Papa Francesco (Imagoeconomica)
Leonardo Maria Del Vecchio entra clamorosamente nel mondo dell’editoria italiana. Il figlio del fondatore di Luxottica entra nel capitale de Il Giornale e, in parallelo, si prepara a chiudere la trattativa esclusiva per con la famiglia Monti-Riffeser per la maggioranza di QN, il gruppo che riunisce Il Giorno, La Nazione e Il Resto del Carlino. L’obiettivo è quello di costruire un polo dell’informazione, con capitale italiano e ambizioni di sviluppo. Il primo passo è sato ufficializzato ieri. Lmdv Capital, la cassaforte personale di Del Vecchio, ha rilevato il 30% de Il Giornale da Finanziaria Tosinvest, la holding della famiglia Angelucci.
Un’operazione che ridisegna l’azionariato del quotidiano fondato da Indro Montanelli: Tosinvest scende dal 70 al 40%, mentre resta per ora Paolo Berlusconi con il 30%, quota destinata però a ridursi drasticamente. L’editore, infatti, ha già fatto sapere di non voler esercitare le opzioni previste dagli accordi siglati due anni fa, con l’obiettivo di scendere intorno al 5%. Alla fine Tosinvest avrà il 65%, Lmdev il 30% e Berlusoni i 5%. Del Vecchio spiega le motivazioni dell’investimento, che vanno ben oltre la singola operazione finanziaria. «Questo investimento, al fianco della famiglia Angelucci, rappresenta un passo concreto nel percorso che ho delineato nei mesi scorsi: rafforzare l’editoria italiana con capitale italiano, paziente e industriale». Il messaggio si inserisce nel dibattito sempre più acceso sul futuro: «Non possiamo accettare che l’informazione venga condizionata esclusivamente dagli algoritmi o da piattaforme che non investono nel lavoro giornalistico».
Il giovane Del Vecchio si propone come investitore di lungo periodo, deciso a mettere risorse e competenze al servizio delle redazioni. «Capaci» dice «di parlare alle nuove generazioni senza rinunciare alla qualità». Un’impostazione coerente con le altre iniziative di Lmdv Capital, già impegnata nel rilancio di marchi storici come l’acqua Fiuggi e il Twiga. Nelle note ufficiali si parla di un contesto segnato da trasformazioni profonde e da una competizione internazionale sempre più intensa, in cui l’accordo su Il Giornale viene presentato come un tassello per rafforzare un ecosistema editoriale «solido, competitivo e autorevole», in grado di reggere l’urto delle nuove sfide del mercato e del dibattito pubblico.
Ma il vero snodo strategico è il passo successivo. Lmdv Capital è infatti a un passo dall’’acquisizione della maggioranza di QN, il gruppo editoriale controllato da Monrif e presieduto da Andrea Monti Riffeser, che è anche presidente della Fieg. Un’operazione che, se andasse in porto, segnerebbe un ulteriore salto di scala nel progetto di Del Vecchio.
L’esclusiva arriva dopo un tentativo andato a vuoto: quello di rilevare la Repubblica da Exor. La finanziaria guidata da John Elkann, impegnata nel riassetto di Gedi, ha infatti scelto di concedere l’esclusiva per il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari al gruppo Antenna dell’editore greco Kyriakou. Un no che non ha fermato Del Vecchio, ma lo ha spinto a concentrare le proprie energie su un altro pilastro dell’editoria nazionale.
Il disegno prende forma: un ingresso progressivo, partecipazioni mirate, un approccio industriale e una narrazione che rivendica il ruolo dell’editore come garante di pluralismo e qualità. La partita dell’editoria si arricchisce di un nuovo protagonista. E questa volta il capitale parla italiano.
Nel procedimento sul presunto team di spioni capitolini della Squadra Fiore c’è un filone che procede velocemente e su cui i pm, evidentemente, vogliono chiudere in fretta. Nasce da uno stralcio dell’inchiesta di Milano sui cugini meneghini della Squadra Fiore, ovvero gli specialisti dell’agenzia investigativa Equalize, capitanati dal geometra-hacker Samuele Calamucci e dall’ex poliziotto (deceduto il 9 marzo scorso) Carmine Gallo. Le captazioni hanno permesso di registrare le chiacchiere in libertà dell’ingegner Lorenzo Sbraccia (attualmente ai domiciliari con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso), imprenditore nel settore dell’edilizia, appassionato di sicurezza e amico dell’ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, già parlamentare dem e oggi avvocato.
