Paolo Capone: «L’unica soluzione ai casi Whirlpool è un taglio secco al cuneo fiscale»
Un libro intitolato Populeconomy, in polemica con «le élites finanziarie», e prefato da Matteo Salvini, non può non accendere qualche lampadina, in questi giorni di crisi aziendali causate o incancrenite dalla globalizzazione, oltre che di scontri tra l'Italia sovranista e l'Europa dell'austerity. L'autore è Francesco Paolo Capone, segretario generale dell'Ugl, un sindacato capace di cantare fuori dal coro.
Ci sono più di 240.000 lavoratori «appesi» ai 158 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico. Perché le imprese soffrono in Italia?
«Da una parte, un decennio abbondante di crisi senza precedenti ci ha portati vicini al baratro, tra contrazione dei consumi e calo del sistema produttivo. Dall'altra, i casi Ilva, Whirlpool, Novi e via dicendo non si possono affrontare come nella seconda metà del secolo scorso: allora c'erano ancora prospettive di sviluppo a fare da “collante sociale". Si poteva sperare in un futuro migliore del passato. Oggi regna l'incertezza, nel mondo produttivo globalizzato».
Ma la globalizzazione ci ha dato apertura dei mercati, libera circolazione di capitali e persone, prezzi più bassi...
«Sì ma la globalizzazione si è “dimenticata" di fare la cosa più importante per il mondo del lavoro: esportare i diritti. Finché sarà possibile abbattere i costi trasferendo le produzioni in Cina dove i lavoratori sono semischiavi privi di tutele, beh, di tavoli di crisi ne avremo ancora molti».
Lei scrive che la miglior risposta al crollo della domanda di beni e servizi è la «valorizzazione del lavoro» (leggi: aumento dei salari). Come si concilia questo con una globalizzazione «irreversibile"?
«Se siamo ancora il secondo Paese manifatturiero d'Europa, è proprio grazie al valore del lavoro italiano. Sono stato un mese fa negli stabilimenti di quella che era la Ansaldo Breda, oggi Hitachi. Hitachi ha basi di produzione in Italia, Giappone e Inghilterra. Ebbene, tutto il management dell'area Europa per il reparto ingegneristico è italiano. Non solo: sa che una grossa commessa di treni è stata spostata dal sito inglese in Italia, perché le nostre maestranze producono meglio e più velocemente? ».
Ci si può accontentare di operai un pelo meno valorosi, se costano molto meno.
«Il problema non è il salario, ma la tassazione del lavoro. A parità di condizioni, l'operaio tedesco guadagna più dell'operaio italiano, eppure all'impresa tedesca costa meno».
È un tema centrale del libro. Ma tutti i governi promettono tagli al cuneo fiscale, poi non lo fanno, e si sa il perché: chi la sentirebbe l'Europa?
«Ma l'Europa continuerà sempre a minacciarci. Lo sta facendo ancora adesso, nonostante il segnale di malessere espresso dagli elettori. Il cuneo fiscale va tagliato non per le imprese, come accaduto in occasione del Jobs act, perché se la domanda non aumenta, anche se l'operaio costa 8mila euro in meno, l'azienda non lo assume. Devono crescere i consumi. Si tagli il cuneo per i lavoratori: chi prende 1.500 euro di stipendio si ritroverebbe in tasca 300-500 euro al mese in più, che finirebbero dritti in consumi. So che si tratta di contributi, Irpef, eccetera: dico per dare le dimensioni».
Quanto dobbiamo essere disposti a tirare la corda con l'Ue per uno shock fiscale?
«Senta, il nostro ufficio studi ha fatto un calcolo: uno shock fiscale inteso come una flat tax al 15% sui redditi fino a 50.000 euro produrrebbe immediatamente un aumento dei consumi dell'1,2-1,3% e 0,4-0,5 punti di Pil, oltre a 250.000 nuovi posti di lavoro».
C'è un passaggio nel libro che sembra una critica al reddito di cittadinanza. Dice: i lavoratori devono godere del lavoro, non dell'assistenza».
«Non sembra una critica: lo è. Comunque il reddito di cittadinanza ha dato qualche possibilità in più a 5 milioni di poveri. Una misura auspicabile».
