2021-06-12
Papa Francesco rottama i movimenti. Dopo dieci anni i capi devono lasciare
Un decreto del Dicastero per i laici inserisce una norma «grillina» sui mandati: Julián Carrón, leader di Cl, ha 24 mesi per indire elezioni. Un cambio di linea rispetto all'apertura di credito di Wojtyla e Ratzinger.Per un «sano ricambio», si potrebbe riassumere così l'intento del decreto pubblicato ieri dal Dicastero vaticano per i laici, la famiglia e la vita. I capi al vertice del governo dei movimenti ecclesiali, «associazioni internazionali di fedeli, private e pubbliche, e altri enti con personalità giuridica soggetti alla vigilanza diretta del medesimo Dicastero», hanno i giorni contati, o meglio la stessa persona potrà restare al comando del movimento «per un periodo massimo di dieci anni consecutivi».Ma allora don Julián Carrón, che è presidente della Fraternità di Comunione e liberazione dal 2005, decade? E Giovanni Ramonda, eletto nel 2008 successore di don Oreste Benzi nella Associazione papa Giovanni XXIII? Secondo le nuove regole dovranno «provvedere a nuove elezioni entro e non oltre 24 mesi», appunto per «promuovere un sano ricambio», dice il decreto nella premessa. Inoltre, d'ora in avanti i mandati nell'organo centrale di governo possono durare massimo cinque anni.Se il ricambio sarà «sano» si vedrà, intanto sarà certamente «ricambio», anche per favorire un passaggio «generazionale». L'orizzonte sembra un po' in stile rottamazione di sapore grillino, visto che gli obiettivi hanno un retrogusto aziendalista che non è usuale nel mondo dei movimenti ecclesiali. Si citano «l'opportunità di promuovere un avvicendamento negli incarichi di governo», «la necessità di prevedere mandati di governo tali da consentire la realizzazione di progetti idonei alle finalità dell'associazione», manca solo il conflitto di interessi e la separazione delle funzioni e il menù sarebbe completo.Per carità, se il fondatore è vivente resta in carica, se il Dicastero lo dispensa. E ci mancherebbe altro, provate a immaginarvi un San Francesco di Assisi, per dire, sottoposto al voto e alle correnti per la successione… forse non sarebbe un gran servizio reso allo Spirito santo. Perché questi movimenti non sono Ong, né Srl, né partiti e l'organizzazione democratica, a cui il Decreto invece si impegna, non può ingabbiare il «carisma». Si tratta di realtà comunitarie, diceva Giovanni Paolo II, che tanto si è speso per i movimenti, generate da «un carisma preciso», dotato di una propria «originalità», «donato alla persona del fondatore in circostanze e modi determinati» dall'azione dello Spirito. Ma d'altra parte non si può nascondere che il rischio di utilizzare il «carisma» per accomodarsi in qualche poltrona o poltroncina esiste. Il rischio che il «carisma» delle origini si perda è una realtà per i movimenti, con il fondatore scimmiottato o tradito, utilizzato da qualche ventriloquo che confonde il suo pensiero con quello originale del fondatore. Il mondo dei movimenti è stato fondamentale per la Chiesa degli anni Ottanta e Novanta, fino ai primi 2000, quando in piena crisi post conciliare ha rappresentato una realtà che ha tenuto in piedi una certa vitalità ecclesiale nella società e nella cultura. Poi l'appannamento, che in alcuni casi è stato anche dettato dalla successione dopo il fondatore, un parto sempre difficile come insegna anche la storia degli ordini religiosi.Di certo i movimenti non possono diventare chiesuole nella Chiesa, o sviluppare forme identitarie che finiscono per cadere nel rischio deplorato da San Paolo che ricordava ai Corinzi che «quando uno dice: “Io sono di Paolo", e un altro: “Io sono di Apollo"», si finisce per essere «semplicemente uomini». Papa Francesco, in un suo famoso discorso alla Fraternità di Cl nel 2015, questa la definì «spiritualità di etichetta». Ma fu allo stadio Olimpico di Roma nel 2014 che disse davanti al Rinnovamento nello Spirito santo che «nessuno può dire: “Io sono il capo". Voi, come tutta la Chiesa, avete un solo capo, un solo Signore: il Signore Gesù». E disse di fare attenzione che «tante volte, i responsabili» diventano «controllori della grazia di Dio», decidendo del cammino delle persone.La severità di Francesco nei confronti dei movimenti è certamente più alta di quella dei suoi due immediati predecessori, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, i quali appunto vedevano in questi gruppi la forma più incisiva di esperienza ecclesiale e in un certo senso anche una risposta alla crisi della fede. Bisogna riconoscere che papa Francesco ha le sue ragioni e l'esperienza dei movimenti necessita di una certa purificazione, senza buttare il bambino con l'acqua sporca. Il Decreto di ieri interviene al cuore del governo di queste realtà offrendo anche spunti di buon senso organizzativo, tuttavia è chiaro che per essere missionari nel senso evangelico del termine non basta la sanità procedurale e una buona elezione democratica tra i membri.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
Continua a leggereRiduci