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2021-04-26
Tassi, ricomincia la spremuta. Ma ora i mutui convengono
Ai più inesperti potrà sembrare un paradosso, ma anche il denaro contante ha un valore che può salire o scendere, al pari di un'auto usata. Così, se il cash non è più un bene di valore, alle banche non conviene più che i risparmiatori tengano liquidità parcheggiata sul conto. Risultato? Per non perdere ricavi, le banche stanno alzando a dismisura i costi dei conti correnti. Ed è solo l'inizio.
Di fatto, la Bce ha abbassato i tassi interbancari a tal punto (con l'obiettivo di favorire la circolazione di denaro e dunque la crescita economica) che gli istituti pagano per depositare il denaro in eccesso presso la Bce. Quello che avviene, infatti, è che la liquidità dei clienti viene normalmente depositata a Francoforte a tassi positivi per cui gli istituti percepiscono ricavi. Di questi tempi, però, il tasso è negativo (-0,50%) e così le banche devono pagare per la liquidità dei loro clienti. Gli istituti, però, non hanno certo intenzione di sobbarcarsi certi costi e preferiscono riversarli sui risparmiatori.
La prima a rompere il ghiaccio è stata Fineco, annunciando a marzo la possibilità di chiudere il conto a tutti i correntisti con oltre 100.000 euro di liquidità non investita. Il gruppo Unicredit ha scelto una strada più morbida, ma ugualmente dolorosa. Invece di «accanirsi» solo sui clienti con molta liquidità investita, ha preferito alzare i canoni mensili a tutti perché «si è verificato un peggioramento delle condizioni economiche di gestione della liquidità di conto corrente, legato principalmente al persistente andamento negativo dei valore dell'Euribor 3 mesi, che ha raggiunto stabilmente valori negativi».
Il problema vero è che la situazione non pare affatto transitoria e che, con molta probabilità, diversi altri istituti si accoderanno alle scelte di Fineco e Unicredit. Anche perché, ironia della sorte, la pandemia del Covid-19 ha fatto salire i depositi degli italiani a quasi 1.700 miliardi. Del resto, con molti esercizi chiusi, spendere non è così facile e la liquidità lievita.
Ad accendere un faro sulla questione è la stessa Bankitalia, secondo cui nel 2020 il costo annuo per mantenere un conto è aumentato mediamente di 88,5 euro rispetto al 2019. L'incremento ha interessato principalmente le spese fisse (canone annuo, bonifici, prelievi allo sportello, assegni), mentre poco meno di un terzo è relativo a quelle variabili. Si tratta esattamente della conferma che le banche stanno facendo di tutto per disincentivare la giacenza di denaro alzando i costi fissi e non quelli variabili. Via Nazionale ha messo sotto la lente, ad esempio, i costi dei prelievi allo sportello o al Bancomat. La norma che, a partire da gennaio 2022, impedirà, il pagamento in contanti oltre la soglia dei mille euro, porterà a un aumento esponenziale del numero di transazioni, ancora una volta comportando maggiori esborsi per i risparmiatori. Inoltre, pagamenti più ridotti possono voler dire, per chi non ha dimestichezza con la moneta elettronica, prelievi più frequenti il che, a sua volta, significa più costi. E chi non usa i contanti? Se aumentano le commissioni su bonifici e assegni, la musica non cambia. C'è poi il tema dei bollettini. Si pensi al pagamento di Tari, bollo auto ed altre tasse: le commissioni allo sportello nel 2020 sono salite in media da 1,50 a 3,50 euro.
C'è poi un vero e proprio paradosso: lo Stato, per favorire il pagamento delle imposte e delle tasse, sta incoraggiando sempre di più l'utilizzo di carte elettroniche o, più in generale, a evitare il ricorso al contante. Peccato che per usare la moneta elettronica serva un conto corrente che lo alimenti, uno strumento che ogni giorno (e con l'economia italiana che crolla) è sempre più caro.
In parole povere la Bce, con la sua politica, ha introdotto a tutti gli effetti una «nuova tassa» che le banche hanno intenzione di scaricare sulle spalle dei risparmiatori. Una cosa è certa, mal comune, mezzo gaudio. Anche al di fuori dei confini italiani la solfa appare la medesima. Anzi, in alcuni casi, già da tempo alcuni istituti hanno iniziato a buttare sui risparmiatori il peso dei tassi interbancari negativi.
A Berlino alcune realtà regionali tedesche come la Berliner Volksbank oppure la Raiffeisenbank im Oberland da tempo stanno facendo pagare i tassi negativi ai risparmiatori.
Perché dunque la Bce ha imposto tassi così bassi? Il motivo è chiaro: con il costo del denaro così basso si favorisce l'economia: in particolar modo i prestiti alle imprese che, se solventi, possono così garantirsi nuova liquidità a prezzi di saldo. La questione vale anche per i privati che, a questi livelli, possono chiedere finanziamenti a costi contenuti, il tema è di particolare interesse per i mutui, prodotti che non sono mai stati così a buon mercato.
Il problema è che gli italiani si sentono sempre meno fiduciosi a investire i propri risparmi in banca dopo scandali che hanno raso al suolo le fatiche di molti italiani. Purtroppo, però, l'amara verità è che l'unico modo per non pagare costi troppo salati è quella di investire il proprio denaro. Anche perché, va detto, è sempre stata una buona norma quella di non tenere troppa liquidità sul conto. Ricordiamoci sempre che il Fondo interbancario di tutela dei depositi risarcisce i correntisti fino a un massimo di 100.000 euro in caso di crack bancario. Oltre quella soglia, un risparmiatore naviga comunque in acque molto turbolente. A questo si aggiunga che le difficoltà nel reperire nuove fonti di reddito ha spinto le banche a fare non poche pressioni commerciali sul personale per spingere i clienti a investire.
Da tempo i maggiori sindacati del comparto bancario come Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin si stanno battendo per evitare che i 300.000 dipendenti del settore subiscano pressioni commerciali fuori dal comune. Due sono i pericoli lamentati dalle sigle sindacali: il moltiplicarsi delle campagne prodotto e l'innalzamento dei budget individuali, oltre rischio di pratiche poco trasparenti nei confronti della clientela come l'offerta a distanza di prodotti non finanziari collegati a un finanziamento.
«Costi dei conti in aumento. E con un paradosso: i più solventi pagano di più»
I costi dei conti correnti sono destinati a schizzare verso l'alto. La liquidità non investita costa troppo per via dei tassi interbancari negativi imposti dalla Bce. Le associazioni di consumatori sul tema sono già sul piede di guerra perché, secondo loro, non è corretto che gli istituti bancari decidano di far pagare il problema ai risparmiatori. La Verità ne ha parlato con l'avvocato Antonella Nanna, responsabile della consulta giuridica di Federconsumatori.