Tanti elettori della Lega protestano: se proprio dobbiamo scontrarci con l'Europa, facciamolo per tagliare le tasse invece che per il reddito di cittadinanza.
«Sono d'accordo con gli elettori della Lega (ride, ndr), però anche loro devono capire che è difficile governare coi cinquestelle».
Lei nel libro invoca «un'Europa dei popoli», cioè un'Europa politica. Però in Europa la politica fa saltare gli accordi tra Fca e Renault.
«L'alleanza Fca-Renault poteva essere interessante, ma ci sono in ballo anche gli interessi dei territori. Macron ha fatto lo stesso con Fincantieri-Stx. Il problema è che lui lo fa e noi no. Dovrebbe essere l'Europa ad assumersi la responsabilità di benedire o far saltare l'uno o l'altro accordo, ma ci vogliono linee strategiche comuni che non ci sono. E non è un caso».
Ora che l'opinione pubblica occidentale ha «scoperto» il dramma di Asia Bibi, appare incredibile che una donna colpita da accuse assurde, condannata all'impiccagione in due gradi di giudizio e riconosciuta innocente dopo quasi dieci anni di galera, ora debba cercare di lasciare il Pakistan per evitare di finire ammazzata per strada da qualche fanatico islamista. Eppure le storie come la sua, peggiori della sua, sono tantissime. Per la stessa incriminazione ingiustamente addossata a lei, «blasfemia», sono stati comminati ergastoli, multe rovinose, pene capitali. Nessuna esecuzione, vero, ma non c'è bisogno di giustiziare nessuno quando nemmeno un'assoluzione della Corte suprema basta a placare la sete di sangue «infedele» degli estremisti.
In Pakistan chi viene accusato di avere offeso il Corano o Maometto deve aspettarsi il peggio. Per sé, per i propri cari e per i vicini. Linciaggi, omicidi, interi villaggi distrutti. È così che funziona, a causa di quei due maledetti articoli inseriti nel codice penale nel 1986 dal governo di Muhammad Zia ul Haq. «La pena di morte per la blasfemia è stata aggiunta da un dittatore», dice alla Verità Cecil Shane Chaudhry, direttore della commissione Giustizia e pace della Conferenza episcopale pakistana, che si occupa del tema dal 1987. «Negli ultimi trent'anni, però, oltre alla legge si è radicalizzata la mentalità della gente, così quelle sono ormai percepite come norme divine, e nessuno può toccarle. Nell'estremismo non c'è ragione, il giudizio è l'emozione». Comanda la rabbia, il contagio della folla, «mentre uno Stato debole lascia che la gente si faccia giustizia da sola, così il fenomeno non si ferma più».
Chi ci ha provato, a fermarlo, l'ha pagata cara. Come il ministro delle Minoranze Shahbaz Bhatti, cristiano, e il governatore del Punjab Salman Taseer, musulmano, entrambi assassinati nel 2011 per aver messo in discussione le leggi sulla blasfemia. Del resto, nonostante le condanne, finora quelle leggi non hanno giustiziato nessuno. Sono le orde inferocite a uccidere, saccheggiare, costringere in cella la gente per anni perché «i tribunali si rifiutano di fissare le udienze. Hanno paura che si presentino i gruppi estremisti a fare pressioni sui giudici», dice Chaudhry. «Nelle corti inferiori, è la norma. Per questo i processi sono così lunghi. E in primo grado finiscono quasi sempre in condanne durissime, anche senza prove». Nei gradi successivi gli imputati trovano maggior giustizia, ma dopo essersi fatti anni di galera. E ammesso che in carcere non vengano freddati da una guardia fanatizzata, come accaduto nel 2014 a Rawalpindi al pastore cristiano Ghazala Khan, che si trovava lì dal 2012 perché accusato di avere inviato sms «blasfemi» a un leader islamico da un cellulare che non era neanche suo. Tuttora in cella (dal 2013) è il cristiano Sawan Masih, condannato a morte nel 2014 perché un amico musulmano lo accusava di avere chiamato Maometto «falso profeta» durante una lite tra i due. Aizzati dagli altoparlanti della moschea, 3.000 estremisti attaccarono il suo quartiere, Joseph Colony, Lahore, dando alle fiamme 178 case e due chiese. Numero di incriminati: uno, Sawan.