Con le sue parole Sbraccia, preoccupato di avere segnalazioni di operazioni sospette sul groppone alla vigilia di alcuni importanti affari, ha inguaiato Legnini e anche il generale Giuseppe Zafarana, all’epoca comandante generale della Guardia di finanza e oggi presidente dell’Eni.
Calamucci e Gallo, con i magistrati milanesi e romani, avevano già tirato in ballo l’ex numero due del Csm per questioni legate a una nomina a procuratore di Larino, per cui sarebbe stata pagata una robusta mazzetta, e per presunti appalti pilotati nella ricostruzione di Ischia, quando Legnini era commissario straordinario post terremoto. Accuse a cui, nei mesi scorsi, abbiamo provato a cercare riscontri senza riuscirci.
Nel frattempo Legnini e Luca Palamara, che erano stati chiamati in causa, hanno presentato querela a Milano.
Ma adesso dalle conversazioni di Sbraccia con Calamucci e Gallo è stato individuato un altro filone in via di approfondimento che riguarda il presunto coinvolgimento di Zafarana nella verifica dell’esistenza di segnalazioni di operazioni sospette a carico di Sbraccia.
Legnini ha ricevuto una convocazione per la prossima settimana in Procura e il capo d’accusa non cita il generale, ma un ex appartenente alla Fiamme gialle, poi transitato nei servizi segreti come autista. Si tratta di Rosario Bonomo, il quale, ieri, con La Verità ha negato il proprio coinvolgimento nei controlli.
Nella comunicazione della Procura si legge che i reati contestati a Legnini (rivelazione di segreto e accesso abusivo a banca dati riservata) sono «ravvisabili nell’intermediazione compiuta, per conto di Sbraccia, presso ufficiali della Guardia di Finanza (in questo caso il riferimento dovrebbe essere proprio a Zafarana, ndr) ed ex appartenenti al Corpo, tra cui Rosario Bonomo, al fine di consentire all’imprenditore Sbraccia di acquisire informazioni riservate sulle banche dati in uso al Corpo; servizio che Rosario Bonomo svolgeva in modo continuativo - in cambio di remunerazione - sotto forma di assistenza e sicurezza aziendale in favore di Sbraccia».
I primi a indagare su questa pista sono stati i carabinieri di Varese. E in un’informativa inviata alla Procura di Milano avevano ammesso di non avere trovato riscontri: «Sbraccia racconta di quando ha dovuto iniziare a verificare le informazioni che gli veicolavano Gallo e Calamucci, facendo ripetutamente riferimento a un presunto incontro con il comandante generale della Guardia di finanza Giuseppe Zafarana, finalizzato all’espletamento di tali verifiche, episodio in relazione al quale si ritiene, però, di dover precisare che non sono stati raccolti elementi utili ad accertarne l’effettivo svolgimento».
Ma il quotidiano La Repubblica ha dato quasi per assodato il passaggio di documenti: «L’avvocato (Legnini, ndr) ha avuto dall’ex comandante della Gdf Zafarana informazioni per un suo amico imprenditore», ha scritto ieri il quotidiano romano.
L’ex vicepresidente del Csm, da parte sua, ha smentito con forza questa ipotesi: «Tali notizie scaturiscono da false affermazioni rese da appartenenti alla società Equalize […]. Ho già provveduto, lo scorso mese di giugno, a inoltrare atto di denuncia-querela per diffamazione e calunnia nei confronti dei predetti hacker. A seguito delle attività di indagine conseguenti a tali false dichiarazioni da parte degli appartenenti alla società Equalize, ho richiesto io stesso, per il tramite del mio difensore, avvocato Antonio Villani, al pm titolare delle indagini di essere ascoltato, essendo assolutamente convinto della mia totale estraneità ai fatti che mi vengono falsamente attribuiti. Mai, infatti, ho compiuto attività di intermediazione presso gli ufficiali della Guardia di finanza ed ex appartenenti al Corpo, per Lorenzo Sbraccia o per chiunque altro, al fine di acquisire informazioni da banche dati riservate».