Avvocato, cosa sta succedendo?
«Per via dei costi troppo elevati le banche si stanno avvalendo del diritto di recesso per le giacenze elevate. La prima è stata Fineco che, con una lettera, ha comunicato ai risparmiatori l'eventualità di chiudere il conto per chi ha più di 100.000 euro non investiti. Va detto, si tratta di un diritto di cui le banche si possono avvalere. Non c'è nulla di scorretto in questo. L'articolo 118 del Testo unico bancario prevede che la banca, dandone corretta comunicazione, abbia facoltà di recedere o modificare il contratto con il cliente quando crede. Dal canto suo, il cliente deve avere il tempo di fare la sua scelta e accettare le modifiche contrattuali o recedere senza costi aggiuntivi».
Cosa temete?
«Il timore che abbiamo noi di Federconsumatori è che le banche possano fare cartello e iniziare tutte di concerto a recedere o, più probabilmente, a modificare il contratto alzando sensibilmente i costi del conto corrente. Così facendo il risparmiatore non avrebbe scampo e si troverebbe obbligato a pagare per qualcosa che prima aveva gratuitamente. Noi questo lo abbiamo già segnalato all'Autorità garante della concorrenza e del mercato. Il problema è che le banche, forti della loro posizione, stanno cercando di spalmare questi aumenti sui correntisti. Per noi è assurdo. Il rischio di impresa non può cadere sulla clientela».
Che rischi ci sono per chi tiene troppi soldi in banca?
Questa non è una scelta a costo zero per i risparmiatori. In primis, il consumatore, tenendo liquidità non investita, paga l'inflazione che giorno dopo giorno erode il potere d'acquisto. Ma il problema principale è quello delle frodi informatiche: tenere i soldi sul conto oggi non è così sicuro. O quantomeno ci sono dei rischi. Ci sono persino istituti che fanno leva sulla frode per spiegarti che non è il caso di tenere liquidità sul conto. Oggi, quindi, prima le banche ti chiedono una radiografia completa per aprire un conto corrente e capire se non hai problemi. Poi ti disincentivano se sei troppo capiente. Cosa deve fare un consumatore?».
Cosa fare dunque per ovviare al problema?
«Se da un lato è vero che la banca può comunicare di modificare o chiudere il conto perché si tratta di un rapporto commerciale tra privati, dall'altro noi troviamo ingiusto che un correntista venga messo in difficoltà perché ha troppa liquidità. Non può essere un problema che si deve sobbarcare il consumatore finale. Per ora l'unica opzione è cambiare conto migrando verso un prodotto dai costi più contenuti. Ma quello che si deve combattere è il fatto di essere penalizzati perché troppo solventi. Non può essere un concetto sostenibile questo».
Le banche, dunque, dovrebbero contrattare con la Bce per ovviare al problema?
«Gli istituti dovrebbero fare la voce grossa o quantomeno farsi carico del costo. Parliamo sempre di situazioni in cui c'è la banca forte contro il piccolo risparmiatore. Poi, io seguo questo mondo da molti anni, c'è il timore che vengano proposti investimenti troppo rischiosi perché si è rotto il rapporto di fiducia tra banca e correntista. Quindi la gente non investe perché ha paura di veder andare in fumo i propri risparmi».
Investire, poi, non è gratis.
«Per nulla. Per una banca il servizio di gestione patrimoniale o di risparmio amministrato è ben più redditizio rispetto a tenere soldi sul conto. Quindi ancora una volta, spingendo il risparmiatore a investire, lo si spinge a spendere ancora di più nei servizi della banca. Senza pensare che oggi tutti cercano di favorire l'utilizzo di carte di credito, di debito o, più in generale, il ricorso alla moneta elettronica. In poche parole, si costringe il risparmiatore a spendere per via telematica obbligando di fatto ad avere un conto, lo stesso che la banca ti spinge ad avere con poca liquidità. È chiaro con queste premesse il risparmiatore si trovi come minimo disorientato. Temiamo, inoltre, che le banche possano arrivare a imporre un limite sulla liquidità non investita. Se così fosse il consumatore si potrebbe trovare obbligato ad avere più conti aumentando ancora di più i costi da sostenere».
Ma fare un mutuo oggi resta conveniente
Tra i vantaggi di avere tassi di interesse voluti dalla Bce così bassi c'è sicuramente quello di poter accedere a muti i cui costi sono oggi impensabili, se paragonati anche solo a qualche anno fa. Del resto, l'obiettivo di Francoforte era proprio questo: abbassare i livelli per far girare l'economia. A tutto vantaggio del mercato immobiliare italiano, anch'esso da tempo traballante a fronte di una crisi economica che ha colpito le transazioni soprattutto fuori dai grandi centri abitati come Roma e Milano.
«Nel corso del primo trimestre le banche non solo hanno continuato ad offrire condizioni favorevoli, ma hanno anche mantenuto una certa elasticità nei criteri di valutazione del merito creditizio dei richiedenti», dice Ivano Cresto, responsabile mutui di Facile.it. «Tutto questo ha contribuito a sostenere la domanda in un periodo comunque ancora molto influenzato dagli effetti della pandemia», spiega.
Ad ogni modo, sebbene le condizioni applicate dalle banche siano rimaste estremamente favorevoli, qualcosa sul fronte degli indici si è mosso e questo ha prodotto, in particolare, un lieve aumento dei tassi fissi.
Il rincaro è dovuto alle aspettative di inflazione: le previsioni di crescita dell'economia americana dovuta alle vaccinazioni di massa e, di riflesso, la possibile ripartenza dell'economia europea e dei prezzi al consumo, hanno determinato un aumento dell'Irs (l'indice che guida il tasso dei mutui fissi), con conseguente rincaro dei tassi offerti alla clientela.
I valori restano tuttora comunque molto convenienti. Secondo le simulazioni di Facile.it, per un finanziamento da 126.000 euro da restituire in 25 anni, ad aprile 2021 il Taeg medio (il tasso annuo effettivo globale) rilevato online è salito all'1,37%, vale a dire il 10,5% in più rispetto a febbraio 2021.
Ancora molto basso, invece, il tasso variabile: ad aprile 2021, sempre secondo la simulazione di Facile.it, il Taeg medio era pari all'1,03%. Torna quindi ad allargarsi la forbice tra tassi fissi e tassi variabili; secondo la simulazione di Facile.it, la differenza media è di circa 18 euro sulla singola rata iniziale, ma sebbene la distanza sia cresciuta, ad oggi non si è registrata un'inversione di tendenza e più di 9 aspiranti mutuatari su 10 optano ancora per il fisso.
