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2018-12-29
Ora Conte ci ha preso gusto: «Fieramente populisti». Botta alla Cgil sulla Fornero
Ansa
Vegliato dal portavoce Rocco Casalino, e strattonato dal presidente dell'Ordine dei giornalisti che - tra una citazione del Papa e una del Quirinale - continuava a bussare a quattrini (pubblici) per l'editoria, Giuseppe Conte ha brillantemente superato la prima conferenza di fine anno da presidente del Consiglio. Una performance comprensibile per il grande pubblico, e democristianamente capace di schivare le insidie. E, tra una negazione e l'altra, si è pure colto il tentativo di ritagliarsi una soggettività politica propria tra i due vicepremier forti, Matteo Salvini e Luigi Di Maio.
Conte ha esordito rivendicando la «natura populista» del governo, e difendendo quello che ha definito il «modus procedendi» del contratto: una novità che «condizionerà il futuro della politica italiana», ha rimarcato.
A proposito dei cittadini, il premier ha detto: «Ricevo regolarmente capi di Stato e di governo in incontri bilaterali», ha detto, «ecco, mi piacerebbe ricevere anche cittadini normali che abbiano compiuto gesti che possano essere d'esempio per tutti, con lo stesso protocollo, con l'onore degli incontri bilaterali».
Poi una lunga pagina dedicata all'editoria, incalzato dalle testate (Il Manifesto, Radio Radicale, Avvenire) testate a vario titolo toccate, insieme ad altre, dalla riduzione dei finanziamenti pubblici. Conte è stato convincente: ha invitato le testate a «stare sul mercato», le ha stimolate a «trovare risorse alternative», difendendo il contenimento dei contributi pubblici («chiediamo un sacrificio che è imposto a tutti»), negando intenti punitivi («Non credo che rivedere il sistema del finanziamento dell'editoria sia un attentato alla libertà d'informazione»), e sottolineando il carattere progressivo del taglio («20% in meno della differenza tra l'importo spettante e 500.000 euro il primo anno, 50% il secondo, 75% il terzo»). In tutta franchezza, i giornali interessati avranno tutto il tempo di riorganizzarsi: e non si vede perché i cittadini debbano continuare a finanziare solo alcune opinioni, incluse quelle che non condividono, generando una disparità di trattamento sul mercato.
La sezione più ampia della conferenza è stata dedicata alla manovra, mentre alla Camera iniziavano le operazioni di voto che si concluderanno oggi con il via libera definitivo. Conte ha negato un ruolo eccessivo di Bruxelles: ha sostenuto che la Commissione, al di là del negoziato sui saldi complessivi, si sia limitata a chiedere «il congelamento di due miliardi di spesa: una somma che sarà sbloccabile dopo una verifica da fare a luglio». Molto meno - secondo il premier - delle misure cautelative che il governo aveva già autonomamente immaginato. Per il resto, «l'interlocuzione ha riguardato i saldi finali, ma mai le misure contenute nella manovra».
Sulla crescita, Conte ha sparso ottimismo: «I fondamentali del sistema economico italiano sono solidissimi. L'1% è la soglia minima: andremo molto oltre».
Sulle tasse, il passaggio centrale, non sempre convincentissimo. Da un lato il professore ha elencato alcune incontestabili riduzioni fiscali (dalle partite Iva alla cedolare secca sulle locazioni commerciali), dall'altro ha sottolineato come gli aumenti riguardino non i cittadini comuni, ma solo alcuni grandi bersagli: banche, assicurazioni, gioco e giganti del Web. Su questo il premier ha però omesso di spiegare come si potrà evitare che gli aumenti siano scaricati dai soggetti colpiti su cittadini e utenti, e non si è impegnato a tornare indietro sul via libera indirettamente concesso ai comuni sull'aumento dei tributi locali. Conte, in questo ammiccando più all'elettorato M5s che a quello leghista, ha apertamente parlato di «un'opera redistributiva, privilegiando alcune fasce sociali».
