2018-04-28
Israele è innocente, quella tragedia è colpa solo degli arabi
Una diaspora di disperati accomunati dal non avere uno spazio proprio e condannati alla sofferenza dai Paesi islamici: 5 milioni di profughi ammassati in 59 campi. L'obiettivo non è vivere in pace, ma mantenere una spina costante nel fianco di Israele. Nel suo encomio dei palestinesi, Bruno Tinti ha usato ieri un paio di riuscite preziosità letterarie. Da un lato, ha finto di criticarli - «hanno sbagliato tutto» - per meglio esaltarne l'eroismo e concludere: «Non riesco a non stare dalla loro parte». Dall'altro, ha largheggiato in immagini poetiche per illustrare la disparità di forze con Israele: i leggiadri aquiloni palestinesi con le molotov agganciate contro i possenti tank ebrei, la fionda artigianale opposta ai micidiali Tar israeliani, le pietraie brulle su cui i ragazzi di Gaza percorrono scalzi la «marcia del ritorno» per protestare contro l'occupazione delle loro terre (e anche ieri si sono contate tre vittime tra i manifestanti caduti sotto il fuoco dei soldati di Tel Aviv dopo che erano riusciti a sfondare la recinzione). Fin qui, uno legge e partecipa. Poi, però, la penna scappa all'autore ed emerge una sua idea di Israele prossima a una satrapia sanguinaria. Parla, infatti, di «soperchierie», «controlli provocatori», «qualche morto ogni tanto» e della continua ricerca ebraica di «alibi per incrementare la repressione». Ho avuto così l'impressione che Tinti, da giurista, consideri illegittima, oltre che prepotente, la presenza dello Stato ebraico in mezzo agli arabi. Nell'articolo sostiene, infatti, che l'Onu nel 1947 «dispose del territorio palestinese in aperta violazione della sovranità nazionale». Nel 1947, quel pezzo di terra non apparteneva a nessuno. Lo amministrava, per mandato, l'Inghilterra. Finita la guerra 1914-1918, dopo 400 anni di occupazione ottomana, la Turchia sconfitta aveva abbandonato il mondo arabo. I vincitori, Francia e Inghilterra in testa, spartirono le terre tra quattro nazioni create lì per lì: Siria, Iraq, Libano e Giordania. Restava un pezzetto da distribuire: la Palestina propriamente detta. Alla vigilia della decisione Onu, ci vivevano due etnie: 1.200.000 arabi e 550.000 ebrei (Focolare ebraico). Nessuno degli abitanti si sentiva e diceva di essere palestinese. L'Onu divise fifty fifty. Gli ebrei accettarono la decisione e fondarono Israele. Gli arabi la rifiutarono, inalberandosi. Chiamarono nakba (catastrofe) la nascita dello Stato ebraico ed Egitto, Siria, Libano, Giordania gli dichiararono guerra (16 maggio 1948). La persero e qui comincia la storia dei palestinesi come li conosciamo oggi. Sono i profughi di quella prima guerra e delle successive tre, tutte finite in sconfitte. Non un vero popolo con una memoria collettiva ma una diaspora di disperati con il solo elemento comune di non avere uno spazio proprio. Da Israele, in seguito alla guerra, partirono 700.000 arabi che potevano tranquillamente rimanere se non ci fosse stata. Formarono il nucleo forte dei palestinesi erranti nato dell'insipienza delle loro classi dirigenti. Ma il peggio viene ora. Assorbire in qualche modo 1.000.000 e rotti, tanti erano nel 1948 i profughi, era possibilissimo. Sia creando finalmente lo stato palestinese nel territorio assegnato dall'Onu, sia accogliendoli nei Paesi limitrofi. Poiché l'obiettivo però non era vivere in pace, ma mantenere una spina nel fianco di Israele, il mondo arabo condannò i palestinesi alla sofferenza nella quale languono da 70 anni. I profughi sono saliti oggi a 5 milioni. Vivono ammassati in 59 campi tra Giordania, Libano, Siria ecc., mantenuti miseramente dall'Unrwa, agenzia dell'Onu. Ossia, a carico del resto del globo. Masse gettate nell'esasperazione e nell'odio in attesa di scagliarle contro Israele. O per dirla con lo statuto di Hamas, il movimento islamico che oggi controlla i palestinesi, «finché l'Islam non porrà Israele nel nulla, così come ha posto nel nulla altri che furono prima di lui». Il Novecento è stato un continuo ridisegnare di confini e conseguente movimento di popoli. Nel 1922, per risolvere la guerra tra Grecia e Turchia, 1.800.000 persone traslocarono da un paese all'altro. Dopo la seconda guerra mondiale, 3 milioni di tedeschi fuggirono da est a ovest. E così via. Tutti hanno trovato una collocazione senza trasformarsi in focolai di terrorismo e pesare sulla comunità internazionale. Solo i palestinesi hanno combinato il crudele e umiliante pastrocchio. Pure Israele, dopo la guerra del 1948, ha dovuto fare i conti con gli esodi. Se la videro, infatti, brutta gli ebrei che vivevano da secoli nei Paesi islamici. Tra il 1949 e il 1954, in 800.000 lasciarono le loro case e trovarono rifugio in Israele. Lo stato ebraico si è nutrito ed è fiorito con questi innesti. Fuori dai suoi confini, invece, per l'intransigenza dei leader, crescono i ragazzi che commuovono Bruno Tinti, armeggiando con gli aquiloni esplosivi che quei cattivoni di israeliani, come scrive nell'articolo, «tirano giù in men che non si dica». Concludo con il paradosso che i soli palestinesi che vivono del proprio e in dignità sono oggi cittadini di Israele. Discendono dai 170.000 arabi che nel 1949 non fuggirono. Oggi sono 1.800.000, il 20 per cento del Paese. Hanno 17 deputati alla Knesset (su 120) e giudici in tutte le corti, compresa la Suprema, cattedre universitarie. È vero che si prediligono gli arabi cristiani ai musulmani e che non mancano diffidenze. Ma dov'è la soperchieria?
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)