Certo, l'aumento dei tassi di interesse ha avuto però un primo effetto; il calo delle richieste di surroga. Chi, in pratica, passa per il mutuo da una banca all'altra con l'obiettivo di spendere meno.
Secondo l'analisi di Facile.it e Mutui.it, nel primo trimestre 2021 il peso percentuale di questo tipo di finanziamento è diminuito, passando dal 37% dello scorso anno al 22%.
Per una lettura corretta del fenomeno, però, va considerato che a marzo 2020 il settore immobiliare e quello dei mutui hanno vissuto un vero e proprio stop, soprattutto per quanto riguarda la richiesta di nuovi finanziamenti; inoltre, un calo del peso delle surroghe è fisiologico se si considera che i tassi di interesse sono bassi da tempo e che, negli scorsi anni, tantissimi italiani hanno già approfittato una, se non più volte, di questa opportunità.
Addio alla surroga dunque? Niente affatto, almeno per ora; nonostante gli aumenti, i tassi odierni sono ancora nettamente inferiori rispetto agli indici rilevati pre-pandemia. Un esempio: surrogando oggi un finanziamento a tasso fisso da 126.000 euro in 25 anni sottoscritto con il tasso medio rilevato a gennaio 2020 si potrebbero risparmiare oltre 4.000 euro di interessi calcolati sull'intera durata del mutuo.
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La politica della Bce di tenere bassi i tassi ha spinto gli istituti a scaricare sulle spalle dei correntisti una «nuova tassa». La giacenza di denaro è penalizzata e chi ha più di 100.000 euro è spinto a investirli per non perderci.La responsabile giuridica di Federconsumatori, Antonella Nanna: «Sembra assurdo ma il problema sta diventando avere troppa liquidità. Chi ha maggiori disponibilità viene penalizzato».Sebbene di recente ci siano stati dei rincari, è ancora vantaggioso chiedere un finanziamento o una surroga.Lo speciale contiene tre articoli.Ai più inesperti potrà sembrare un paradosso, ma anche il denaro contante ha un valore che può salire o scendere, al pari di un'auto usata. Così, se il cash non è più un bene di valore, alle banche non conviene più che i risparmiatori tengano liquidità parcheggiata sul conto. Risultato? Per non perdere ricavi, le banche stanno alzando a dismisura i costi dei conti correnti. Ed è solo l'inizio. Di fatto, la Bce ha abbassato i tassi interbancari a tal punto (con l'obiettivo di favorire la circolazione di denaro e dunque la crescita economica) che gli istituti pagano per depositare il denaro in eccesso presso la Bce. Quello che avviene, infatti, è che la liquidità dei clienti viene normalmente depositata a Francoforte a tassi positivi per cui gli istituti percepiscono ricavi. Di questi tempi, però, il tasso è negativo (-0,50%) e così le banche devono pagare per la liquidità dei loro clienti. Gli istituti, però, non hanno certo intenzione di sobbarcarsi certi costi e preferiscono riversarli sui risparmiatori. La prima a rompere il ghiaccio è stata Fineco, annunciando a marzo la possibilità di chiudere il conto a tutti i correntisti con oltre 100.000 euro di liquidità non investita. Il gruppo Unicredit ha scelto una strada più morbida, ma ugualmente dolorosa. Invece di «accanirsi» solo sui clienti con molta liquidità investita, ha preferito alzare i canoni mensili a tutti perché «si è verificato un peggioramento delle condizioni economiche di gestione della liquidità di conto corrente, legato principalmente al persistente andamento negativo dei valore dell'Euribor 3 mesi, che ha raggiunto stabilmente valori negativi». Il problema vero è che la situazione non pare affatto transitoria e che, con molta probabilità, diversi altri istituti si accoderanno alle scelte di Fineco e Unicredit. Anche perché, ironia della sorte, la pandemia del Covid-19 ha fatto salire i depositi degli italiani a quasi 1.700 miliardi. Del resto, con molti esercizi chiusi, spendere non è così facile e la liquidità lievita.Ad accendere un faro sulla questione è la stessa Bankitalia, secondo cui nel 2020 il costo annuo per mantenere un conto è aumentato mediamente di 88,5 euro rispetto al 2019. L'incremento ha interessato principalmente le spese fisse (canone annuo, bonifici, prelievi allo sportello, assegni), mentre poco meno di un terzo è relativo a quelle variabili. Si tratta esattamente della conferma che le banche stanno facendo di tutto per disincentivare la giacenza di denaro alzando i costi fissi e non quelli variabili. Via Nazionale ha messo sotto la lente, ad esempio, i costi dei prelievi allo sportello o al Bancomat. La norma che, a partire da gennaio 2022, impedirà, il pagamento in contanti oltre la soglia dei mille euro, porterà a un aumento esponenziale del numero di transazioni, ancora una volta comportando maggiori esborsi per i risparmiatori. Inoltre, pagamenti più ridotti possono voler dire, per chi non ha dimestichezza con la moneta elettronica, prelievi più frequenti il che, a sua volta, significa più costi. E chi non usa i contanti? Se aumentano le commissioni su bonifici e assegni, la musica non cambia. C'è poi il tema dei bollettini. Si pensi al pagamento di Tari, bollo auto ed altre tasse: le commissioni allo sportello nel 2020 sono salite in media da 1,50 a 3,50 euro.C'è poi un vero e proprio paradosso: lo Stato, per favorire il pagamento delle imposte e delle tasse, sta incoraggiando sempre di più l'utilizzo di carte elettroniche o, più in generale, a evitare il ricorso al contante. Peccato che per usare la moneta elettronica serva un conto corrente che lo alimenti, uno strumento che ogni giorno (e con l'economia italiana che crolla) è sempre più caro. In parole povere la Bce, con la sua politica, ha introdotto a tutti gli effetti una «nuova tassa» che le banche hanno intenzione di scaricare sulle spalle dei risparmiatori. Una cosa è certa, mal comune, mezzo gaudio. Anche al di fuori dei confini italiani la solfa appare la medesima. Anzi, in alcuni casi, già da tempo alcuni istituti hanno iniziato a buttare sui risparmiatori il peso dei tassi interbancari negativi. A Berlino alcune realtà regionali tedesche come la Berliner Volksbank oppure la Raiffeisenbank im Oberland da tempo stanno facendo pagare i tassi negativi ai risparmiatori. Perché dunque la Bce ha imposto tassi così bassi? Il motivo è chiaro: con il costo del denaro così basso si favorisce l'economia: in particolar modo i prestiti alle imprese che, se solventi, possono così garantirsi nuova liquidità a prezzi di saldo. La questione vale anche per i privati che, a questi livelli, possono chiedere finanziamenti a costi contenuti, il tema è di particolare interesse per i mutui, prodotti che non sono mai stati così a buon mercato.Il problema è che gli italiani si sentono sempre meno fiduciosi a investire i propri risparmi in banca dopo scandali che hanno raso al suolo le fatiche di molti italiani. Purtroppo, però, l'amara verità è che l'unico modo per non pagare