A questo punto Legnini puntualizza: «Si riportano, peraltro, errate informazioni come le circostanze pubblicate sul quotidiano La Repubblica, del tutto inesistenti, in base alle quali disporrei da un lato di una casa “corazzata a prova di intercettazioni” e, dall’altro, avrei favorito asseriti incontri e/o presentazioni di Lorenzo Sbraccia con l’ex comandante generale della Guardia di finanza, Giuseppe Zafarana, che mai ho contattato per tali finalità. Fornirò, quindi, con assoluta serenità tutti i chiarimenti che mi saranno richiesti e confido che questa vicenda, frutto di calunniose affermazioni da parte di persone con le quali non ho mai avuto nulla a che fare, possa definirsi al più presto». In effetti Calamucci, a verbale, aveva descritto come una casa bunker («Completamente blindata, con delle porte iperblindate, jammer, delle finestre con delle tende protettive»), non quella di Legnini, ma quella di Sbraccia.
A Milano, Gallo ha riferito ai pm di avere litigato con Sbraccia (un cliente «gold» di Equalize) proprio a causa dei rapporti dell’imprenditore con l’alto ufficiale: «Lui era stato con Legnini dal generale Zafarana […] siccome lui non si fida di nessuno prendeva informazioni anche su di noi […] quindi è andato a chiedere a Zafarana, tramite Legnini, di verificare se a carico suo c’erano attività da parte della Guardia di finanza». L’ex poliziotto scende nei particolari: «Legnini l’ha portato da Zafarana e il generale l’ha ricevuto […] ha chiamato il suo collaboratore, ha detto “fai questo nominativo” e gli ha fatto fare una serie di accertamenti... dopodiché è tornato e ha detto, stai tranquillo che non...». Il generale avrebbe messo Sbraccia sul chi vive, sostenendo che il principale azionista di Equalize, Enrico Pazzali, fosse uno che «spaventa le persone» e avrebbe anche chiesto di riferire ai vertici della società milanese «che queste cose che fanno sono illegali e rischiano...». Gallo avrebbe chiesto a Sbraccia di riferire questo suo messaggio al comandante: «Digli a Zafarana che se l’ha fatto (il controllo, ndr), ha fatto una cosa illegale anche lui». Adesso gli inquirenti capitolini, per accertare la veridicità della vicenda, hanno convocato in Procura uno dei protagonisti: Legnini. Prima di loro, i colleghi milanesi avevano trasmesso il fascicolo nella Capitale, competente territorialmente, per gli opportuni accertamenti senza avere prima iscritto Zafarana sul registro degli indagati, a causa dei mancati riscontri. Dal tono vago della convocazione inviata a Legnini sembra che la ricerca non abbia ancora prodotto risultati certi nemmeno nella Capitale. Anche perché se alla Guardia di finanza avessero inserito il nominativo di Sbraccia nella banca dati che contiene le sos, una traccia sarebbe dovuta rimanere. Ma a leggere l’informativa dei carabinieri sembra che i primi controlli non abbiano consentito di individuare la presunta interrogazione illecita.
Una ricerca analoga ha, invece, dato risultati clamorosi nell’inchiesta sui presunti accessi abusivi realizzati dal tenente delle Fiamme gialle Pasquale Striano.
Le intercettazioni rivelano che Sbraccia ha usato il nome di Zafarana per esternare di fronte a Gallo e Calamucci i dubbi sul loro operato, come se lo volessero tenere sulle spine per scucirgli quattrini: «Te lo dico sincero, io sono franco eh... a me non mi devi prendere in giro, se c’è il problema lo devo sapere, se non c’è, non è che cambia il mio atteggiamento nei confronti di Equalize» dice. E aggiunge, riferendosi al generale che lo avrebbe tranquillizzato: «Se tu mi dici che le sos ci sono ho bisogno di andare a prendere di petto Zafarana e dire “senti testa di c...”». E quando l’alto ufficiale aveva saputo che le informazioni arrivavano da Equalize si sarebbe scaldato e avrebbe definito quelli di Equalize «ricattatori di m…»: «Mo’ ci penso io», avrebbe esclamato. E anche: «Mo’ lo distruggo (Pazzali, ndr)». Sbraccia riferisce ai suoi due interlocutori anche il motivo di tanto risentimento: «Perché già a un’altra brava persona gli han fatto lo stesso sistema, però ovviamente ricattandolo, creando un problema per poi provare a risolverlo e fottergli i soldi...».
