
Smentita la morte per overdose della ragazza trovata in due trolley. Mentre in tribunale sfilano le immagini agghiaccianti, il nigeriano Oseghale non guarda e i genitori della giovane piangono tenendo il capo chino.«Non ce la faccio»: è il lamento di Alessandra Verni; china il suo caschetto biondo cenere sul banco, sopraffatta da un fremito d'indicibile dolore. Gli occhi perdono la luce e si velano di un ruscello di pianto. Il fratello, l'avvocato Marco Valerio Verni che sostiene la parte civile per conto dei genitori di Pamela Mastropietro, cerca di calmarla. Lei è composta e distrutta. Accanto il padre della povera vittima Stefano Mastropietro è come impietrito. L'orrore è il volto di Pamela proiettato sullo schermo. I denti serrano la lingua come fosse stata soffocata, gli occhi sbarrati, i capelli disciolti dalla varichina. È la prima volta che la mamma vede il volto di Pamela com'era quando la testa della sua bimba è stata trovata avvolta da un sacchetto di plastica azzurra in uno dei due trolley che Innocent Oseghale, il nigeriano di 34 anni accusato di averla violentata, uccisa e fatta a pezzi, ha usato per sbarazzarsi del corpo della ragazza romana ammazzata il 30 gennaio 2018 nell'appartamento di via Spalato a Macerata. Quando l'avevano accompagnata all'obitorio per il riconoscimento col solo sostegno di un ufficiale dei carabinieri donna, pietosamente avevano ricomposto quel viso d'angelo che ha conosciuto l'assoluta barbarie umana. Inocent Oseghale, il presunto assassino e autore dello scempio del cadavere, non guarda: parla con l'interprete della quale forse non avrebbe neppure bisogno. E lo farà per ore, tanto quanto dura una drammatica udienza, la quarta, del processo Mastropietro. Sfilano i medici legali, dal proiettore emerge un orrore indicibile, le immagini della morte sono i pezzi del corpo di una ragazza fragile che a 18 anni si era persa, ma coltivava la speranza di ritrovare la strada della vita. Emerge che Pamela non è morta di overdose, è stata uccisa con tre coltellate al fegato e il corpo è stato sezionato quando lei forse era ancora viva. Questo sostengono i periti dell'accusa che hanno deposto: l'anatomopatologo Mariano Cingolani e il tossicologo Rino Froldi. Quelle fotografie - di cui ieri La Verità ha dato in esclusiva un'anticipazione descrivendole - sono un incubo costante, un'angoscia che serra la gola, un orrore che costringe ad abbassare lo sguardo. Ne è consapevole il presidente della Corte di Assise Roberto Evangelisti che autorizza la proiezione delle foto, ma dispone la celebrazione del processo a porte chiuse. Il pubblico che già assiepa l'aula 1 del palazzo di giustizia di Macerata rumoreggia, fuori dal tribunale un gruppo di persone srotola uno striscione improvvisato. Un drappo rosso con scritto in nero «vogliamo vedere la verità», ma forse è meglio di no. Anche i difensori di Oseghale, Simone Matraxia e Umberto Gramezi fanno fatica a guardare. Restano i giornalisti che devono raccontare; vietato riprodurre le foto e riprenderle. Comincia l'udienza e viene chiamato a deporre Antonio Tombolini, medico legale. È stato lui a fare la ricognizione del cadavere il 31 gennaio 2018. La sua deposizione lascia aperti molti dubbi, ma descrive minuziosamente come è stata fatta a pezzi. «È un lavoro fatto in maniera estremamente intelligente e accurato: c'è una logica raffinata dietro a tutto questo». Un'affermazione che Marco Valerio Verni commenta come inopportuna aggiungendo che il medico si lascia andare ad anticipazioni sui fatti azzardate. Il professor Mariano Cingolani, l'anatomopatologo che ha eseguito la seconda autopsia incaricato dal procuratore di Macerata Giovanni Giorgio non ha però dubbi: Pamela è stata ammazzata con tre coltellate al fegato. Ma ecco orrore nell'orrore: non si può escludere che la ragazza quando è cominciato il sezionamento fosse ancora viva. E questo conferma esattamente il racconto del collaboratore di giustizia Vincenzo Marino che alla prima udienza ha testimoniato sulle confidenze che in carcere gli aveva fatto il nigeriano. Non solo sia Tombolini sia Cingolani confermano che per fare quel tipo di depezzamento (le ossa sono state staccate disarticolandole) serve una grande perizia. «Io non ci avrei impiegato meno di tre ore», dice Cingolani. E qui tornano i dubbi: Oseghale ha fatto tutto da solo? Arriva la deposizione di un luminare della tossicologia, il professor Rino Froldi (anche lui consulente dell'accusa) che è categorico: Pamela è stata uccisa, non è morta per overdose. «Non abbiamo trovato sangue a sufficienza ma dai valori riscontrati nel fegato, negli occhi possiamo escludere che Pamela sia morta per overdose». I periti inchiodano dunque Oseghale alle sue responsabilità. L'accusa di omicidio sembra reggere, ma ciò che atterrisce è la modalità con cui il corpo di Pamela è stato sezionato. A raccontarlo per primo è proprio Tombolini , che afferma: «In una valigia c'era solo la testa avvolta in sacchetto di plastica azzurra, nell'altra il resto del corpo». Dal cadavere emanava un forte odore di varichina. Per lavarlo ce ne sono voluti almeno cinque litri a un solo scopo: distruggere ogni possibile traccia di Dna». E prosegue implacabile: «Risulta l'asportazione della vagina molto accurata per alterare la presenza di un rapporto sessuale. Amputato il monte di Venere e asportate le grandi labbra, tolta la cute anale e perianale come sede di possibili rapporti». A queste parole le giurate contraggono i visi, l'aria è pesantissima. Oseghale non guarda, cerca in qualche modo di nascondersi. Alessandra Verni resta a capo chino: piange come Stefano, il papà di Pamela. Sullo schermo c'è l'immagine dei femori scarnificati: è l'orrore assoluto.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