costi troppo salati è quella di investire il proprio denaro. Anche perché, va detto, è sempre stata una buona norma quella di non tenere troppa liquidità sul conto. Ricordiamoci sempre che il Fondo interbancario di tutela dei depositi risarcisce i correntisti fino a un massimo di 100.000 euro in caso di crack bancario. Oltre quella soglia, un risparmiatore naviga comunque in acque molto turbolente. A questo si aggiunga che le difficoltà nel reperire nuove fonti di reddito ha spinto le banche a fare non poche pressioni commerciali sul personale per spingere i clienti a investire. Da tempo i maggiori sindacati del comparto bancario come Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin si stanno battendo per evitare che i 300.000 dipendenti del settore subiscano pressioni commerciali fuori dal comune. Due sono i pericoli lamentati dalle sigle sindacali: il moltiplicarsi delle campagne prodotto e l'innalzamento dei budget individuali, oltre rischio di pratiche poco trasparenti nei confronti della clientela come l'offerta a distanza di prodotti non finanziari collegati a un finanziamento.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ora-i-mutui-convengono-2652772508.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="costi-dei-conti-in-aumento-e-con-un-paradosso-i-piu-solventi-pagano-di-piu" data-post-id="2652772508" data-published-at="1619367260" data-use-pagination="False"> «Costi dei conti in aumento. E con un paradosso: i più solventi pagano di più» I costi dei conti correnti sono destinati a schizzare verso l'alto. La liquidità non investita costa troppo per via dei tassi interbancari negativi imposti dalla Bce. Le associazioni di consumatori sul tema sono già sul piede di guerra perché, secondo loro, non è corretto che gli istituti bancari decidano di far pagare il problema ai risparmiatori. La Verità ne ha parlato con l'avvocato Antonella Nanna, responsabile della consulta giuridica di Federconsumatori. Avvocato, cosa sta succedendo? «Per via dei costi troppo elevati le banche si stanno avvalendo del diritto di recesso per le giacenze elevate. La prima è stata Fineco che, con una lettera, ha comunicato ai risparmiatori l'eventualità di chiudere il conto per chi ha più di 100.000 euro non investiti. Va detto, si tratta di un diritto di cui le banche si possono avvalere. Non c'è nulla di scorretto in questo. L'articolo 118 del Testo unico bancario prevede che la banca, dandone corretta comunicazione, abbia facoltà di recedere o modificare il contratto con il cliente quando crede. Dal canto suo, il cliente deve avere il tempo di fare la sua scelta e accettare le modifiche contrattuali o recedere senza costi aggiuntivi». Cosa temete? «Il timore che abbiamo noi di Federconsumatori è che le banche possano fare cartello e iniziare tutte di concerto a recedere o, più probabilmente, a modificare il contratto alzando sensibilmente i costi del conto corrente. Così facendo il risparmiatore non avrebbe scampo e si troverebbe obbligato a pagare per qualcosa che prima aveva gratuitamente. Noi questo lo abbiamo già segnalato all'Autorità garante della concorrenza e del mercato. Il problema è che le banche, forti della loro posizione, stanno cercando di spalmare questi aumenti sui correntisti. Per noi è assurdo. Il rischio di impresa non può cadere sulla clientela». Che rischi ci sono per chi tiene troppi soldi in banca? Questa non è una scelta a costo zero per i risparmiatori. In primis, il consumatore, tenendo liquidità non investita, paga l'inflazione che giorno dopo giorno erode il potere d'acquisto. Ma il problema principale è quello delle frodi informatiche: tenere i soldi sul conto oggi non è così sicuro. O quantomeno ci sono dei rischi. Ci sono persino istituti che fanno leva sulla frode per spiegarti che non è il caso di tenere liquidità sul conto. Oggi, quindi, prima le banche ti chiedono una radiografia completa per aprire un conto corrente e capire se non hai problemi. Poi ti disincentivano se sei troppo capiente. Cosa deve fare un consumatore?». Cosa fare dunque per ovviare al problema? «Se da un lato è vero che la banca può comunicare di modificare o chiudere il conto perché si tratta di un rapporto commerciale tra privati, dall'altro noi troviamo ingiusto che un correntista venga messo in difficoltà perché ha troppa liquidità. Non può essere un problema che si deve sobbarcare il consumatore finale. Per ora l'unica opzione è cambiare conto migrando verso un prodotto dai costi più contenuti. Ma quello che si deve combattere è il fatto di essere penalizzati perché troppo solventi. Non può essere un concetto sostenibile questo». Le banche, dunque, dovrebbero contrattare con la Bce per ovviare al problema? «Gli istituti dovrebbero fare la voce grossa o quantomeno farsi carico del costo. Parliamo sempre di situazioni in cui c'è la banca forte contro il piccolo risparmiatore. Poi, io seguo questo mondo da molti anni, c'è il timore che vengano proposti investimenti troppo rischiosi perché si è rotto il rapporto di fiducia tra banca e correntista. Quindi la gente non investe perché ha paura di veder andare in fumo i propri risparmi». Investire, poi, non è gratis. «Per nulla. Per una banca il servizio di gestione patrimoniale o di risparmio amministrato è ben più redditizio rispetto a tenere soldi sul conto. Quindi ancora una volta, spingendo il risparmiatore a investire, lo si spinge a spendere ancora di più nei servizi della banca. Senza pensare che oggi tutti cercano di favorire l'utilizzo di carte di credito, di debito o, più in generale, il ricorso alla moneta elettronica. In poche parole, si costringe il risparmiatore a spendere per via telematica obbligando di fatto ad avere un conto, lo stesso che la banca ti spinge ad avere con poca liquidità. È chiaro con queste premesse il risparmiatore si trovi come minimo disorientato. Temiamo, inoltre, che le banche possano arrivare a imporre un limite sulla liquidità non investita. Se così fosse il consumatore si potrebbe trovare obbligato ad avere più conti aumentando ancora di più i costi da sostenere». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ora-i-mutui-convengono-2652772508.