Con la sua équipe, il sociologo francese Laurent Mucchielli ha analizzato gli anni del virus: «La narrazione imposta su lockdown e vaccino come unica via serviva al potere per legittimarsi. Ora va tutto esaminato, per non rifarlo in futuro».
Con la sua équipe, il sociologo francese Laurent Mucchielli ha analizzato gli anni del virus: «La narrazione imposta su lockdown e vaccino come unica via serviva al potere per legittimarsi. Ora va tutto esaminato, per non rifarlo in futuro».«Da due anni e mezzo stiamo vivendo una crisi che non è solo sanitaria ma intellettuale, caratterizzata dall’impossibilità di contraddittorio scientifico e dall’imposizione di un pensiero unico da parte di governi e media che sopravvalutano esperti da loro stessi nominati e screditano ogni voce dissonante. Questa è stupidità».È una lettura ampia e severa della pandemia quella di Laurent Mucchielli, direttore di ricerca presso il Centro nazionale della ricerca scientifica di Francia, sociologo, autore di decine di pubblicazioni.Nel 2020, perplesso davanti alla gestione politica dell’emergenza Covid, con una équipe di ricercatori e medici ha avviato un’indagine scientifica indipendente: ne è emerso The Covid Doxa, libro in due volumi che raccoglie i risultati del loro lavoro. Cosa significa «doxa del Covid»?«La “doxa” è un concetto filosofico ripreso dal sociologo francese Pierre Bourdieu, con cui si designa il discorso dominante su un dato argomento, in un certo contesto temporale. È dominante perché è il racconto dell’élite, che attraverso questo racconto si autolegittima: la doxa è la narrazione che indica alla popolazione che cosa sia, per lei stessa, buono e giusto. La sociologia della dominazione descrive proprio come certe élite impongano non solo meccanismi economico-sociali ma anche mentali, inculcando una data visione del mondo, e considerino il popolo stupido». Come è stata applicata la doxa alla pandemia di Covid?«Partendo da un’analisi strutturale della narrazione che è stata fatta, abbiamo individuato quattro convinzioni su cui essa poggiava: l’idea che l’epidemia rappresentasse una minaccia per l’intera umanità; l’idea che non ci fossero cure mediche per i malati; l’idea che l’unica maniera per contenere l’epidemia fossero i lockdown; l’idea che il solo modo per sconfiggere l’epidemia fosse l’arrivo di un vaccino miracoloso. Queste quattro affermazioni sono tutte discutibili, sia in linea di principio che empiricamente, alla luce delle conoscenze disponibili». Siamo stati esposti ad una sequenza narrativa insomma?«Sì, e l’affermazione del direttore dell’Oms a febbraio 2020 secondo il quale il coronavirus era “un pericolo mortale per l’umanità” è stato il punto di partenza: ha seminato subito l’emozione più forte, ovvero la paura di morire. Ancora oggi ci sono persone che non sono uscite da questo stadio e sono come bloccate; è un sentimento che trascende le categorie sociali e prescinde dalla cultura, perché paralizza il lobo frontale, sede della riflessione. Questo è stato un passaggio fondamentale. Diffondendo l’idea che non si sapesse come curare il nuovo virus, dalla paura si è poi passati al terrore e quindi alla necessità di ricorrere al lockdown quale unica misura di contenimento della diffusione. Infine, ultimo passaggio e deus ex machina del racconto, si è annunciato l’arrivo del vaccino quale soluzione. Questa storia, che non nulla a che fare con il complottismo, è stata raccontata fin dall’inizio ed è testimoniata dai discorsi di capi di governo, ministri, autorità».La vostra analisi smonta tutte le quattro convinzioni. Cominciamo dalla prima: era falso far credere che saremmo morti tutti.«Fin da subito si è saputo che la stragrande maggioranza della popolazione era asintomatica e che solo una piccola parte, fragile, anziana, con comorbilità e un sistema immunitario compromesso, era esposta alla malattia grave. Trattare tutti indistintamente come potenziali vittime era dunque o un errore o una bugia. Lo aveva scritto, fin da aprile 2020, uno dei più grandi epidemiologi del mondo, John Ioannidis».La seconda affermazione della narrazione - non ci sono cure - cosa ha comportato?«Il consiglio era di non fare nulla finché la situazione non fosse degenerata: una aberrazione medica, un rifiuto di curare contrario all’etica. Tutti i medici, una cinquantina tra generalisti e specialisti, che abbiamo intervistato per lo studio e che avevano curato i pazienti Covid fin da subito con antibiotici e altri farmaci conosciuti e sicuri, ci hanno detto di aver sperimentato una mortalità quasi nulla nella loro pratica. Non solo: nelle linee guida sanitarie ufficiali, era stata completamente abbandonata anche ogni consueta prevenzione generale. Un sistema di corruzione ha osteggiato le terapie economiche per sostituirle con altre molto più costose, nell’interesse dell’industria farmaceutica».Con il lockdown si entra nel cuore della propaganda. Perché?«Perché essendo una misura politica, richiedeva una giustificazione: per promuoverlo, i governi hanno assicurato, con l’appoggio di scienziati compiacenti, che avrebbe “salvato vite”, laddove in nessun paese occidentale questa misura ha inciso sulla scomparsa o l’attenuazione dell’epidemia. Non solo: i governi non hanno mai neanche cominciato a valutare scientificamente le ricadute sociali, educative e psicologiche dei lockdown a breve, medio e lungo termine. Che sono la realtà con la quale dovremo confrontarci per anni, penso in primis alle conseguenze dell’abbandono scolastico».Ultimo capitolo: l’arrivo del vaccino.«Il vaccino salvatore è il gran finale per il quale è stata scritta tutta la storia: è la questione sulla quale non si può esprimere alcun dubbio pena la definizione di novax, complottista, terrapiattista, da parte di politici e giornalisti divenuti propagandisti. Siccome ora sappiamo che il vaccino non protegge dalle forme gravi nella misura inizialmente indicata, non impedisce di contagio e presenta un numero di effetti avversi gravi senza precedenti, di conseguenza deve venir meno la bugia dell’altruismo ampiamente usata e va abbandonata l’idea di vaccinare il cento per cento della popolazione, in nome del principio di precauzione».Che idea si è fatto di questa vicenda?«Che siamo davanti al più grande scandalo sanitario della nostra storia. E che la gestione catastrofica di questa crisi va analizzata con coraggio, senza concessioni. Non per cercare colpe ma per non commettere gli stessi errori nelle epidemie future».
Anna Falchi (Ansa)
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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