Notevole la frecciata ai sindacati sulle pensioni: «Abbiamo introdotto un meccanismo di indicizzazione che è un po' raffreddato, ma che non tocca le pensioni fino a tre volte le minime. Forse neppure l'Avaro di Molière nelle fasce più alte si accorgerebbe di qualche euro in meno. Oggi i sindacati sono in piazza a protestare, ma li ricordo silenti quando fu approvata la legge Fornero».
Poi la parte più politica: «Questa esperienza di governo funziona perché si regge su un amalgama perfettamente riuscito del giallo e del verde. Non c'è mescolanza di colori, che restano distinti, ma si è creato un equilibrio chimico al quale contribuisco anch'io. Di Maio e Salvini sono persone molto ragionevoli. Voi giornalisti ci descrivete sempre alle prese con litigi furibondi e invece non c'è mai stato un vertice in cui ci sia stata una seria litigata». Però non ha escluso un «tagliando» del contratto di governo. Quanto a un eventuale rimpasto, ha lasciato la porta aperta: «Se l'esigenza maturerà in una forza politica, sarà comunicata all'altra, in un percorso di razionalità che non destabilizzi l'azione del governo, che durerà cinque anni».
Sulle grandi opere l'assicurazione che la decisione sulla Tav sarà presa prima delle europee: «Questo governo non è contrario ai grandi lavori, valuta le grandi opere». Su reddito e quota 100 conferma della partenza ad aprile per entrambi con un'attenzione alle aziende che assumeranno i percettori dell'assegno sociale. Parlando di sé, Conte ha escluso impegni politici futuri («questa è una parentesi meravigliosa, che mi rende orgoglioso, ma ben determinata»), e ha negato di far campagna per qualcuno alle europee.
Eppure, tra una negazione e un'attenuazione, tra un esercizio di understatement e una propensione naturale a evitare polemiche, ieri si è avuta la sensazione di una più marcata politicità del ruolo di Conte, svelata da un uso più frequente del solito della prima persona singolare («Nel negoziato con Bruxelles non ho consentito alla Commissione di discutere le nostre misure», «andrò a negoziare sull'autonomia con i governatori di Lombardia e Veneto», «sarò garante della coesione nazionale», «ho convocato le aziende di Stato sugli investimenti»). Insomma, si esce con la sensazione di un Conte desideroso di far sapere a tutti (anche alla sua maggioranza) che lui c'è.
Sanatoria alle Entrate un regalo agli evasori
Si sente spesso ripetere che il lavoro nero va combattuto in ogni modo, anche da quanti sono consapevoli che in alcune aree del Paese il lavoro è nero o non c'è. In primo luogo per sopravvivere all'esosità del fisco, ciò che vale anche per il datore di lavoro. Tuttavia è da dimostrare che, per contrastarlo, basterebbe un carico fiscale più equo, ad esempio una flat tax tenuto conto che quell'attività si ricollega a taluni benefici, da ultimo al «reddito di cittadinanza», fidando nella tradizionale inefficienza dei controlli in un Paese nel quale perfino le autocertificazioni, alle luce delle verifiche, risultano spesso false, nonostante le sanzioni penali. Ne è consapevole anche Luigi Di Maio, che minaccia l'intervento della guardia di Finanza per rafforzare i controlli.
Lavoro nero, dunque, con evasione contributiva, che si vorrebbe compensare con l'impiego di migranti, ed evasione fiscale, quest'ultima abbondantemente oltre i 100 miliardi annui, un appetitoso gruzzolo per uno Stato alla disperata ricerca di risorse. Tuttavia nessuno quantifica un possibile recupero del gettito. Per cui ancora una volta si mettono le mani nelle tasche dei pensionati. Per le pensioni superiori a 1.500 euro lordi si riduce la rivalutazione automatica, le altre, le più elevate, si tagliano se non «interamente» liquidate con il sistema contributivo, una ipocrisia, considerato che al contributivo si è passati nel 1994.