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ma-fare-un-mutuo-oggi-resta-conveniente" data-post-id="2652772508" data-published-at="1619367260" data-use-pagination="False"> Ma fare un mutuo oggi resta conveniente Tra i vantaggi di avere tassi di interesse voluti dalla Bce così bassi c'è sicuramente quello di poter accedere a muti i cui costi sono oggi impensabili, se paragonati anche solo a qualche anno fa. Del resto, l'obiettivo di Francoforte era proprio questo: abbassare i livelli per far girare l'economia. A tutto vantaggio del mercato immobiliare italiano, anch'esso da tempo traballante a fronte di una crisi economica che ha colpito le transazioni soprattutto fuori dai grandi centri abitati come Roma e Milano. «Nel corso del primo trimestre le banche non solo hanno continuato ad offrire condizioni favorevoli, ma hanno anche mantenuto una certa elasticità nei criteri di valutazione del merito creditizio dei richiedenti», dice Ivano Cresto, responsabile mutui di Facile.it. «Tutto questo ha contribuito a sostenere la domanda in un periodo comunque ancora molto influenzato dagli effetti della pandemia», spiega. Ad ogni modo, sebbene le condizioni applicate dalle banche siano rimaste estremamente favorevoli, qualcosa sul fronte degli indici si è mosso e questo ha prodotto, in particolare, un lieve aumento dei tassi fissi. Il rincaro è dovuto alle aspettative di inflazione: le previsioni di crescita dell'economia americana dovuta alle vaccinazioni di massa e, di riflesso, la possibile ripartenza dell'economia europea e dei prezzi al consumo, hanno determinato un aumento dell'Irs (l'indice che guida il tasso dei mutui fissi), con conseguente rincaro dei tassi offerti alla clientela. I valori restano tuttora comunque molto convenienti. Secondo le simulazioni di Facile.it, per un finanziamento da 126.000 euro da restituire in 25 anni, ad aprile 2021 il Taeg medio (il tasso annuo effettivo globale) rilevato online è salito all'1,37%, vale a dire il 10,5% in più rispetto a febbraio 2021. Ancora molto basso, invece, il tasso variabile: ad aprile 2021, sempre secondo la simulazione di Facile.it, il Taeg medio era pari all'1,03%. Torna quindi ad allargarsi la forbice tra tassi fissi e tassi variabili; secondo la simulazione di Facile.it, la differenza media è di circa 18 euro sulla singola rata iniziale, ma sebbene la distanza sia cresciuta, ad oggi non si è registrata un'inversione di tendenza e più di 9 aspiranti mutuatari su 10 optano ancora per il fisso. Certo, l'aumento dei tassi di interesse ha avuto però un primo effetto; il calo delle richieste di surroga. Chi, in pratica, passa per il mutuo da una banca all'altra con l'obiettivo di spendere meno. Secondo l'analisi di Facile.it e Mutui.it, nel primo trimestre 2021 il peso percentuale di questo tipo di finanziamento è diminuito, passando dal 37% dello scorso anno al 22%. Per una lettura corretta del fenomeno, però, va considerato che a marzo 2020 il settore immobiliare e quello dei mutui hanno vissuto un vero e proprio stop, soprattutto per quanto riguarda la richiesta di nuovi finanziamenti; inoltre, un calo del peso delle surroghe è fisiologico se si considera che i tassi di interesse sono bassi da tempo e che, negli scorsi anni, tantissimi italiani hanno già approfittato una, se non più volte, di questa opportunità. Addio alla surroga dunque? Niente affatto, almeno per ora; nonostante gli aumenti, i tassi odierni sono ancora nettamente inferiori rispetto agli indici rilevati pre-pandemia. Un esempio: surrogando oggi un finanziamento a tasso fisso da 126.000 euro in 25 anni sottoscritto con il tasso medio rilevato a gennaio 2020 si potrebbero risparmiare oltre 4.000 euro di interessi calcolati sull'intera durata del mutuo.
Lucio Caracciolo (Ansa)
Quest’ultimo, noto per le apparizioni televisive e per la militanza politica nell’area di Azione e +Europa, ha salutato con un post sui social: «Informo i pochi cui può interessare che sono uscito dal Consiglio Scientifico di Limes, per incompatibilità con la linea politica di mancato sostegno ai principi del Diritto Internazionale, stracciati dall’aggressione russa all’Ucraina», ha scritto.
Federico Argentieri ha invece rilasciato una corposa intervista all’AdnKronos. «Siamo in una fase cruciale, probabilmente la più difficile per l’Ucraina dall’inizio della guerra, non tanto sul piano militare quanto su quello diplomatico e internazionale. Con gli Stati Uniti che si svincolano dalla Nato, che attaccano l’Unione europea apertamente, e con un allineamento sempre più evidente tra America e Russia, questo è il momento in cui bisogna fare scelte chiare, senza ambiguità», ha detto. «In questo contesto ho ritenuto che non fosse più ammissibile che il mio nome comparisse nel tamburino di Limes. Non si tratta di opportunismo né di saltare sul carro del vincitore, anche perché l’Ucraina oggi non è certo il vincitore. È una scelta di coerenza. Io ho scritto poco per Limes, anche perché il suo approccio geopolitico - centrato quasi esclusivamente sui rapporti di forza - non mi è mai stato del tutto congeniale. Ma il punto non è questo. Il vero problema è il pregiudizio strutturale che la rivista ha nei confronti dell’Ucraina da oltre vent’anni».
Curioso: il professore non è d’accordo con la linea editoriale da vent’anni ma è rimasto lo stesso nella rivista. Come mai? «Per una combinazione di fattori. Perché si potevano trovare anche analisi condivisibili, perché nessuno ha mai messo in discussione la mia presenza. I legami personali, come spesso accade, sono duri a morire. E poi c’era sempre la speranza, forse ingenua, di un cambio di rotta. Cambio che non c’è mai stato, anzi: dal 2014 in poi le cose sono peggiorate».
Insomma, alla fine a quanto pare gli conveniva restare. Anche se Caracciolo gli ha fatto uno sgarbo personale difficile da dimenticare. «La svolta è chiarissima: 2004, la rivoluzione arancione», racconta Argentieri. «Da lì in poi Limes assume una postura costantemente diffidente, se non apertamente ostile, verso l’Ucraina. È lo stesso momento in cui esce in Italia Raccolto di dolore di Robert Conquest sulla carestia staliniana, libro che ho curato e prefato dopo averlo letteralmente fatto uscire da un cassetto dove era stato relegato per anni. E cosa fa Limes? Pubblica a puntate - poi per fortuna solo una - L’autobus di Stalin di Antonio Pennacchi: un’orrenda apologia cinica del dittatore, mascherata da allegoria grottesca. Un bravo scrittore che conosce bene le dinamiche dell’Agro pontino ma ben poco quelle sovietiche, che si inerpica in un esercizio davvero incomprensibile». Viene da dire che Pennacchi era un autore di una certa fama e di un certo rilievo, e di sicuro non era un difensore delle dittature, ma Argentieri se l’è legata al dito e vent’anni dopo ha deciso di arrivare al redde rationem. Se ne va, e lancia palate di fango, spiegando che la linea di Limes «è una nube tossica mediatica che avvelena il pubblico e finisce per influenzare anche la politica. Limes e Caracciolo hanno una responsabilità maggiore di tanti ciarlatani televisivi proprio perché il loro livello culturale è elevato. Quando una fonte autorevole contribuisce alla disinformazione, il danno è più grave. Negli altri paesi europei, Francia, Regno Unito, Germania, Spagna, non c’è la carrellata di figure improponibili che oggi trovano grande spazio in certi programmi. Neanche Fox News è così schierata, solo in Russia si vedono le trasmissioni che ci sono in Italia. I miei colleghi stranieri sono stupefatti davanti a questa, chiamiamola, unicità».