Nella conversazione viene citato l’ex 007 dell’Aisi Bonomo, assunto dall’imprenditore ai domiciliari su indicazione di Legnini.
Sbraccia, dopo avere ricevuto da Gallo e Calamucci un estratto della banca dati protetta Serpico, si sarebbe confrontato con l’ex agente, il quale avrebbe avvertito il suo datore di lavoro che con quel materiale si «rischiano fino a
cinque anni di carcere»: «Questo me l’ha detto Bonomo... quello che voi avete portato a Roma è Serpico...». E anche Legnini avrebbe consigliato a Sbraccia di «chiudere» con Equalize.
Nell’intercettazione l’imprenditore propone una soluzione a Gallo e Calamucci. Suggerisce di mettere a confronto le presunte fonti di Equalize e i potenti mezzi del Comando generale della Gdf per acquisire conferme sull’esistenza delle sos: «Tu mi dici: “Guarda non riesco a essere certo”... vuol dire che io chiedo a Legnini, una volta ogni quindici giorni, vado da Zafarana e gli faccio fare il controllo…». Calamucci assicura di essere anche lui in grado di monitorare e «vedere» le sos: «Su questo ci dev’essere una collaborazione… io ti dico: “Io vedo questo, c’è questo”, poi tu gli chiedi anche la tua verifica... se il mio dato è genuino, io son più contento!». Ma poi lancia l’alert e «chiarisce a Sbraccia che anche quello che avrebbe fatto Zafarana (la verifica dell’esistenza o meno di sos a suo carico) costituisce un reato: “L’illecito lo commette anche lui eh, perché lo controlla per conto di un privato”». A Milano non hanno trovato riscontri a queste affermazioni. Adesso a cimentarsi sono i magistrati di Roma, che hanno deciso di interrogare, su sua richiesta, Legnini a poche ore dal Natale.
Panorama condannato per aver definito “pirati” gli attivisti delle ONG, anche se sono proprio loro a rivendicare violazioni e forzature delle leggi. È un attacco alla libertà di stampa, ma le anime belle non si scandalizzano. E mentre si difende la presunta libertà di violare i confini, si infierisce su chi fa scelte davvero controcorrente come la famiglia del bosco.
Ed arbitro s’assise in mezzo a loro. La visione manzoniana del ruolo non ha più senso nei tribunali, figuriamoci a pelo d’erba dove rotola il pallone, nel delirio collettivo del football. Ma è proprio dall’arbitro che parte il giudizio del mondo sportivo, è ancora lui il termometro più attendibile per valutare lo stato di salute di un sistema. Ecco, se vale l’assunto, quello italiano è profondamente malato, quasi in coma. Lo si comprende da due vicende di questi giorni. Due storie, due anomalie: il caso Marco Guida e il caso Milan-Como a Perth, partita di campionato che sarà diretta da un fischietto asiatico.
L’arbitro di Pompei era il prescelto dai vertici dell’Aia per dirigere la finale di Supercoppa italiana a Ryad lunedì sera, con una postilla surreale: se non ci sarà il Napoli. In caso contrario (quindi nel mondo reale visto che gli azzurri di Antonio Conte hanno liquidato il Milan in semifinale) lui resta a casa e si scalda Andrea Colombo. Tutto questo perché tempo fa Guida chiese di stare lontano dalle partite dei campioni d’Italia «per salvaguardare la famiglia». Motivazione ufficiale: «La mattina devo andare a prendere i miei figli a scuola e voglio stare tranquillo».
