«In piazza con CitizenGO Italia per essere vicini ad Asia Bibi, assolta dall'accusa di blasfemia ma non ancora in salvo, e per testimoniare in favore dei diritti fondamentali, di cui il primo è quello alla vita. Saremo presenti anche per condannare e urlare contro la violenza e la crudeltà che i cristiani subiscono ancora nel mondo, ma che vengono ignorate a livello mediatico»: lo afferma in una nota Toni Brandi, presidente di Pro Vita che ha aderito al sit-in di solidarietà per Asia Bibi in programma domani, martedì 13 novembre alle ore 14 in Piazza del Campidoglio insieme ai gruppi consiliari e diversi parlamentari di Fratelli d'Italia e della Lega che hanno annunciato la loro presenza.«Raggi esponga la foto della donna sulla facciata del Comune anche se in ritardo clamoroso» continua Toni Brandi che poi attacca la prima cittadina di Roma ricordando a tutti che «noi lotteremo sempre per il diritto di dire la verità: con il male non si può venire a compromesso, né è giusto accettarlo. Penso, per esempio, alla censura che abbiamo subíto per mano del sindaco: Raggi non ha pensato di difendere i veri diritti, come per esempio quelli dei bambini, ma ha rimosso e censurato i nostri manifesti contro l'utero in affitto. Siamo stati puniti solo per aver combattuto la pratica della maternità surrogata che in Italia è vietata dalla legge 40. È il segno di una deriva che non va sottovalutata e che impegna tutti nella lotta: il male può e deve solo essere combattuto e vinto». Anche Pro Vita indosserà le magliette nere con la lettera "N" in arabo che CitizenGO Italia distribuirà al sit-in, ossia quel simbolo che i miliziani dell'Isis erano soliti segnare sulle case dei cristiani per indicare gli infedeli, destinati al martirio.
Servono un visto, una scorta e un aereo pronto a partire. Ma soprattutto serve il via libera del governo pakistano, che dia ordine alla polizia di prelevare la donna dal carcere in cui si trova e portarla al sicuro nella prima ambasciata disponibile. E altrettanto bisogna fare con la sua famiglia. È un lavoro diplomatico delicatissimo quello necessario per salvare Asia Bibi. A muoversi all'interno dei confini del Pakistan può essere solo la polizia locale, su ordini precisi del Paese sovrano, che però ha appena preso accordi con il principale partito islamista per impedire che la donna lasci il Paese nonostante l'assoluzione.
«Ci stiamo lavorando con discrezione», ha dichiarato ieri il ministro dell'Interno, Matteo Salvini. E l'unica carta da giocare è la voglia del Pakistan di liberarsi di un caso giudiziario che sta diventando ingombrante, per il clamore mediatico che ha suscitato (non in Italia) e di non farlo volgere in tragedia.
Il tempo, però, stringe. Asia Bibi era stata condannata a morte, nel 2010, per «avere offeso il profeta Maometto», in base ai dettami dell'integralismo musulmano. Dopo nove lunghissimi anni di carcere, mercoledì scorso è stata assolta, ma contro questa decisione dei giudici, nel Paese, è scoppiata la rivolta. Decine di migliaia di integralisti islamici sono scesi in piazza per chiederne l'impiccagione. A organizzare le manifestazioni, durate tre giorni, sono state le associazioni religiose dell'estremismo islamico, tanto che per evitare il peggio il governo di Imran Khan ha deciso di scendere a patti con il partito islamista Tlp. Per far cessare i cortei le violenze e i danneggiamenti, per cui oltre 1.000 persone sono state arrestate, il governo ha promesso di trattenere Asia Bibi in Pakistan fino al riesame della sentenza, da parte della Suprema corte.
Il ricorso è già stato presentato, ma questo non ha calmato gli animi: Saif ul-Malook, avvocato della donna, ha dovuto lasciare il Paese per aver ricevuto minacce di morte e, ieri, dal luogo segreto in cui si è rifugiato insieme ai figli, è arrivato l'appello disperato del marito di Asia.
«Chiedo al governo italiano e faccio un appello: aiutateci a fare uscire dal Pakistan. La nostra vita è in pericolo, abbiamo difficoltà anche a trovare da mangiare», ha spiegato con un videomessaggio Ashiq Masih, già ospite, mesi fa, a Roma per una manifestazione contro le persecuzioni religiose.