Capito? Altrove sono più bravi di noi. Sono tutti militarizzati, ripetono le cose giuste, tengono la linea corretta. Curioso che Argentieri non abbia detto mezza parola sulla marea di stupidaggini, bufale e previsioni sbagliate che altri esperti (evidentemente a lui più congegnali di quelli di Limes) hanno scodellato in tutti questi anni. I nostri finissimi analisti geopolitici non ne hanno azzeccata una, e infatti la Russia è ancora lì che combatte e la guerra non è finita.
Ovvio: tutti gli studiosi e i tecnici di cui sopra hanno il sacrosanto diritto di andarsene dalla rivista che non gradiscono più. Le loro motivazioni tuttavia fanno riflettere. Se la prendono con una delle poche voci che hanno dimostrato di avere un legame con la realtà e non hanno ceduto alla propaganda occidentale (perché esiste pure quella). Limes, in questi anni, ha pubblicato analisi dettagliate, ha ospitato punti di vista diversi e non si è limitata a ripetere a pappagallo le tesi dei commentatori catodici più in voga. Con tutta evidenza, questo atteggiamento ha infastidito Camporini, Argentieri e gli altri. È, appunto, la sindrome di Zerocalcare: accetto le opinioni di tutti bastano che siano concordi con la mia.
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«Il governo belga si sta opponendo all’utilizzo dei fondi russi per timore di dover rimborsare l’intero importo qualora la Russia tentasse di recuperare il denaro», ha riferito Politico, per poi aggiungere: «Ma, a complicare ulteriormente la situazione, altri quattro Paesi - Italia, Malta, Bulgaria e Repubblica Ceca - hanno appoggiato la richiesta del Belgio di valutare finanziamenti alternativi per l’Ucraina, come il debito congiunto». A favore dell’uso dei beni russi congelati si è invece detta la Germania, che si è al contempo espressa contro il ricorso alla condivisione del debito. «Non illudiamoci. Se non ci riusciremo, la capacità di agire dell’Unione europea sarà gravemente compromessa per anni, se non per un periodo più lungo», ha dichiarato lunedì Friedrich Merz, riferendosi all’uso degli asset russi. Più sfumata appare invece la posizione della Francia, che non sembrerebbe del tutto ostile all’idea di ricorrere agli Eurobond. Nel frattempo, ieri Reuters ha riferito che i parlamentari italiani di maggioranza hanno stilato un documento, in cui si esorta il governo «a chiedere alla Commissione europea di condurre un esame approfondito degli aspetti legali e finanziari di tutte le opzioni di finanziamento sul tavolo». Si tratta di una risoluzione che dovrebbe essere votata nella giornata di oggi.
Come che sia, un diplomatico dell’Ue ha fatto sapere a Politico che sulla questione degli asset russi «non ci sarà alcun accordo fino al Consiglio europeo», che prenderà il via domani. «La Commissione europea ha presentato, tramite testo legislativo, due opzioni. Una era l’opzione per le riparazioni, che può essere attuata tramite la proposta legislativa presentata dalla Commissione a maggioranza qualificata. L’altra è l’opzione di un prestito, utilizzando come garanzia il margine di manovra del bilancio europeo. Questa opzione richiede l’unanimità», ha dichiarato un alto funzionario europeo. «È stato molto chiaro fin dal primo dibattito svoltosi tra gli ambasciatori che non c’era l’unanimità per quella seconda opzione, che è stata quindi messa da parte per concentrarsi sul prestito di riparazione. Non è un segreto che il prestito di riparazione sia la soluzione preferita da una considerevole maggioranza degli Stati membri», ha continuato. «Spetta ai leader decidere, ma credo che tutti i leader siano ben consapevoli della posta in gioco sproporzionata del Belgio in una soluzione basata sul prestito di riparazione. E questo viene preso in considerazione da tutti i leader e certamente il presidente del Consiglio europeo ne è ben consapevole», ha affermato un’altra fonte dell’Ue, che ha proseguito: «Tra l’altro, il negoziato sul prestito di riparazione si è svolto principalmente e soprattutto in base alle preoccupazioni del Belgio. E penso che questo sia anche un segno che tutti intorno al tavolo - gli Stati membri e certamente i leader - riconoscono la posta in gioco per il Belgio. Quindi il negoziato è in gran parte incentrato sulla condivisione di qualsiasi rischio o costo derivante da questa soluzione con il Belgio». Nell’Ue, se non panico, c’è «un senso di urgenza», come hanno detto ieri alcune fonti di Bruxelles. «Una decisione va presa».
Ricordiamo che i beni russi congelati sono detenuti da Euroclear Bank, che ha sede in Belgio. E proprio contro questo istituto ha fatto recentemente causa, davanti al Tribunale commerciale di Mosca, la banca centrale russa, chiedendo 230 miliardi di dollari di danni. «Se la banca centrale vincesse, potrebbe chiedere l’esecuzione forzata degli asset di Euroclear in altre giurisdizioni, in particolare quelle considerate ’amichevoli’ dalla Russia», ha sottolineato Reuters l’altro ieri. «Alcuni gestori di fondi avvertono che un’eventuale decisione di utilizzare i beni congelati aumenterebbe i rischi politici legati al possesso di asset in euro e metterebbe persino in dubbio il loro status di rifugio globale», aveva inoltre riportato, dieci giorni fa, il Financial Times. D’altronde, secondo il sito australiano The Conversation, «se gli operatori di mercato temessero sequestri di beni per motivi politici, potrebbero trasferire le proprie attività in giurisdizioni ritenute più sicure».
Insomma, la questione è insidiosa sul fronte tecnico. E poi emerge il nodo politico. Per l’ennesima volta, ci troviamo di fronte a un’Unione europea spaccata. Il dossier degli asset è scivoloso. Ed è tutto da dimostrare che il Consiglio europeo riuscirà a trovare una quadra su di esso.