Al di là della lesione di diritti maturati, che sarà portata all'attenzione dei giudici, la decisione di colpire le pensioni ha effetti negativi sui consumi e su quella redistribuzione dei redditi interna alle famiglie che trasferisce risorse dai nonni ai figli ed ai nipoti, il contrario di quel che serve in un momento nel quale si registrano segnali recessivi nell'economia. Ciò, mentre nella manovra di bilancio sono assolutamente inadeguate le risorse destinate alle infrastrutture, un settore gravemente carente che, se fosse destinatario di adeguati stanziamenti, potrebbe concorrere alla crescita dell'economia e dell'occupazione.
Ma torniamo ai 100 e più miliardi sottratti dagli evasori. Riccardo Fraccaro, oggi ministro per i Rapporti con il Parlamento, quando parlava da esponente del M5s, invitava i cittadini a ribellarsi al fisco ingiusto e rapace. E denunciava che nelle agenzie fiscali ci sono circa 800 ex funzionari che non hanno vinto un concorso per entrare nella dirigenza, dei quali 340 sarebbero indagati per gravi reati. «Uno scandalo, una schifezza assoluta», aggiungeva. Lo stesso parlamentare, adesso che è al governo, tace, nonostante non possa non percepire che monta la rivolta tra i lavoratori dipendenti e, soprattutto, tra i pensionati ai quali si chiede di nuovo un «contributo di solidarietà» per cinque anni. In pratica per i più anziani fino alla morte.
In tema di funzionalità delle agenzie fiscali Salvatore Giacchetti, presidente aggiunto onorario del Consiglio di Stato, scrive di «mancanza del comune senso del pudore normativo», a proposito dei ripetuti tentativi di sanatorie legislative nell'annosa vicenda delle «posizioni» organizzative (dirigenziali) nell'ambito dell'Agenzia delle entrate, di cui La Verità ha già scritto, e alla ripetuta elusione delle sentenze dei giudici amministrativi e perfino della Corte costituzionale, come denuncia la Cnfedir Dirstat, il sindacato dei funzionari e dei dirigenti dello Stato.
Il fatto è che dalla loro istituzione, nel 2000, nelle agenzie fiscali non si fanno concorsi pubblici e si continua con il balletto degli incarichi provvisori variamente denominati, bocciati dalla Corte costituzionale perché in violazione della regola la quale prevede che «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge» (art. 97, comma 3, Costituzione).
E poiché in Italia non c'è niente di più definitivo di ciò che è precario, i fortunati «incaricati» sono rimasti al loro posto dal momento che l'ex ministro dell'economia pd Pier Carlo Padoan, titolare dell'alta vigilanza sulle agenzie, non si è dato carico della pronuncia della Corte costituzionale consentendo l'attribuzione agli ex incaricati di «Posizioni organizzative speciali» (Pos) e, nel corso del giudizio di impugnazione, di «Posizioni organizzative a termine» (Pot), altro prodotto della fantasia burocratica. Oggi l'Agenzia inventa ancora una disciplina derogatoria con le «Posizioni organizzative per lo svolgimento di incarichi di elevata responsabilità, alta professionalità o particolare specializzazione» (Poer).
Con questa decisione non si tiene conto neppure della sentenza n. 8990 del 16 agosto 2018 con la quale il Tar del Lazio, Sez. II-ter, ha affermato che l'Agenzia è giuridicamente tenuta «all'espletamento della nuova procedura concorsuale» da prevedere «per soli esami», esclusi quei «titoli» che avrebbero dovuto premiare gli incaricati di funzioni dirigenziali rispetto a coloro i quali accedono dall'esterno ed agli interni privi di incarichi, nell'interesse ancora una volta degli amici del potere. Sicché il Segretario generale aggiunto della Confedir Dirstat, Pietro Paolo Boiano, si è sentito in dovere di invitare il direttore dell'Agenzia delle entrate, Antonino Maggiore, al rispetto della Costituzione, delle leggi e delle pronunce della Corte costituzionale ed a «chiudere definitivamente un circolo vizioso che dura ormai da troppo tempo ed ha fatto male alla massima Agenzia fiscale» perché «nel marasma che regna negli uffici diventa poi proibitivo contrastare efficacemente il diffuso fenomeno della evasione fiscale».