D'altra parte le mura di una prigione avrebbero potuto evitare tragedie come quella (2014) di Shahzad Masih e Shama Bibi, marito e moglie cristiani di 26 e 24 anni di un sobborgo di Lahore, poverissimi come quasi tutti i cristiani pakistani, 4 figli, lei incinta, accusati di aver bruciato pagine del Corano, sequestrati e torturati per due giorni, pestati a sangue e infine gettati vivi nella fornace della fabbrica di mattoni in cui lavoravano. Dei 400 estremisti islamici che si accanirono su di loro, nessuno è stato riconosciuto colpevole.
Per essere colpevoli di «blasfemia», invece, basta maltrattare inavvertitamente una mezza paginetta «sacra» scritta in arabo, che la maggior parte dei cristiani pakistani nemmeno capisce, non sapendo leggere né scrivere. Rimsha Masih nel 2012 era non solo analfabeta, ma pure minorenne e ritardata, e però non le furono risparmiati l'accusa di blasfemia, il carcere, l'assalto della folla al sobborgo di Islamabad dove viveva (300 famiglie cristiane cacciate). Dopo l'assoluzione, nel 2013, riparò coi genitri in Canada. Nel frattempo l'imam che l'aveva denunciata per aver distrutto un testo islamico fu incriminato a sua volta per blasfemia: secondo il suo vice, le pagine esibite come prove contro Rimsha le aveva bruciate lui.
Sono 1.535 le «vittime della blasfemia» che la Commissione giustizia e pace ha potuto accertare dal 1987 a oggi. E sono 69 gli omicidi extragiudiziali. Le quote di cristiani sono rispettivamente 220 e 23. Visto che il 96% dei pakistani è musulmano, non ci vuole un matematico per notare la sproporzione. Dice Chaudhry: «La quasi totalità dei casi di blasfemia nasce da rancori personali o liti. Usano le leggi e l'estremismo della gente per regolare i conti, liberarsi dei vicini, prendersi gli spazi delle minoranze». Ma neanche i musulmani si salvano. Chaudhry ricorda il caso di Mashal Khan, studente universitario a Mardan, finito a botte l'anno scorso nel cortile dell'ateneo perché girava voce che avesse pubblicato post «eretici» su Facebook: «Questo è il livello di intolleranza religiosa raggiunto dal Paese. Perfino i giovani meglio educati arrivano a linciare senza pietà un compagno di studi, per di più islamico».
Nonostante l'assoluzione dall'accusa di «blasfemia», che l'aveva costretta a rimanere in carcere (da innocente) per quasi dieci anni, la cristiana Asia Bibi non potrà lasciare il Pakistan. Lo ha deciso il governo di Islamabad per mettere fine alle proteste degli islamisti che agitano il Paese dal 31 ottobre, il giorno in cui la Corte suprema, rendendo pubblica una sentenza clamorosa e molto sofferta, ha annullato la condanna a morte per la donna, confermata da tutti i precedenti gradi di giudizio.
Saiful Malook, 62 anni, avvocato musulmano di Asia Bibi, come ha raccontato il mensile Tempi, ha lasciato il Paese alla volta dell'Europa e ieri è atterrato a Fiumicino. È salito sull'aereo con i vestiti che aveva addosso, perché passare da casa a fare le valigie sarebbe stato troppo pericoloso. La sua prossima tappa sarà Amsterdam, dove l'8 novembre terrà una conferenza pubblica sul caso. «Nella situazione attuale», ha dichiarato all'agenzia Afp, «non è possibile per me vivere in Pakistan. È necessario che io rimanga in vita perché devo ancora combattere la battaglia legale per Asia Bibi». La reazione degli islamisti è «spiacevole, ma non inattesa» per il legale. «Quello che provoca dolore è la risposta del governo. Non è stato capace nemmeno di fare applicare un verdetto della Corte suprema». Non solo: Islamabad non ha assegnato a Malook alcuna scorta, nonostante le minacce proclamate pubblicamente dagli estremisti.