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Da sinistra: Friedrich Merz, Keir Starmer, Volodymyr Zelensky ed Emmanuel Macron (Ansa)
Mentre il summit europeo di Berlino sulla pace in Ucraina è stato celebrato come un successo da chi ne ha preso parte, le proposte contenute nella dichiarazione congiunta dei leader dell’Europa sembrano fatte per essere rifiutate. E Mosca ha già iniziato a manifestare i primi segnali di chiusura.
A meno di 24 ore di distanza dal vertice, il Cremlino è convinto che la partecipazione degli europei alle trattative «non promette bene». E anche di fronte alle dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che intravede la conclusione del conflitto, Mosca resta cauta. Il tycoon, dopo aver parlato lunedì sera con i primi ministri e i capi di Stato europei, aveva subito dichiarato: «Siamo più vicini che mai alla fine della guerra», aggiungendo anche di essere stato in contatto «di recente con Vladimir Putin». A smentire però la telefonata è stato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: i due leader non si sono più sentiti dopo il 16 ottobre. Il portavoce ha anche spiegato che Mosca «non ha ricevuto» alcun segnale dopo i round di negoziati a Berlino, e anche per questo dovrà valutare «quello che sarà il risultato dei negoziati che gli americani conducono con gli ucraini, con la partecipazione degli europei». Che Mosca non abbia ancora compreso l’esito dei summit è evidente anche dalle parole del viceministro degli Esteri russo, Sergej Ryabkov: «Non abbiamo idea di cosa succeda lì». Stando a quanto rivelato dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si tratterebbe di una questione di giorni: i piani di pace, che dovrebbero essere finalizzati a breve, saranno poi presentati alla Russia dagli inviati americani.
Ma il niet russo è già arrivato in merito all’impegno europeo per «una forza multinazionale Ucraina a guida europea, composta dai contributi delle nazioni disponibili nell’ambito della coalizione dei Volenterosi e sostenuta dagli Stati Uniti». La posizione di Mosca era già nota, ma ieri il viceministro degli Esteri russo in un’intervista ad Abc News, ha ribadito: «Non sottoscriveremo, accetteremo o saremo nemmeno soddisfatti di alcuna presenza di truppe Nato sul territorio ucraino». Lo stesso rifiuto si applica anche qualora la forza multinazionale fosse parte di una garanzia di sicurezza o della Coalizione dei volenterosi. A intervenire in merito è stato anche Peskov che, affermando che Mosca «non ha visto alcun testo» sulla proposta europea della forza multinazionale, ha precisato: «La nostra posizione è ben nota, coerente e trasparente ed è chiara agli americani».
A ciò si aggiunge il grattacapo dei territori, con nessuna delle due parti che è disposta a cedere. Zelensky, a margine del vertice, ha ripetuto che «l’Ucraina non riconoscerà il Donbass come territorio russo, né de jure né de facto». L’impegno di Kiev è quello di continuare a «discuterne nonostante tutto». Il presidente ucraino pare quindi non prendere ancora sul serio le parole di Trump, che ha confermato che «il territorio del Donbass è già perso» per l’Ucraina. Dall’altra parte, anche la posizione russa resta immutata: Ryabkov ha detto che Mosca non scenderà «a compromessi» su Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson e Crimea. Ed è anche in quest’ottica, con i soldati russi che continuano ad avanzare, che il Cremlino ha rifiutato la tregua natalizia avanzata dal cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Peskov ha infatti sottolineato: «Vogliamo la pace, non una tregua che dia sollievo agli ucraini e permetta loro di prepararsi a continuare la guerra».
Un altro tassello complicato riguarda Kiev e l’Ue, anche se non dalla prospettiva russa. Nell’ultimo punto della dichiarazione congiunta dei leader europei si afferma: «Il fermo sostegno all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea». Ma da parte italiana emergono alcune perplessità. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha osservato che ritiene «difficile» l’ingresso dell’Ucraina sia nella Nato sia nell’Ue «non per motivi politici ma agricoli, conoscendo gli agricoltori polacchi, francesi, italiani e tedeschi». A ribadire la sua contrarietà è stato poi il premier ungherese, Viktor Orbàn: «Il popolo ungherese ha detto che non vuole stare in un’Unione con l’Ucraina». Tornando alla linea dell’Italia, riguardo alle garanzie di sicurezza simili all’articolo 5 della Nato di cui «gli americani ne saranno parte», il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha ricordato che si tratta della «proposta italiana» che è stata «accolta» perché «di buon senso». Ma ad essere accolte, sul fronte opposto, sono state anche le dichiarazioni inerenti al riarmo del vicepremier, Matteo Salvini: «Se Hitler e Napoleone non sono riusciti a mettere in ginocchio Mosca con le loro campagne in Russia, è improbabile che Kallas, Macron, Starmer e Merz abbiano successo». Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova «il paragone è preciso, la conclusione è indiscutibile».
Nato e referendum sul Donbass: la guerra poteva finire già nel 2022
Il nostro articolo del 27 febbraio 2022 concludeva con queste parole: «Forse si potrebbe auspicare che la Nato dichiari di rinunciare, una volta per tutte, ad «invitare» l’Ucraina a farvi parte; e che le regioni ucraine oggetto del contendere siano sottoposte a nuovo referendum». Dopo quasi quattro anni di guerra, leggiamo che «Volodymyr Zelensky apre: no a Kiev nella Nato».
Inoltre, a chi gli chiedeva se egli sarebbe stato disponibile a concedere territori come parte di un accordo di pace, Zelensky rispondeva che «la cosa non può essere decisa unilateralmente dal governo o dagli alleati, ma deve avere un mandato popolare, cioè il popolo ucraino deve essere coinvolto tramite un qualche processo democratico, nel formato di elezioni o di referendum». Che il nostro auspicio di quattro anni fa coincida con le conclusioni cui sarebbe alla fine pervenuto Zelensky dopo quattro anni, è, a mio parere, l’ulteriore prova della inadeguatezza di un uomo chiamato a gestire una situazione più grande, molto più grande, di lui. E non si tratta solo di inadeguatezza, ma anche di irresponsabilità. Perché le cose - se vogliamo capirle - dobbiamo dirle tutte. Dobbiamo quindi dire che già il 15 marzo 2022 Zelensky dichiarava: «Abbiamo capito che l’Ucraina non diventerà un membro della Nato, e dobbiamo riconoscere che non ci sono porte aperte». Insomma, il dover abbandonare ogni velleità di aderire alla Nato, più che una apertura di questi giorni, era una consapevolezza acquisita già quattro anni fa. Il che impone la cogente domanda: perché ha continuato la guerra e non si arrese quel 15 marzo 2022? Prima o poi, se non da un tribunale, sicuramente dalla Storia, questa domanda gli verrà posta.