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Nel saluto ai giornalisti il premier difende la finanziaria. Sulle pensioni: «Tagli non ai poveri, sindacati zitti con Monti». Sul governo: «Rimpasto? Vediamo».I 100 miliardi di «nero» sottratti al fisco sono un vulnus per chi paga onestamente le tasse. Ma lo scandalo delle centinaia di funzionari messi in ruolo senza concorso e in barba alla Cassazione mina la fiducia.Lo speciale contiene due articoli.Vegliato dal portavoce Rocco Casalino, e strattonato dal presidente dell'Ordine dei giornalisti che - tra una citazione del Papa e una del Quirinale - continuava a bussare a quattrini (pubblici) per l'editoria, Giuseppe Conte ha brillantemente superato la prima conferenza di fine anno da presidente del Consiglio. Una performance comprensibile per il grande pubblico, e democristianamente capace di schivare le insidie. E, tra una negazione e l'altra, si è pure colto il tentativo di ritagliarsi una soggettività politica propria tra i due vicepremier forti, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Conte ha esordito rivendicando la «natura populista» del governo, e difendendo quello che ha definito il «modus procedendi» del contratto: una novità che «condizionerà il futuro della politica italiana», ha rimarcato. A proposito dei cittadini, il premier ha detto: «Ricevo regolarmente capi di Stato e di governo in incontri bilaterali», ha detto, «ecco, mi piacerebbe ricevere anche cittadini normali che abbiano compiuto gesti che possano essere d'esempio per tutti, con lo stesso protocollo, con l'onore degli incontri bilaterali».Poi una lunga pagina dedicata all'editoria, incalzato dalle testate (Il Manifesto, Radio Radicale, Avvenire) testate a vario titolo toccate, insieme ad altre, dalla riduzione dei finanziamenti pubblici. Conte è stato convincente: ha invitato le testate a «stare sul mercato», le ha stimolate a «trovare risorse alternative», difendendo il contenimento dei contributi pubblici («chiediamo un sacrificio che è imposto a tutti»), negando intenti punitivi («Non credo che rivedere il sistema del finanziamento dell'editoria sia un attentato alla libertà d'informazione»), e sottolineando il carattere progressivo del taglio («20% in meno della differenza tra l'importo spettante e 500.000 euro il primo anno, 50% il secondo, 75% il terzo»). In tutta franchezza, i giornali interessati avranno tutto il tempo di riorganizzarsi: e non si vede perché i cittadini debbano continuare a finanziare solo alcune opinioni, incluse quelle che non condividono, generando una disparità di trattamento sul mercato. La sezione più ampia della conferenza è stata dedicata alla manovra, mentre alla Camera iniziavano le operazioni di voto che si concluderanno oggi con il via libera definitivo. Conte ha negato un ruolo eccessivo di Bruxelles: ha sostenuto che la Commissione, al di là del negoziato sui saldi complessivi, si sia limitata a chiedere «il congelamento di due miliardi di spesa: una somma che sarà sbloccabile dopo una verifica da fare a luglio». Molto meno - secondo il premier - delle misure cautelative che il governo aveva già autonomamente immaginato. Per il resto, «l'interlocuzione ha riguardato i saldi finali, ma mai le misure contenute nella manovra». Sulla crescita, Conte ha sparso ottimismo: «I fondamentali del sistema economico italiano sono solidissimi. L'1% è la soglia minima: andremo molto oltre». Sulle tasse, il passaggio centrale, non sempre convincentissimo. Da un lato il professore ha elencato alcune incontestabili riduzioni fiscali (dalle partite Iva alla cedolare secca sulle locazioni commerciali), dall'altro ha sottolineato come gli aumenti riguardino non i cittadini comuni, ma solo alcuni grandi bersagli: banche, assicurazioni, gioco e giganti del Web. Su questo il premier ha però omesso di spiegare come si potrà evitare che gli aumenti siano scaricati dai soggetti colpiti su