«Ci stiamo lavorando, con altri Paesi occidentali, con discrezione per evitare problemi in loco alla famiglia che vuole avere un futuro. Posso assicurare che io, da ministro ma anche da leghista, ci tengo che donne e bambini a rischio della vita, possano avere un futuro» ha detto il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, intervenendo, ieri, durante una diretta radiofonica.
E la discrezione, a quanto pare, è davvero necessaria. La trama diplomatica, infatti, se non ben congegnata potrebbe far deflagrare la protesta. Nella pratica bisogna convincere il governo pakistano a dare ordine alla polizia di scortare la donna fuori dal carcere fino ad una ambasciata o di metterla direttamente su un aereo diretto in Europa. Nel frattempo per lei e per i parenti devono essere pronti visti e permessi di asilo politico. L'azione deve essere coordinata: i fanatici musulmani non devono avere il tempo di intercettare i movimenti di Asia, né di sapere dove verrà accolta. E a questo si aggiunge il problema della famiglia, il marito e cinque minori, assediati e nascosti da giorni. Potrebbero rischiare di finire massacrati se venissero scoperti da qualche gruppo di fanatici.
Oltre all'Italia anche altri si stanno muovendo in Europa: il Parlamento europeo ha chiesto alle autorità del Pakistan il rispetto degli impegni internazionali in materia di diritti umani, dalla Svizzera arriva la proposta di conferire alla donna la cittadinanza onoraria cantonale, mentre in Francia si moltiplicano gli appelli a Emmanuel Macron per salvare la giovane cristiana. La sua storia riporta l'attenzione sulle persecuzioni subite dai cristiani in terra musulmana, dove tra le altre cose l'accusa di blasfemia è tra le più gravi. Le pene per chi insulta Allah o Maometto includono l'ergastolo e la condanna a morte e facilmente le accuse sono usate in modo strumentale da persone senza scrupoli per colpire qualcuno. Nella grande maggioranza dei casi, infatti, dopo anni di carcere i cristiani finiti a processo vengono assolti, ma, poi, una volta fuori, rischiano di essere linciati dalla folla. «Laddove ci sono cristiani perseguitati, l'Italia deve dare il suo contributo per metterli in sicurezza», ha scritto ieri, il ministro per la Famiglia, Lorenzo Fontana, in una lettera indirizzata al collega Enzo Moavero Milanesi.
Nonostante l'assoluzione dall'accusa di «blasfemia», che l'aveva costretta a rimanere in carcere (da innocente) per quasi dieci anni, la cristiana Asia Bibi non potrà lasciare il Pakistan. Lo ha deciso il governo di Islamabad per mettere fine alle proteste degli islamisti che agitano il Paese dal 31 ottobre, il giorno in cui la Corte suprema, rendendo pubblica una sentenza clamorosa e molto sofferta, ha annullato la condanna a morte per la donna, confermata da tutti i precedenti gradi di giudizio.
Saiful Malook, 62 anni, avvocato musulmano di Asia Bibi, come ha raccontato il mensile Tempi, ha lasciato il Paese alla volta dell'Europa e ieri è atterrato a Fiumicino. È salito sull'aereo con i vestiti che aveva addosso, perché passare da casa a fare le valigie sarebbe stato troppo pericoloso. La sua prossima tappa sarà Amsterdam, dove l'8 novembre terrà una conferenza pubblica sul caso. «Nella situazione attuale», ha dichiarato all'agenzia Afp, «non è possibile per me vivere in Pakistan. È necessario che io rimanga in vita perché devo ancora combattere la battaglia legale per Asia Bibi». La reazione degli islamisti è «spiacevole, ma non inattesa» per il legale. «Quello che provoca dolore è la risposta del governo. Non è stato capace nemmeno di fare applicare un verdetto della Corte suprema». Non solo: Islamabad non ha assegnato a Malook alcuna scorta, nonostante le minacce proclamate pubblicamente dagli estremisti.
