
L'Indonesia blocca le esportazioni dell'olio di palma
Il prezzo dell'olio di palma vola sui mercati internazionali dopo la decisione dell'Indonesia di vietare tutto l'export di olio da cottura allo scopo di contrastarne la carenza sul mercato locale. La decisione diventerà effettiva dal prossimo 28 aprile e resterà in vigore fino a quando il problema non verrà risolto, hanno fatto sapere le autorità del Paese asiatico, che è il primo produttore mondiale di olio di palma.
La decisione potrebbe provocare problemi all'industria alimentare globale che ne fa largo uso e aumentare la corsa dei prezzi. I future con consegna a luglio hanno segnato, intanto, un rialzo del 6,3% a 6.754 ringgit alla tonnellata sul mercato di Kuala Lumpur. La decisione di bloccare l'export di olio di palma era stata annunciata venerdì scorso dal presidente dell’Indonesia Joko Widodo. «Continuerò a monitorare e valutare l'implementazione di questa misura affinchè la fornitura domestica di olio da cottura sia abbondante e il prezzo accessibile», aveva detto Widodo.
LA DECISIONE
La stretta si aggiunge a quelle varate da altri Paesi nel mondo dopo lo scoppio della guerra in Ucraina per assicurare ai propri cittadini le forniture di generi alimentari, come ad esempio l'Argentina, altro produttore importante di olio vegetale, che ha alzato le tasse per l'esportazione di olio di soia. La scarsità di olio di semi di girasole, a causa della guerra in Ucraina, dove veniva prodotta gran parte della materia prima, aveva rilanciato, infatti, le vendite degli altri oli, tra tutti quello di palma. I due principali esportatori, in questo caso, sono Malesia e Indonesia e i principali acquirenti sono Cina e India.
Le ristrettezze imposte dal governo asiatico potrebbero ora rimettere tutto in discussione. Sempre per quanto riguarda l’olio di palma, Ferrero ha fatto sapere che interromperà gli approvvigionamenti dalla piantagione di Sime Darby, area commerciale della Malesia, a causa delle pratiche di lavoro forzato. L’olio di palma è utilizzato dalla Ferrero per fare la Nutella e diversi tipi di cioccolatini, come i Ferrero Rocher. Sime Darby rappresenta per la multinazionale italiana, comunque, un piccolo fornitore da cui si approvvigiona per lo 0,25% dell’olio di palma.
La filosofia si nutre di pasta e fagioli, meglio se con le cotiche. La filosofia apprezza molto l’ossobuco alla milanese con il ris giald, il riso allo zafferano giallo come l’oro. E i bucatini all’amatriciana? I saltinbocca alla romana? La finocchiona toscana? La filosofia è ghiotta di questa e di quelli. È ghiotta di ogni piatto che ha un passato, una tradizione, un’identità territoriale, una cultura. Lo spiega bene Diego Fusaro, filosofo, docente di storia della filosofia all’Istituto alti studi strategici e politici di Milano, autore del libro La dittatura del sapore: «La filosofia va a nozze con i piatti che si nutrono di cultura e ci aiutano a combattere il dilagante globalismo guidato dalle multinazionali che ci vorrebbero tutti omologati nei gusti, con le stesse abitudini alimentari, con uno stesso piatto unico. Sedersi a tavola in buona compagnia e mangiare i piatti tradizionali del proprio territorio è un atto filosofico, culturale. La filosofia è pensiero e i migliori pensieri nascono a tavola dove si difende ciò che siamo, la nostra identità dalla dittatura del sapore che dopo averci imposto il politicamente corretto vorrebbe imporci il gastronomicamente corretto: larve, insetti, grilli».
La data da segnare con il circoletto rosso nell’agenda finanziaria è quella del 3 dicembre. Quando il presidente del consiglio, Giorgia Meloni, parteciperà al quarantaseiesimo vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), su espressa richiesta del re del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa. Una presenza assolutamente non scontata, perché nella Penisola araba sono solitamente parchi con gli inviti. Negli anni hanno fatto qualche eccezione per l’ex premier britannica Theresa May, l’ex presidente francese François Hollande e l’attuale leader cinese Xi Jinping e poco altro.