cittadini e utenti, e non si è impegnato a tornare indietro sul via libera indirettamente concesso ai comuni sull'aumento dei tributi locali. Conte, in questo ammiccando più all'elettorato M5s che a quello leghista, ha apertamente parlato di «un'opera redistributiva, privilegiando alcune fasce sociali». Notevole la frecciata ai sindacati sulle pensioni: «Abbiamo introdotto un meccanismo di indicizzazione che è un po' raffreddato, ma che non tocca le pensioni fino a tre volte le minime. Forse neppure l'Avaro di Molière nelle fasce più alte si accorgerebbe di qualche euro in meno. Oggi i sindacati sono in piazza a protestare, ma li ricordo silenti quando fu approvata la legge Fornero». Poi la parte più politica: «Questa esperienza di governo funziona perché si regge su un amalgama perfettamente riuscito del giallo e del verde. Non c'è mescolanza di colori, che restano distinti, ma si è creato un equilibrio chimico al quale contribuisco anch'io. Di Maio e Salvini sono persone molto ragionevoli. Voi giornalisti ci descrivete sempre alle prese con litigi furibondi e invece non c'è mai stato un vertice in cui ci sia stata una seria litigata». Però non ha escluso un «tagliando» del contratto di governo. Quanto a un eventuale rimpasto, ha lasciato la porta aperta: «Se l'esigenza maturerà in una forza politica, sarà comunicata all'altra, in un percorso di razionalità che non destabilizzi l'azione del governo, che durerà cinque anni». Sulle grandi opere l'assicurazione che la decisione sulla Tav sarà presa prima delle europee: «Questo governo non è contrario ai grandi lavori, valuta le grandi opere». Su reddito e quota 100 conferma della partenza ad aprile per entrambi con un'attenzione alle aziende che assumeranno i percettori dell'assegno sociale. Parlando di sé, Conte ha escluso impegni politici futuri («questa è una parentesi meravigliosa, che mi rende orgoglioso, ma ben determinata»), e ha negato di far campagna per qualcuno alle europee. Eppure, tra una negazione e un'attenuazione, tra un esercizio di understatement e una propensione naturale a evitare polemiche, ieri si è avuta la sensazione di una più marcata politicità del ruolo di Conte, svelata da un uso più frequente del solito della prima persona singolare («Nel negoziato con Bruxelles non ho consentito alla Commissione di discutere le nostre misure», «andrò a negoziare sull'autonomia con i governatori di Lombardia e Veneto», «sarò garante della coesione nazionale», «ho convocato le aziende di Stato sugli investimenti»). 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Tuttavia è da dimostrare che, per contrastarlo, basterebbe un carico fiscale più equo, ad esempio una flat tax tenuto conto che quell'attività si ricollega a taluni benefici, da ultimo al «reddito di cittadinanza», fidando nella tradizionale inefficienza dei controlli in un Paese nel quale perfino le autocertificazioni, alle luce delle verifiche, risultano spesso false, nonostante le sanzioni penali. Ne è consapevole anche Luigi Di Maio, che minaccia l'intervento della guardia di Finanza per rafforzare i controlli. Lavoro nero, dunque, con evasione contributiva, che si vorrebbe compensare con l'impiego di migranti, ed evasione fiscale, quest'ultima abbondantemente oltre i 100 miliardi annui, un appetitoso gruzzolo per uno Stato alla disperata ricerca di risorse. Tuttavia nessuno quantifica un possibile recupero del gettito. Per cui ancora una volta si mettono le mani nelle tasche dei pensionati. Per le pensioni superiori a 1.500 euro lordi si riduce la rivalutazione automatica, le altre, le più elevate, si tagliano se non «interamente» liquidate con il sistema contributivo, una ipocrisia, considerato che al contributivo si è passati nel 1994. Al di là della lesione di diritti maturati, che sarà portata all'attenzione dei giudici, la decisione di colpire le pensioni ha effetti negativi sui consumi e su quella redistribuzione