2023-12-18
Paolo Jannacci: «Pubblicare certi testi delle canzoni di papà oggi sarebbe difficile»
Paolo Jannacci (Imagoeconomica)
Il musicista: «È la sagra del “non posso più dire niente”. L’arte ci aiuta ad alzare gli occhi e non perdere la visione d’insieme».Ha recuperato tra le registrazioni del giovane Enzo Non posso sporcarmi il vestito. Un inedito che si accompagna ad altre canzoni dei primi anni della sua attività artistica. A dieci anni dalla scomparsa, ha scelto per il vinile una foto in cui papà è elegante, impeccabile.La parola «eleganza» torna spesso, in questa conversazione con Paolo Jannacci. Così come arte, e gentilezza. Mi racconta dell’album, pubblicato con Ala Bianca, dal titolo Enzo Jannacci, qualcosa da ascoltare, tra inediti e rarità. E gli chiedo se sia contento, a un mese dall’uscita. «Molto», risponde, «perché tanti amici, e tante persone di qualsiasi credo politico, o religioso, o di pensiero, si sono affezionate e interessate alla figura di papà, e quando gli dedicano tempo e attenzione è una cosa importante e bella sia per me, che per la mia famiglia».Enzo Jannacci ha lasciato tanto, in termini di musica, testi, canzoni registrate live o in studio. Come ha fatto a scegliere? «Ogni cosa è stata pensata, ragionata nei minimi particolari. Come facevamo insieme. Per fare una differenza, seppur minima, ecco: questa è sempre la speranza. Ci sono brani che hanno la loro storia, o un loro appeal nell’ascolto anche se accusano i segni del tempo. Ma sono belli così».Non la conoscevo, ma mi immaginavo che avrebbe risposto che è contento. Nelle foto che ho visto di lei, o dal vivo, indossa sempre un gran sorriso.«Sì, mi devo dire felice. Perché mi reputo un privilegiato, e quindi sto anche molto attento a questa mia condizione. È emozionate, glielo confesso. Desidero utilizzarla sul lato artistico per chi non ha avuto l’aiuto di nascere in una famiglia, in un ambiente come il mio. Ne parlavo l’altro giorno con un collega docente…». Perché lei, musicista, jazzista, non ha mai smesso di insegnare, al Cpm Institute di Milano.«Insegno musica d’insieme, sì. Cioè a interagire gli uni con gli altri durante l’esecuzione di un brano».Su cosa rifletteva?«In questo mondo un po’ disgraziato, con tutto quel che succede a causa di egoismi e mal di vivere, sarebbe interessante pensare maggiormente alla condizione degli artisti. Che per me vuol dire lavorare con la musica, o con la poesia. Ma c’è pure la pittura, e tanto altro. L’arte può generare scintille di umanità anche in chi non nasce artista e - lo vedo in classe - chi ne ha il dono vive senza stereotipi nel pieno rispetto degli altri, con grande disciplina e umanità».Si lavora per qualcosa di astratto, nell’arte.«Per qualcosa di alto, sì. Ma non occorrerebbe spingersi un po’ al di là di cose che forse si rivelano poi insignificanti? Le riteniamo forse totalizzanti, perdendo la visione d’insieme, che magari può essere aiutare il prossimo, o fare bene il proprio lavoro, cercare magari, che so, di far sorridere qualcuno».L’artista è però pure da sempre inquieto, no?«La malinconia la abbiamo tutti. Quella per il tempo perduto, a volte la famosa “nausea”, il mal di vivere. Sì, gli artisti la accusano a volte anche pesantemente, ma si fa finta di niente perché è giusto così: si sale sul palco, e si lascia dietro le quinte quella condizione di tristezza legata alla ricerca della verità. Con la quale ti scontri, spesso».È una salvezza, poter salire sul palco, quindi?«A volte sia per chi recita sia per chi fa da spettatore, per entrambi». Lei ne ha una sua, di verità?«Devo dirle: ho abbastanza fede, sì, abbastanza. Anche se devo ancora capire bene cosa sia, a 50 anni. Però è una cosa importante, per me, anche dal punto di vista dell’emozione. L’altro antidoto alla disperazione è l’amore perfetto. E però la vita è fatta anche di momenti transitori».E quando arrivano?«Si usa l’ironia, tramutando in ironia il mal di vivere. A me piaceva fare così, con papà. Mi ha insegnato a convivere con questo essere saltimbanchi. Con eleganza, però. Che significa rispettare l’altro e te stesso. Per generare un circolo virtuoso». Non è da tutti avere un padre così «ingombrante». C’è qualcosa della sua paternità, un segreto per cui lei sembra non aver risentito l’ingombro di quel nome sulla sua carriera?«Il nostro percorso artistico insieme è stato qualcosa di molto naturale. Lui era orgoglioso di me ragazzino, vedeva del talento. Forse come tutti i papà, che un po’ è ovvio che esagerino. Capita anche a me, di pensare che mia figlia scriva già come Salinger (sorride, ndr)». Lei ha sempre voluto fare il musicista?