2023-07-15
Paese ostaggio da 30 anni di ex giudici e avvocati
Ieri mattina in tv mi hanno chiamato a commentare un incredibile caso di ingiustizia. Un ladro che, ripreso da una telecamera di sicurezza, minaccia di denunciare la vittima per violazione della privacy. «Non ti pare un paradosso?» mi ha chiesto la conduttrice, Simona Branchetti.Più che un paradosso, ho risposto, mi pare il trionfo dell’impunità: il delinquente, invece di vergognarsi si fa beffa del derubato. Del resto, ho concluso, questo è il risultato di anni in cui invece di mettere in galera chi viola la legge si depenalizzano i reati. Ne è seguito un dibattito che vi risparmio, con una consigliera del Pd di Milano, tale Diana De Marchi, che pretendeva di spiegare che mettere sui social le immagini di un ladro sia un comportamento sbagliato, perché non ci si può far giustizia da soli, anche se in modo virtuale. Stendo un velo pietoso sulla tesi della signora, anche perché non è di lei e della sua bislacca opinione che voglio parlare. Se ho citato il siparietto tv è solamente perché il caso mi pareva un esempio lampante dei guasti fatti dalle presunte riforme della giustizia prodotte negli ultimi trent’anni. Sebbene da decenni si parli di cambiare le regole dei processi per avere sentenze più rapide, siamo andati di male in peggio. Non solo non si è avuto alcun miglioramento sul fronte della lentezza delle udienze, ma per ridurre l’intasamento nei tribunali si sono via via depenalizzati una serie di reati. Così, vuoi per prassi, vuoi grazie a nuove regole che prevedono la querela di parte per procedere giudizialmente, ladri, scippatori e spacciatori restano di fatto impuniti. Le forze dell’ordine sono ormai rassegnate, soprattutto dopo l’ultimo ritocco fatto al Codice penale da Marta Cartabia, e dunque a certa gente non mettono neppure le manette, sapendo che in capo a poche ore tornerà in circolazione. Ma mentre i delinquenti rimangono liberi di delinquere, in Parlamento ci si accapiglia su una nuova riforma della Giustizia, attorno a reati che interessano una minuscola minoranza degli italiani, ovvero l’abuso d’ufficio e il traffico d’influenze, comportamenti che certo non sono all’ordine del giorno fra le persone comuni, ma solo tra chi riveste incarichi pubblici. In altre parole, si litiga non per migliorare la qualità delle sentenze e la ragionevole durata di un processo, ma per usare un reato contro la parte avversa. E dire che, se c’è una materia in cui le Camere sono ferrate, questa è proprio il diritto. Infatti, basta scorrere l’elenco delle professioni dei 600 parlamentari che compongono le nostre assemblee legislative per rendersi conto che per più di un sesto, nella loro vita precedente facevano o gli avvocati o i magistrati. A Montecitorio i legali sono 72 su 400, mentre il numero dei magistrati si ferma a due. A Palazzo Madama, dei 200 senatori ben 43 sono avvocati e due i magistrati. Non è vero, come si diceva una volta, che il Parlamento è ostaggio dei professionisti della politica: semmai è nelle mani dei professionisti della Giustizia, i quali da anni dibattono come in un’aula di tribunale, ma senza mai arrivare a una sentenza definitiva. Infatti, le varie riforme sono un’opera incompiuta, che a ogni legislatura si aggiorna. Una volta è la Cartabia, che toglie la procedibilità d’ufficio di certi reati, nella speranza che scoraggiando i denuncianti si riducano anche i processi. Un’altra è l’abuso d’ufficio, che interessa sindaci e amministratori di entrambe le parti, ma anche se quasi nessuno è mai stato riconosciuto colpevole di aver abusato dei propri poteri, l’opposizione lo vuole mantenere nel Codice penale per poi brandirlo come un’arma nei confronti della maggioranza. Già. La verità è che più di ogni altro argomento, la Giustizia è usata come strumento di lotta politica. È dal 1992 che si parla di giustizia a orologeria, ma l’orologio si dev’essere rotto, visto che segna sempre la stessa ora, come se il tempo fosse passato invano. Prendete a esempio questi giorni. Ieri, sul Fatto Quotidiano è comparsa un’intervista a Roberto Scarpinato, già magistrato in servizio permanente contro la mafia e dopo le elezioni dello scorso anno senatore del Movimento 5 stelle in servizio permanente contro la maggioranza di centrodestra. All’ex procuratore generale presso la corte d’appello di Caltanisetta, non va giù nulla di quanto fa il governo, sia che si tratti di riforma della giustizia, sia che si parli di nomine. E analoghe critiche arrivano da un altro magistrato, anch’egli parlamentare grillino. L’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, una volta appesa la toga per raggiunti limiti di età, come il suo collega Scarpinato ha indossato i panni del politico. Sorprende che due alti magistrati appena lasciato il tribunale si siano subito accasati in Parlamento, ma bisogna riconoscere che è una tendenza di lungo corso, perché quattro anni fa Franco Roberti, che precedette de Raho alla guida della Procura contro le cosche, fece lo stesso e da pensionato si candidò con il Pd alle elezioni europee. Il fenomeno, a dire il vero, non è un’esclusiva del centrosinistra. Infatti, Carlo Nordio, attuale ministro della Giustizia e parlamentare eletto nelle fila di Fratelli d’Italia, prima di trasformarsi in politico è stato procuratore a Venezia per quarant’anni. E nelle fila della Lega si ritrova Simonetta Matone, con una lunga carriera alle spalle nelle aule dei tribunali. Insomma, le Camere rappresentano la seconda vita di tanti illustri magistrati. Tuttavia, nonostante la presenza in massa di avvocati e toghe, la giustizia fa sempre schifo. Al punto che viene il sospetto di un conflitto d’interessi che invece di migliorare le cose le peggiora. Forse, per risolvere il problema, invece di proseguire la Guerra dei trent’anni che dopo Berlusconi vede sul banco degli imputati La Russa e Santanchè (e forse non è finita), io prenderei il Codice penale che so, degli Stati Uniti, e lo adotterei in toto. Magari importando anche l’elezione diretta del pm. Altro che separazione delle carriere, autonomia della magistratura e via sproloquiando. Votiamo i pubblici ministeri come si vota un onorevole, magari giudicandoli dai risultati. Tanto, in politica ci sono già: tanto vale togliere il velo d’ipocrisia che ancora li considera super partes.