dei redditi interna alle famiglie che trasferisce risorse dai nonni ai figli ed ai nipoti, il contrario di quel che serve in un momento nel quale si registrano segnali recessivi nell'economia. Ciò, mentre nella manovra di bilancio sono assolutamente inadeguate le risorse destinate alle infrastrutture, un settore gravemente carente che, se fosse destinatario di adeguati stanziamenti, potrebbe concorrere alla crescita dell'economia e dell'occupazione. Ma torniamo ai 100 e più miliardi sottratti dagli evasori. Riccardo Fraccaro, oggi ministro per i Rapporti con il Parlamento, quando parlava da esponente del M5s, invitava i cittadini a ribellarsi al fisco ingiusto e rapace. E denunciava che nelle agenzie fiscali ci sono circa 800 ex funzionari che non hanno vinto un concorso per entrare nella dirigenza, dei quali 340 sarebbero indagati per gravi reati. «Uno scandalo, una schifezza assoluta», aggiungeva. Lo stesso parlamentare, adesso che è al governo, tace, nonostante non possa non percepire che monta la rivolta tra i lavoratori dipendenti e, soprattutto, tra i pensionati ai quali si chiede di nuovo un «contributo di solidarietà» per cinque anni. In pratica per i più anziani fino alla morte. In tema di funzionalità delle agenzie fiscali Salvatore Giacchetti, presidente aggiunto onorario del Consiglio di Stato, scrive di «mancanza del comune senso del pudore normativo», a proposito dei ripetuti tentativi di sanatorie legislative nell'annosa vicenda delle «posizioni» organizzative (dirigenziali) nell'ambito dell'Agenzia delle entrate, di cui La Verità ha già scritto, e alla ripetuta elusione delle sentenze dei giudici amministrativi e perfino della Corte costituzionale, come denuncia la Cnfedir Dirstat, il sindacato dei funzionari e dei dirigenti dello Stato. Il fatto è che dalla loro istituzione, nel 2000, nelle agenzie fiscali non si fanno concorsi pubblici e si continua con il balletto degli incarichi provvisori variamente denominati, bocciati dalla Corte costituzionale perché in violazione della regola la quale prevede che «agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge» (art. 97, comma 3, Costituzione). E poiché in Italia non c'è niente di più definitivo di ciò che è precario, i fortunati «incaricati» sono rimasti al loro posto dal momento che l'ex ministro dell'economia pd Pier Carlo Padoan, titolare dell'alta vigilanza sulle agenzie, non si è dato carico della pronuncia della Corte costituzionale consentendo l'attribuzione agli ex incaricati di «Posizioni organizzative speciali» (Pos) e, nel corso del giudizio di impugnazione, di «Posizioni organizzative a termine» (Pot), altro prodotto della fantasia burocratica. Oggi l'Agenzia inventa ancora una disciplina derogatoria con le «Posizioni organizzative per lo svolgimento di incarichi di elevata responsabilità, alta professionalità o particolare specializzazione» (Poer). Con questa decisione non si tiene conto neppure della sentenza n. 8990 del 16 agosto 2018 con la quale il Tar del Lazio, Sez. II-ter, ha affermato che l'Agenzia è giuridicamente tenuta «all'espletamento della nuova procedura concorsuale» da prevedere «per soli esami», esclusi quei «titoli» che avrebbero dovuto premiare gli incaricati di funzioni dirigenziali rispetto a coloro i quali accedono dall'esterno ed agli interni privi di incarichi, nell'interesse ancora una volta degli amici del potere. Sicché il Segretario generale aggiunto della Confedir Dirstat, Pietro Paolo Boiano, si è sentito in dovere di invitare il direttore dell'Agenzia delle entrate, Antonino Maggiore, al rispetto della Costituzione, delle leggi e delle pronunce della Corte costituzionale ed a «chiudere definitivamente un circolo vizioso che dura ormai da troppo tempo ed ha fatto male alla massima Agenzia fiscale» perché «nel marasma che regna negli uffici diventa poi proibitivo contrastare efficacemente il diffuso fenomeno della evasione fiscale».