«No no, come papà volevo essere chirurgo. Quello dei telefilm, che salva le vite. Fu lui a consigliarmi: hai troppo talento, per fare il medico. Me lo sconsigliò anche per questioni burocratiche nella gestione dello studio, e poi perché era difficile per lui destreggiarsi nella medicina degli anni Ottanta. Mi suggerì di andare avanti con la musicalità e con le armonie. E paradossalmente ci diversificammo».Fu merito di papà?«Forse è stata una delle poche cose sagge che ho capito io: Enzo era un genio espressivo, viveva di invenzione pura e di relazione con gli altri. Io invece ero… un artista, sì, ma che desiderava lavorare in produzione, in studio, e mettere in ordine gli arrangiamenti. I complimenti che mi facevano più piacere erano quando dicevano a papà che da quando lo affiancavo sembrava più intonato. Sono diventato la sua mano destra, e avevamo una sorta di telepatia musicale. Vede, ho sempre saputo di non potermi sostituire a lui. Non tanto perché fosse irrispettoso, quanto perché Enzo Jannacci c’era già».Con sua madre, Giuliana Orefice, hanno condiviso 40 anni di vita. Un grande amore. Me ne parlava prima.«Di amori così penso che possano esisterne a bizzeffe, al mondo, ma è difficile descriverlo a parole. Ci prova la letteratura da sempre. Quell’amore che riempie, e permette di ricominciare ogni giorno. Credo in tutto questo perché l’ho visto in loro. Ma lo dico spesso: di persone pazienti come mia mamma credo ne esistano poche, soprattutto oggi».Lo era?«Le donne tengono spesso in piedi la famiglia. A volte raccolgono i pezzi del proprio compagno, uomo, marito, e lo accompagnano a vivere il giorno dopo. Ho scoperto che anche mia moglie (Chiara, ndr) fa così. È la mia confidente, la miglior amica. A mamma però, visto che è riuscita a star dietro a uno come mio padre, dovrebbero dare il Nobel della pazienza».Era un uomo difficile nel privato?«La vita per lui certi giorni era o bianca o nera. Scelga lei i colori che più le piacciono. Un giorno era fantastica, un altro un inferno. Aveva preso l’abitudine di partire con un’auto mezza scassata e fare chilometri, per esempio. Ti chiamava dalla Germania, aveva fatto un incidente, e chiedeva che qualcuno lo venisse a prendere».Libero, insomma.«Difficile lasciare questa libertà all’altro al giorno d’oggi. Me ne rendo conto con mia figlia, e con tutti questi sistemi sul cellulare per tracciare i movimenti della nostra famiglia. Siamo iper controllanti, e mi dispiace, sembra non se ne possa fare a meno». Quella di Enzo Jannacci fu anche libertà di pensiero. Giorgio Gaber, Dario Fo, Teo Teocoli, Cochi e Renato erano tra i suoi amici, pure loro liberi. Sono stati importanti per la sua vita, Paolo?«Ho mantenuto ottimi rapporti con tutti gli amici di papà che ancora ci sono, ma non li frequento, perché erano i suoi, di amici. L’unico è Giorgio Vittadini, una persona straordinaria, esuberante e geniale. Con lui sì, mi piace chiacchierare al di là di ogni stereotipo».È cambiato qualcosa rispetto al mondo che ha respirato a pieni polmoni da ragazzo?«Mi viene da dire che allora non c’era una tensione spasmodica a trovare l’errore, a tendere tranelli, cercare il fraintendimento nella comunicazione. Di critiche ovviamente ne arrivavano, più o meno eleganti, ma poteva essere interessante accoglierle, pure se talvolta facevano male». Un esempio?«Beh, banalmente, quando mi dissero che ero completamente stonato pensai: forse questo ce l’ha proprio con me. Mi avesse detto che avrei dovuto lavorare meglio sull’espressione, lo avrei accettato in modo costruttivo».Ora invece?«Mi pare la sagra del “non posso più dire niente”, sa? Certi testi di papà, me ne sono reso conto, se li si pubblicasse oggi passerebbero sotto forche caudine».Impegno sociale, mai etichetta politica per Enzo. Anche se…«Non gli importava, davvero. Per come la penso io, se accetti la mia libertà di pensiero, allora non ti devo obbligare a pensarla come me. Certo, se ci fosse un dittatore che ci fa entrare in guerra… ecco, allora sì, che lo attaccherei in maniera aperta per il bene del nostro Paese, ma nessuno credo remi contro questo, sarebbe illogico».Discutevate di politica?«Provocava spesso, facendomi sorridere. Gli importavano però le persone, e non le parti. Il valore del messaggio, e se era lanciato con eleganza o con maleducazione».
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