Da mercoledì scorso, il partito musulmano estremista Tehreek e Labaik anima le proteste contro la sentenza che si sono accese in tutto il Pakistan. Il leader del partito, Muhammad Afzal Qadri, è arrivato a dire che «i giudici che hanno scagionato Asia Bibi meritano la morte». Ma venerdì ha annunciato la fine delle agitazioni di massa perché è stato raggiunto un accordo con il governo. È sempre l'Afp a fornire i dettagli della trattativa: in sostanza Islamabad non si opporrà all'appello contro la sentenza della Corte suprema che ha salvato la vita ad Asia Bibi. La donna inoltre non potrà lasciare il Paese fino all'avvenuta revisione del processo. E così, nonostante la liberazione dopo 3.420 giorni di ingiusta carcerazione per un'accusa assurda, la vita di Asia Bibi, ha detto l'avvocato Malook all'Afp, «resterà più o meno la stessa». La cristiana, infatti, per evitare di farsi uccidere dai fondamentalisti, sarà costretta a vivere «in una prigione di sicurezza o isolata in un rifugio segreto».
l'inizio del calvario
Oggi che la libertà di questa donna è più vicina, anche se i pericoli non sono scomparsi, possiamo ripercorrere il suo infinito calvario. Era il 14 giugno 2009 quando la donna cattolica bevve un bicchiere d'acqua per ristorarsi dal lavoro nei campi e fu accusata da due donne musulmane di avere infettato la fonte, in quanto infedele. Ai tentativi delle colleghe di convertirla all'islam, lei rispose: «Il mio Gesù è morto sulla croce per redimere i peccati di tutta l'umanità, Maometto cosa ha fatto per voi?». Asia Bibi venne insultata e picchiata da una folla di musulmani chiamati a raccolta dai muezzin delle moschee. Dopo cinque giorni, il 19 giugno 2009, il mullah musulmano Qari Muhammad Sallam, che non aveva assistito all'alterco, formalizzò l'accusa di blasfemia davanti alla polizia e la madre cattolica fu arrestata e portata via dalla sua casa del villaggio di Ittar Wali (Punjab). Condannata a morte in primo grado in base all'articolo 295 C del codice penale l'11 novembre 2010, Asia Bibi è rimasta in isolamento da allora. La donna ricorda così la prima udienza: «Piansi sola, con la testa tra le mani. Non posso più sopportare la vita di persone piene di odio, che applaudono per l'uccisione di una povera bracciante. Ora non li vedo più, ma li sento ancora, la folla che tributa il giudice con una standing ovation, gridando: “Uccidetela, uccidetela! Allah Akbar. Vendetta per il santo profeta. Allah è grande!"».
I giudici pakistani hanno usato il tempo come arma crudele contro Asia Bibi: il processo d'appello è stato rinviato senza motivo cinque volte in quattro anni. Il 16 ottobre 2014 la corte d'appello di Lahore ha confermato la condanna a morte. Nonostante le prove siano sempre state nulle, i giudici in primo e secondo grado hanno avallato la condanna a morte sia per inadeguatezza di alcuni avvocati della donna sia per timore di essere uccisi dagli estremisti islamici. Sardar Mushtaq Gill, attivista cristiano per i diritti umani costretto a fuggire dal Pakistan pochi anni fa, raccontò a Tempi: «Durante il primo grado, il suo avvocato difensore è stato accolto in tribunale dal cancelliere, che gli ha puntato direttamente una pistola alla testa. È questo che intendo quando parlo di pressioni da parte degli estremisti islamici».
martirio consapevole
Negli anni in cui Asia Bibi viveva in isolamento, in una cella senza finestre, costretta a farsi da mangiare da sola per non essere avvelenata, tutte le più importanti cariche dello Stato che si sono azzardate a difenderla sono morte. Il 4 gennaio 2011 è stato assassinato il governatore musulmano del Punjab, Salman Taseer, che aveva definito quella sulla blasfemia una «legge nera». Il 2 marzo 2011 è stato invece crivellato di colpi il ministro cattolico per le Minoranze Shahbaz Bhatti, che si era detto disposto a morire pur di ottenere il suo rilascio. Ora che Asia Bibi è libera, almeno a parole, non si può dimenticare che il martirio è stato consapevolmente scelto. Scrisse la donna in una lettera datata dicembre 2012: «Un giudice mi ha offerto la revoca della sentenza se mi fossi convertita all'islam. Io l'ho ringraziato di cuore per la sua proposta, ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana».