I carabinierii e la Scientifica sul luogo della rapina alla gioielleria Mario Roggero a Grinzane Cavour (Cuneo), il 28 aprile 2021 (Ansa)
A due giorni dalla condanna in secondo grado che gli infligge una pena di 14 anni e 9 mesi (17 nel primo appello), ci si chiede se non ci sia stato un errore, un abbaglio, perché ciò che stupisce di più oltre alla severità della pena sono le sue proporzioni. Sì perché mentre a Roggero spetta il carcere, ai delinquenti e alle loro famiglie andranno migliaia di euro di risarcimenti. Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885.000 euro. Gliene sono stati riconosciuti 480.000. L’uomo però aveva già dato 300.000 euro - non dovuti - ai congiunti dei suoi assalitori. Per reperire i soldi ha dovuto svendere due appartamenti di proprietà sua e dei suoi fratelli. Una delle due era la casa in cui era cresciuto. Come già scritto su queste colonne si tratta di una tragica beffa per chi ha subito una rapina e che, per essersi difeso, ne subisce un’altra ancora. A questi soldi vanno aggiunti altri 300.000 euro «di spese legali, peritali, mediche», che non sono bastate a mitigare la «sentenza monito» di 17 anni in primo grado, come l’ha definita il procuratore capo di Asti. Non un monito, ma il presagio della condanna in secondo grado che gli ha visto attribuire una diminuzione di pena di due anni e poco più.
Eppure nel mondo dell’assurdo in cui viviamo ai familiari di chi muore sul lavoro vanno appena 12.000 euro. Proprio così. Ad esser precisi si parla di un versamento una tantum di 12.342,84 euro. Una cifra versata dall’Inail che cambia ogni anno perché rivalutata dal ministero del Lavoro in base all’inflazione, quindi alla variazione dei prezzi al consumo. Di questo si devono accontentare le famiglie di chi perde la vita lavorando onestamente, mentre chi ruba e muore per questo può far arrivare ai propri cari anche mezzo milione di euro. Bel messaggio che si manda ai familiari delle 784 persone morte sul lavoro solo nel 2025. Ai coniugi superstiti spetta poi il 50% dello stipendio del proprio caro, ai figli appena il 20%. Considerato che statisticamente a morire sul lavoro non ci sono grossi dirigenti, ma più che altro operai, si può dire che a queste persone già travolte dal dolore non arrivano che pochi spicci. Spicci che arrivano oltretutto solo ad alcune condizioni. Intanto per quanto riguarda i coniugi la quota di stipendio arriverà a vita, certo, ma bisogna stare attenti a fare richiesta entro 40 giorni, altrimenti si rischia di non ricevere nulla. Per quanto riguarda i figli, il 20% dello stipendio del lavoratore deceduto verrà contribuito fino ai 18 anni di età, fino ai 26 se studenti. Non oltre. Nulla verrà versato ai genitori della vittima se conviventi a meno che non si dimostri che la stessa contribuisse a mantenerli. Insomma, dolore che si aggiunge a dolore.
Anche i rapinatori uccisi da Roggero avevano dei familiari, certo, anche loro hanno diritto a soffrire per le loro perdite, ma se il valore di una morte si dovesse o potesse contare con il denaro, verrebbe da pensare che per la giustizia italiana ha più valore la vita di un delinquente che quella di un lavoratore onesto.
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Galeazzo Bignami (Ansa)
Se per il giudice che l’ha condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere (in primo grado la Corte d’Assise di Asti gliene aveva dati 17, senza riconoscere la legittima difesa), nonché a un risarcimento milionario ai familiari dei due rapinatori uccisi (con una provvisionale immediata di circa mezzo milione di euro e le richieste totali che potrebbero raggiungere milioni) c’è stata sproporzione tra difesa e offesa, la stessa sproporzione è stata applicata nella sentenza, tra l’atto compiuto e la pena smisurata che dovrà scontare Roggero. Confermare tale condanna equivarrebbe all’ergastolo per l’anziano, solo per aver difeso la sua famiglia e sé stesso.
