2018-12-03
Pakistan, l’esercito delle Asia Bibi braccate con la scusa della blasfemia
Assolta la donna cristiana, spunteranno altri mille casi come il suo. Così nel Paese islamico la «legge nera» può distruggere in ogni momento la vita di qualunque «infedele». Senza bisogno di sentenze né di prove.Ora che l'opinione pubblica occidentale ha «scoperto» il dramma di Asia Bibi, appare incredibile che una donna colpita da accuse assurde, condannata all'impiccagione in due gradi di giudizio e riconosciuta innocente dopo quasi dieci anni di galera, ora debba cercare di lasciare il Pakistan per evitare di finire ammazzata per strada da qualche fanatico islamista. Eppure le storie come la sua, peggiori della sua, sono tantissime. Per la stessa incriminazione ingiustamente addossata a lei, «blasfemia», sono stati comminati ergastoli, multe rovinose, pene capitali. Nessuna esecuzione, vero, ma non c'è bisogno di giustiziare nessuno quando nemmeno un'assoluzione della Corte suprema basta a placare la sete di sangue «infedele» degli estremisti.In Pakistan chi viene accusato di avere offeso il Corano o Maometto deve aspettarsi il peggio. Per sé, per i propri cari e per i vicini. Linciaggi, omicidi, interi villaggi distrutti. È così che funziona, a causa di quei due maledetti articoli inseriti nel codice penale nel 1986 dal governo di Muhammad Zia ul Haq. «La pena di morte per la blasfemia è stata aggiunta da un dittatore», dice alla Verità Cecil Shane Chaudhry, direttore della commissione Giustizia e pace della Conferenza episcopale pakistana, che si occupa del tema dal 1987. «Negli ultimi trent'anni, però, oltre alla legge si è radicalizzata la mentalità della gente, così quelle sono ormai percepite come norme divine, e nessuno può toccarle. Nell'estremismo non c'è ragione, il giudizio è l'emozione». Comanda la rabbia, il contagio della folla, «mentre uno Stato debole lascia che la gente si faccia giustizia da sola, così il fenomeno non si ferma più».Chi ci ha provato, a fermarlo, l'ha pagata cara. Come il ministro delle Minoranze Shahbaz Bhatti, cristiano, e il governatore del Punjab Salman Taseer, musulmano, entrambi assassinati nel 2011 per aver messo in discussione le leggi sulla blasfemia. Del resto, nonostante le condanne, finora quelle leggi non hanno giustiziato nessuno. Sono le orde inferocite a uccidere, saccheggiare, costringere in cella la gente per anni perché «i tribunali si rifiutano di fissare le udienze. Hanno paura che si presentino i gruppi estremisti a fare pressioni sui giudici», dice Chaudhry. «Nelle corti inferiori, è la norma. Per questo i processi sono così lunghi. E in primo grado finiscono quasi sempre in condanne durissime, anche senza prove». Nei gradi successivi gli imputati trovano maggior giustizia, ma dopo essersi fatti anni di galera. E ammesso che in carcere non vengano freddati da una guardia fanatizzata, come accaduto nel 2014 a Rawalpindi al pastore cristiano Ghazala Khan, che si trovava lì dal 2012 perché accusato di avere inviato sms «blasfemi» a un leader islamico da un cellulare che non era neanche suo. Tuttora in cella (dal 2013) è il cristiano Sawan Masih, condannato a morte nel 2014 perché un amico musulmano lo accusava di avere chiamato Maometto «falso profeta» durante una lite tra i due. Aizzati dagli altoparlanti della moschea, 3.000 estremisti attaccarono il suo quartiere, Joseph Colony, Lahore, dando alle fiamme 178 case e due chiese. Numero di incriminati: uno, Sawan.D'altra parte le mura di una prigione avrebbero potuto evitare tragedie come quella (2014) di Shahzad Masih e Shama Bibi, marito e moglie cristiani di 26 e 24 anni di un sobborgo di Lahore, poverissimi come quasi tutti i cristiani pakistani, 4 figli, lei incinta, accusati di aver bruciato pagine del Corano, sequestrati e torturati per due giorni, pestati a sangue e infine gettati vivi nella fornace della fabbrica di mattoni in cui lavoravano. Dei 400 estremisti islamici che si accanirono su di loro, nessuno è stato riconosciuto colpevole.Per essere colpevoli di «blasfemia», invece, basta maltrattare inavvertitamente una mezza paginetta «sacra» scritta in arabo, che la maggior parte dei cristiani pakistani nemmeno capisce, non sapendo leggere né scrivere. Rimsha Masih nel 2012 era non solo analfabeta, ma pure minorenne e ritardata, e però non le furono risparmiati l'accusa di blasfemia, il carcere, l'assalto della folla al sobborgo di Islamabad dove viveva (300 famiglie cristiane cacciate). Dopo l'assoluzione, nel 2013, riparò coi genitri in Canada. Nel frattempo l'imam che l'aveva denunciata per aver distrutto un testo islamico fu incriminato a sua volta per blasfemia: secondo il suo vice, le pagine esibite come prove contro Rimsha le aveva bruciate lui.Sono 1.535 le «vittime della blasfemia» che la Commissione giustizia e pace ha potuto accertare dal 1987 a oggi. E sono 69 gli omicidi extragiudiziali. Le quote di cristiani sono rispettivamente 220 e 23. Visto che il 96% dei pakistani è musulmano, non ci vuole un matematico per notare la sproporzione. Dice Chaudhry: «La quasi totalità dei casi di blasfemia nasce da rancori personali o liti. Usano le leggi e l'estremismo della gente per regolare i conti, liberarsi dei vicini, prendersi gli spazi delle minoranze». Ma neanche i musulmani si salvano. Chaudhry ricorda il caso di Mashal Khan, studente universitario a Mardan, finito a botte l'anno scorso nel cortile dell'ateneo perché girava voce che avesse pubblicato post «eretici» su Facebook: «Questo è il livello di intolleranza religiosa raggiunto dal Paese. Perfino i giovani meglio educati arrivano a linciare senza pietà un compagno di studi, per di più islamico».
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