Una scelta personale che il designatore Gianluca Rocchi ha accettato senza battere ciglio. Il timore è legittimo ma la vicenda è pazzesca: si tratta del primo caso di ricusazione palese di una squadra da parte di un arbitro. Il problema non sta nella gentilezza del venire incontro a un timore, ma nel condizionamento indotto a tutto il campionato, visto che Guida continua allegramente a fischiare o non fischiare rigori, a decidere o non decidere ammonizioni nelle partite dei club in lotta per lo scudetto, punto a punto proprio contro il Napoli. Poiché la stagione sembra avviata a una lunga, affascinante ed estenuante volata a quattro o a cinque (anche Milan, Inter, Roma, Juventus coinvolte) è molto probabile che la stranezza venga trasformata in aberrazione procedurale. I soliti sospetti? Se ci sono, è proprio la casta arbitrale ad alimentarli prima ancora delle curve.
Si parla tanto di regolarità del campionato ma un altro caso si profila a metterla in dubbio, un secondo bruco nella mela: la gita a pagamento di Milan e Como per disputare l’8 febbraio in Australia la sfida di campionato (San Siro sarà inagibile per la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi invernali). Per 12 milioni lordi da spartire - 5 al Milan, 4 al Como, 3 al resto del circo - la Serie A con il cappello in mano attraversa il globo e diventa per la Fifa un esperimento in provetta di calcio globale senz’anima. I tifosi rossoneri sono sulle barricate e il rimborso di 25 euro agli abbonati li lascia indifferenti: «Quella sarà una sfida vera, avremmo voluto esserci. Anche in campo neutro ma in Italia. Dov’è il rispetto per gli spettatori?».
Follow the money. Dalla federazione guidata dal traballante Gabriele Gravina e dalla Lega dell’impalpabile Ezio Simonelli nessuna opposizione, anzi un atteggiamento da leoni da scendiletto. La stessa proposta (Villarreal-Barcellona a Miami) era stata rigettata dopo un minuto dalla Liga spagnola. Noi no, noi siamo più cool, anche se l’Uefa medesima avrebbe volentieri vietato la gita da Erasmus del football. Con un problemino non secondario: l’arbitro sarà asiatico, designato dalla Fifa. E allora? E allora c’è il rischio di mandare in vacca la regolarità del campionato.
Il regolamento prevede (all’articolo 5) che «le gare ufficiali devono essere dirette da un arbitro designato dal competente organo tecnico dell’Aia». Sarà sufficiente un ricorso qualsivoglia per scatenare un putiferio. Chiamato a prendere posizione, il presidente della Commissione arbitri della Fifa, Pierluigi Collina, ha dato il via libera (come chiedere all’oste se il vino è buono). Lo sottolinea il numero uno della Lega, Simonelli: «Collina mi ha dato garanzie, ha fischietti di qualità da segnalare per la partita. Noi accetteremo questa condizione». Ma il vulnus regolamentare rimane, è l’elefante nella stanza mentre il mondo del pallone si sgonfia e perde credibilità. Lo stesso Gravina, risvegliandosi dal sonno dei giusti nutre qualche dubbio: «Sull’arbitro asiatico qualche riflessione va fatta, soprattutto in merito all’equa competizione». La stessa che con Guida in giro per l’Italia sarebbe salvaguardata, bontà sua.
Verghino signori, per un pugno di dollari si svende il calcio italiano, già malandato di suo. Lo si nota nel mini torneo arabo, dove la Supercoppa è custodita da hostess velate trattate da oggetti misteriosi, gli stadi sono semivuoti (va fatta la tara ai figuranti ingaggiati a pagamento) e i nomi dei calciatori - almeno quelli del Milan sponsorizzato Emirates - scritti in arabo sulla schiena. L’europarlamentare della Lega, Silvia Sardone, è saltata sul divano: «Le immagini mi hanno lasciata perplessa, è uno spot all’islamismo, la celebrazione del velo che è lo strumento di oppressione per eccellenza. Come può la Lega (calcio, non facciamo confusione - ndr) permettere tutto questo? Sappiamo che non è più sport ma solo una questione di soldi. Però a tutto dovrebbe esserci un limite. Basta con la svendita del nostro calcio».
Un’aggravante è l’inconsapevolezza dei protagonisti. Riassumendo la questua itinerante di Ryad e Perth, l’allenatore del Milan Max Allegri mostra lampi di entusiasmo: «Speriamo che tutto ciò sia un apripista del futuro del calcio italiano e non solo un caso isolato». Tanto lui è già tornato a casa.