Una severità che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica nonché esasperato gli animi del Parlamento. Ma la colpa è dei giudici o della legge? Giovedì sera a Diritto e Rovescio su Rete 4 è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, il quale alla Verità non ha timore nel ribadire che «qualsiasi legge si può sempre migliorare, per carità. Questa legge mette in campo tutti gli elementi che, se valutati correttamente, portano ad escludere pressoché sempre la responsabilità dell’aggredito, salvo casi esorbitanti. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e in questo caso il mare è la magistratura», spiega Bignami, «ci sono giudici che, comprendendo il disposto di legge e lo spirito della stessa, la applicano in maniera conforme alla ratio legis e giudici che, invece, pur comprendendola, preferiscono ignorarla. Siccome questa è una legge che si ispira sicuramente a valori di destra come la difesa della vita, della famiglia, della proprietà privata e che, come extrema ratio, consente anche una risposta immediata in presenza di un pericolo imminente, certi giudici la applicano con una prospettiva non coerente con la sua finalità».
In questo caso la giustificazione di una reazione istintiva per proteggere la propria famiglia dai rapinatori non ha retto in aula. Ma oltre al rispetto della legge non è forse fondamentale anche l’etica nell’applicarla? «Su tante cose i giudici applicano le leggi sulla base delle proprie sensibilità, come in materia di immigrazione, per esempio», continua Bignami, «però ricordiamo che la legge deve essere ispirata da principi di astrattezza e generalità. Poi va applicata al caso concreto e lì vanno presi in esame tutti i fattori che connotano la condotta. L’articolo 52 parla di danno ingiusto, di pericolo attuale e proporzione tra difesa e offesa. Per pericolo attuale non si può intendere che sto lì con il cronometro a verificare se il rapinatore abbia finito di rapinarmi o se magari intenda tornare indietro con un fucile. Lo sai dopo se il pericolo è cessato e l’attualità non può essere valutata con il senno di poi. Ed anche il turbamento d’animo di chi viene aggredito non finisce con i rapinatori che escono dal negozio e chiudono la porta. Questo sentimento di turbamento è individuale e, secondo me, si riflette sulla proporzione. Vanno sempre valutate le condizioni soggettive e il vissuto della persona».
Merita ricordare, infatti, che Roggero aveva subito in passato altre 5 rapine oltre a quella in esame e che in una di quelle fu anche gonfiato di botte. La sua vita e quella della sua famiglia è compromessa, sia dal punto di vista psicologico che professionale. È imputato di omicidio volontario plurimo per aver ucciso i due rapinatori e tentato omicidio per aver ferito il terzo che faceva da palo. E sapete quanto si è preso quest’ultimo? Appena 4 anni e 10 mesi di reclusione.
La reazione emotiva del commerciante, la paura per l’incolumità dei familiari, sono attenuanti che non possono non essere considerate. Sono attimi di terrore tremendi. Se vedi tua figlia minacciata con una pistola, tua moglie trascinata e sequestrata, come minimo entri nel panico. «Intanto va detto quel che forse è così ovvio che qualcuno se n’è dimenticato: se i banditi fossero stati a casa loro, non sarebbe successo niente», prosegue Bignami, «poi penso che, se Roggero avesse avuto la certezza che quei banditi stavano fuggendo senza più tornare, non avrebbe reagito così. Lo ha fatto, come ha detto lui, perché non sapeva e non poteva immaginare se avessero davvero finito o se invece volessero tornare indietro. Facile fare previsioni a fatti già compiuti».
Ma anche i rapinatori hanno i loro diritti? «Per carità. Tutti i cittadini hanno i loro diritti ma se fai irruzione con un’arma in un negozio e minacci qualcuno, sei tu che decidi di mettere in discussione i tuoi diritti».
Sulla severità della pena e sul risarcimento faraonico, poi, Bignami è lapidario. «C’è una proposta di legge di Raffaele Speranzon, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, che propone di ridurre fino ad azzerare il risarcimento dovuto da chi è punito per eccesso colposo di legittima difesa».
Chi lavora e protegge la propria vita non può essere trattato come un criminale. La giustizia deve tornare a distinguere tra chi aggredisce e chi si difende.
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Ansa
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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