Un’altra domanda che gli si dovrà porre è da dove gli è mai venuta l’idea di una Nato dalle «porte aperte». L’art. 10 del Patto Atlantico prevede che i membri «possono, con accordo unanime, invitare qualsiasi altro Stato europeo ad aderire al Trattato»; cosicché per far parte della Nato bisogna 1) essere uno Stato europeo, 2) essere invitati da chi membro lo è già, e 3) essere invitati all’unanimità. È vero che, subito dopo la fine della Guerra fredda, sebbene ci fosse stata da parte dei vertici della Nato una promessa verbale di non espansione a est della Germania, quegli stessi vertici si preoccuparono di far sapere al mondo intero che non ci sarebbero state preclusioni di principio per l’allargamento della Nato. Tuttavia, l’articolo 10 del Trattato è rimasto immutato. Insomma, Zelensky mai poteva allora, né può ora accampare diritti in ordine alla adesione dell’Ucraina alla Nato. E fa sorridere che codesta volontà di adesione sia stata scritta, addirittura, nella Costituzione ucraina, quando la cosa non dipende dalla volontà dell’Ucraina. E fa sorridere ancora di più, perché questa volontà fu addirittura un emendamento del 2019 alla Costituzione del 1996 che invece garantiva l’Ucraina quale Stato militarmente neutrale.
Anche l’altra recente affermazione di Zelensky sul possibile referendum in ordine alla «cessione» dei territori ripropone la sprovvedutezza dell’uomo. Quattro anni fa l’idea poteva sorgere spontanea. E, anzi, doveva sorgere già nel 2014. Allora, in seguito allo spodestamento del presidente Viktor Yanukovich, legittimamente eletto anche col forte sostegno dei voti dei cittadini di Crimea e del Donbass, questi decidevano di separarsi dal governo centrale con un referendum. Il referendum era, ovviamente, illegittimo; ma poneva un problema politico che in un sistema sedicente democratico avrebbe dovuto risolversi in qualche modo. Ma, anziché invocare il principio, sancito dalla Carta Onu, dell’autodeterminazione dei popoli e far ripetere i referendum sotto il controllo internazionale, la comunità internazionale girava le spalle al Donbass che si dichiarava indipendente; e sanzionava la Russia cui la Crimea si era confederata.
L’impressione è che, se fosse assennato, a Zelensky converrebbe mollare la Ue e affidarsi esclusivamente a Donald Trump. Se da un lato questi vorrebbe far finire quanto prima la guerra, e pertanto appare disponibile ad accontentare le pretese di Putin, dall’altro ha interesse a minimizzarne i vantaggi, cosa che indirettamente significa anche minimizzare gli svantaggi per l’Ucraina. Le cui disgrazie sono anche in parte dovute a quel «f**k the Eu» pronunciato - da Victoria Nuland, nel 2014 responsabile americana agli affari euroasiatici - a detrimento dell’Ucraina. Forse è venuto il momento per Zelensky di pronunciare la stessa invettiva a vantaggio del proprio Paese.
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Il viceministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel (MFA/Mordehai Gordon)
Viceministro, la pace sembra essere ancora molto lontana in Medioriente.
«La situazione è particolarmente complessa e stiamo lavorando in patria e all’estero per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani e di tutti gli ebrei. A Gaza, Hamas non vuole consegnare le armi, bloccando l’inizio della Fase 2, ma la nostra pazienza ha un limite. Nella Striscia serve sicurezza e democrazia, due cose che Hamas combatte da sempre. Io personalmente non ho nessuna fiducia negli attuali leader palestinesi: molti di loro fanno dichiarazioni in arabo contro Israele e poi in inglese si fingono democratici. Glorificano i terroristi e fomentano la violenza. E così fanno solo il male dei palestinesi».
Il presidente statunitense, Donald Trump, vuole inserire anche l’Italia nel cosiddetto Consiglio di pace per Gaza.
«Siamo assolutamente favorevoli a coinvolgere l’Italia. Abbiamo grande fiducia sia nei militari che nei politici italiani. Il governo di Roma si sta adoperando per raggiungere la pace e io personalmente conosco il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e ne apprezzo la grande capacità diplomatica. Siamo però molto delusi da alcune nazioni europee come la Spagna e l’Irlanda, che hanno deciso di riconoscere la Palestina. Questo riconoscimento non è niente, non esiste e non ha senso che esista. Si tratta di un gravissimo errore politico, non fanno altro che riconoscere Hamas e i suoi crimini. Dopo aver rapito, stuprato e ucciso civili innocenti, i terroristi ne escono rafforzati perché vengono premiati da questi Paesi».
Anche il confine settentrionale resta problematico.
«Non ci fidiamo assolutamente del nuovo regime in Siria. Abu Muhamnad Al Jolani, lo chiamo ancora così perché resta un pericoloso jihadista che ha buttato la tunica e indossato la cravatta, sta uccidendo le minoranze, dagli alawiti ai cristiani, ma soprattutto i drusi che Israele ha deciso di difendere. I drusi israeliani sono parte integrante della nostra società, servono nell’Idf come soldati e sono cittadini a tutti gli effetti. I loro fratelli siriani vengono massacrati solo perché sono una minoranza e noi non lo permetteremo. Hezbollah rimane un pericolo per Israele anche se la sua forza è diminuita, ma grazie ai crimini che commettono con il traffico di droga e armi dal Sud America presto torneranno a essere un pericolo. Stiamo facendo pressioni sul governo libanese perché acceleri il disarmo di Hezbollah, che ancora non è stato fatto nonostante sia ufficialmente iniziato ad agosto. Il presidente del Libano, Joseph Aoun, ha promesso che l’esercito nazionale avrà il monopolio della forza, ma deve ancora dimostrarlo».
L’attentato contro la comunità ebraica a Bondi Beach, in Australia, ha portato l’attenzione ai massimi livelli e l’ambasciatore d’Israele a Roma, Jonathan Peled, ha dichiarato che gli ebrei non si sentono sicuri neanche in Italia.
«Con il governo di Roma c’è una stretta e proficua collaborazione e sappiamo che cerca di garantire sempre la sicurezza degli ebrei in Italia. Ma le parole del nostro ambasciatore derivano dalle manifestazioni che ci sono state nel vostro Paese, dove abbiamo visto molti episodi di antisemitismo, che vanno condannati con maggiore determinazione. Il sostegno alla causa della Palestina è soltanto una scusa per attaccarci e per questo motivo serve particolare attenzione per gli ebrei in tutto il mondo. Israele combatte molti nemici, ma il più pericoloso rimane il pregiudizio nei nostri confronti, che nella storia ha causato tante tragedie».
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