al gruppo terroristico di estrema destra "Lupi Grigi" da poco evaso dal carcere in Turchia per l'assassinio nel 1979 del giornalista del quotidiano Milliyet Abdi Ipecki. Portato in carcere e interrogato mentre Karol Woytila lottava tra la vita e la morte, Agca fornirà subito dichiarazioni contraddittorie dichiarandosi filocomunista. Il giallo si infittiva già nelle ore immediatamente successive all'attentato, quando dalle dichiarazioni dei molti testimoni che si trovavano a poca distanza dal Pontefice emersero divergenze e contraddizioni soprattutto sul numero dei colpi esplosi (secondo alcuni tre o addirittura quattro) e sulla presenza di uno o più complici. La tesi che avrebbe messo in dubbio fin da subito l'azione di un "lupo solitario" fu supportata da una fotografia scattata da un corrispondente televisivo di una rete di Detroit affiliata alla ABC. Presente in Piazza San Pietro durante un periodo di vacanza, Lowell Newton riuscì a fotografare pochi istanti dopo la sparatoria, un uomo di spalle con una pistola in mano intento alla fuga.La condanna di Agca all'ergastolo sarà veloce, la sentenza pronunciata dalla Corte d'Assise già il 22 luglio successivo (senza appello da parte della difesa dell'imputato) ma da quel momento in poi la grande sfida sarebbe stata quella di individuare complici e soprattutto i mandanti dell'attentato a quel Papa che stava cambiando gli equilibri del mondo. La prima ipotesi ad emergere dalle indagini e dagli interrogatori dell'attentatore in carcere fu forse la più logica ed ipoteticamente più credibile vista la situazione internazionale nel 1981 e l'appoggio del Papa polacco al sindacato cattolico Solidarnosc. Quella che si delineò per prima, era una pista che passava dalla Bulgaria, e fu percorsa durante la prima fase delle indagini coordinate dal giudice istruttore Ilario Martella. L'idea di fondo era che il mandante finale fosse il KGB, il servizio segreto sovietico, che avrebbe agito tramite l'intelligence del paese satellite Bulgaria. Un' ipotesi supportata anche dal fatto che la capitale Sofia era nota per essere un punto nevralgico della mafia turca per il traffico di droga proveniente da oriente. Qui sarebbero stati reclutati Agca e gli ipotetici complici, riforniti di armi e di appoggi a Roma per compiere l'attentato del secolo. Ali Agca, interrogato in carcere, fece il nome di due cittadini bulgari residenti nella Capitale: si trattava di Sergej Antonov, caposcalo della compagnia aerea Balkan Air, e di Jelo Vassilev, addetto militare dell'ambasciata bulgara. Il killer turco li avrebbe incontrati a Roma dopo un breve soggiorno di copertura all'università per stranieri di Perugia. Durante il periodo degli interrogatori e dell'ipotesi della pista bulgara Agca mantenne sempre un atteggiamento ambiguo e spesso contraddittorio, indicando durante l'iter processuale l'esistenza di una rete di complici appartenenti ai Lupi Grigi ed alla mafia turca. Tra di essi figurava il presunto complice Oral Celik ritratto in piazza San Pietro dal giornalista americano anche lui membro di spicco dei Lupi Grigi. Assieme ad Agca aveva passato un periodo di latitanza in Iran e successivamente in Bulgaria, dove la rete dei terroristi panturchi latitanti aveva trovato una base sicura, con collegamenti con le associazioni nazionalistiche degli emigrati turchi anche in Germania occidentale. Tra i complici dell'attentato del 13 maggio oltre a Celik, l'imputato indicherà agli inquirenti i nomi di Bekir Celenk (deceduto in carcere nel 1985) Omer Bagci (che avrebbe fornito in Svizzera la pistola Browning) e Musa Serdar Celebi (ai vertici dell'associazione panturca in Germania Ovest). La pista bulgara, seguita fino alla metà degli anni ottanta, non mancava tuttavia di mostrare ombre che minacciavano di minarne le fondamenta. Una di queste fu l'ipotesi che il depistaggio verso le responsabilità di Mosca e dei servizi bulgari (e della Stasi tedesco-orientale) fossero state suggerite ad Agca dopo l'omicidio, durante la carcerazione ad Ascoli Piceno. Il killer turco aveva infatti condiviso la cella con uno degli esponenti più feroci e potenti delle Brigate Rosse, Giovanni Senzani (autore dell'omicidio del fratello del pentito Patrizio Peci) il quale, oltre ad insegnare l'italiano ad Agca, si pensò avesse potuto costruire ad hoc la pista bulgara come depistaggio per coprire ipotetiche responsabilità altrui, che emergeranno più tardi. Uno degli aspetti più controversi della vicenda giudiziaria riguardava l'appartamento romano di Sergej Antonov, che Agca descrisse minuziosamente fornendo addirittura una piantina della casa. Dalla descrizione dell'interno, tuttavia, emerse una contraddizione in quanto l'imputato insistette di avere notato una porta a soffietto tra due stanze, che in realtà non esisteva. La porta in questione era in realtà presente nell'appartamento al piano inferiore dello stabile, abitato da Padre Felix Morlion, un prete messicano presente in Italia sin dal dopoguerra e noto come confidente della CIA tramite l'associazione "Pro Deo" da lui fondata. La conferma venne successivamente da Giulio Andreotti che conosceva l'abitazione del prete anticomunista durante una delle udienze del processo. Proseguendo nel proprio comportamento camaleontico, Agca montava e smontava in breve tempo le indagini, facendo dichiarazioni che si intrecciavano col caso della sparizione di Emanuela Orlandi, che secondo il turco sarebbe stata rapita dai servizi occidentali per ottenere la sua scarcerazione. In quel periodo emerse anche l'ipotesi che l'attentatore del Papa fosse entrato in contatto con il SISMI nella persona di Francesco Pazienza, che secondo Agca avrebbe insistito sull'attribuzione dell'attentato ai servizi segreti dei Paesi dell'Est, idea apertamente supportata da Michael Ledeen l'accademico e consigliere della Difesa Usa che nei giorni dell'attentato a Wojtyla si trovava di stanza a Roma e a stretto contatto con i servizi segreti italiani. Durante la lunga fase processuale che vide la carcerazione del solo Ali Agca, il detenuto fece ulteriori dichiarazioni sulle presunte responsabilità che coinvolgevano il cardinale Agostino Casaroli così come l'Ayatollah Khomeini. Nel 2000 la domanda di grazia fu firmata da Carlo Azeglio Ciampi con il nulla osta del Vaticano e il killer fu estradato in Turchia per terminare di scontare la pena per l'assassinio del giornalista Ipecki. Verrà scarcerato definitivamente nel 2010.Accanto all'inchiesta giudiziaria sull'attentato a Wojtyla si sono affiancate ipotesi di origine religiosa, principalmente legati al terzo mistero di Fatima e a San Pio da Pietrelcina. Nel primo caso la premonizione dell'attentato al Papa fu il risultato di una delle visioni della Vergine trascritta solo nel 1944 dall'unica pastorella sopravvissuta e divenuta suor Lucia. La visione, svelata poi dallo stesso Wojtyla nel Giubileo del 2000, mostrò un vescovo vestito di bianco trascinarsi verso la sommità di un monte per essere poi ucciso barbaramente dalla soldataglia. Giovanni Paolo II, molto devoto alla Madonna di Fatima, volle donare come ex voto il proiettile che lo aveva trapassato che sarà incastonato nella corona della Vergine nel santuario della cittadina portoghese. Per quanto riguarda invece la preveggenza di Padre Pio, questa fu rivelata dal frate allo stesso futuro Pontefice durante una visita nel 1948. In quell'occasione il Santo si rivolse a Wojtyla anticipandogli la propria elezione a Sommo Pontefice (una cosa impensabile per un non italiano in quegli anni) e che l'avvenimento sarebbe stato funestato successivamente dallo scorrere del sangue. Ad oggi, quarant'anni dopo l'attentato, non è stato identificato alcun mandante certo.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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