Da mercoledì scorso, il partito musulmano estremista Tehreek e Labaik anima le proteste contro la sentenza che si sono accese in tutto il Pakistan. Il leader del partito, Muhammad Afzal Qadri, è arrivato a dire che «i giudici che hanno scagionato Asia Bibi meritano la morte». Ma venerdì ha annunciato la fine delle agitazioni di massa perché è stato raggiunto un accordo con il governo. È sempre l'Afp a fornire i dettagli della trattativa: in sostanza Islamabad non si opporrà all'appello contro la sentenza della Corte suprema che ha salvato la vita ad Asia Bibi. La donna inoltre non potrà lasciare il Paese fino all'avvenuta revisione del processo. E così, nonostante la liberazione dopo 3.420 giorni di ingiusta carcerazione per un'accusa assurda, la vita di Asia Bibi, ha detto l'avvocato Malook all'Afp, «resterà più o meno la stessa». La cristiana, infatti, per evitare di farsi uccidere dai fondamentalisti, sarà costretta a vivere «in una prigione di sicurezza o isolata in un rifugio segreto».
l'inizio del calvario
Oggi che la libertà di questa donna è più vicina, anche se i pericoli non sono scomparsi, possiamo ripercorrere il suo infinito calvario. Era il 14 giugno 2009 quando la donna cattolica bevve un bicchiere d'acqua per ristorarsi dal lavoro nei campi e fu accusata da due donne musulmane di avere infettato la fonte, in quanto infedele. Ai tentativi delle colleghe di convertirla all'islam, lei rispose: «Il mio Gesù è morto sulla croce per redimere i peccati di tutta l'umanità, Maometto cosa ha fatto per voi?». Asia Bibi venne insultata e picchiata da una folla di musulmani chiamati a raccolta dai muezzin delle moschee. Dopo cinque giorni, il 19 giugno 2009, il mullah musulmano Qari Muhammad Sallam, che non aveva assistito all'alterco, formalizzò l'accusa di blasfemia davanti alla polizia e la madre cattolica fu arrestata e portata via dalla sua casa del villaggio di Ittar Wali (Punjab). Condannata a morte in primo grado in base all'articolo 295 C del codice penale l'11 novembre 2010, Asia Bibi è rimasta in isolamento da allora. La donna ricorda così la prima udienza: «Piansi sola, con la testa tra le mani. Non posso più sopportare la vita di persone piene di odio, che applaudono per l'uccisione di una povera bracciante. Ora non li vedo più, ma li sento ancora, la folla che tributa il giudice con una standing ovation, gridando: “Uccidetela, uccidetela! Allah Akbar. Vendetta per il santo profeta. Allah è grande!"».
I giudici pakistani hanno usato il tempo come arma crudele contro Asia Bibi: il processo d'appello è stato rinviato senza motivo cinque volte in quattro anni. Il 16 ottobre 2014 la corte d'appello di Lahore ha confermato la condanna a morte. Nonostante le prove siano sempre state nulle, i giudici in primo e secondo grado hanno avallato la condanna a morte sia per inadeguatezza di alcuni avvocati della donna sia per timore di essere uccisi dagli estremisti islamici. Sardar Mushtaq Gill, attivista cristiano per i diritti umani costretto a fuggire dal Pakistan pochi anni fa, raccontò a Tempi: «Durante il primo grado, il suo avvocato difensore è stato accolto in tribunale dal cancelliere, che gli ha puntato direttamente una pistola alla testa. È questo che intendo quando parlo di pressioni da parte degli estremisti islamici».
martirio consapevole
Negli anni in cui Asia Bibi viveva in isolamento, in una cella senza finestre, costretta a farsi da mangiare da sola per non essere avvelenata, tutte le più importanti cariche dello Stato che si sono azzardate a difenderla sono morte. Il 4 gennaio 2011 è stato assassinato il governatore musulmano del Punjab, Salman Taseer, che aveva definito quella sulla blasfemia una «legge nera». Il 2 marzo 2011 è stato invece crivellato di colpi il ministro cattolico per le Minoranze Shahbaz Bhatti, che si era detto disposto a morire pur di ottenere il suo rilascio. Ora che Asia Bibi è libera, almeno a parole, non si può dimenticare che il martirio è stato consapevolmente scelto. Scrisse la donna in una lettera datata dicembre 2012: «Un giudice mi ha offerto la revoca della sentenza se mi fossi convertita all'islam. Io l'ho ringraziato di cuore per la sua proposta, ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana».





