I carabinierii e la Scientifica sul luogo della rapina alla gioielleria Mario Roggero (nel riquadro) a Grinzane Cavour, Cuneo, 28 aprile 2021 (Ansa)
Società civile ed esponenti politici si muovono per Mario Roggero. I familiari dei ladri uccisi vogliono tre milioni di risarcimento.
Ha reagito all’assalto di una banda di rapinatori e si è beccato una condanna a 14 anni di carcere per duplice omicidio. Ha già versato 300.000 euro ai parenti dei suoi assalitori che adesso, non soddisfatti, pretendono oltre tre milioni di risarcimento. Ha affrontato le spese legali di due processi - con perizie, consulenze e visite mediche - e presto dovrà ricorrere in Cassazione per far valere, in tribunale, il suo diritto a difendersi nella vita reale da una rapina.
È una condanna economica già scritta quella che pesa sulle spalle di Mario Roggero, che - beffa nella beffa - rischia di finire sul lastrico con tutta la sua famiglia. Per sostenerlo è partita una raccolta fondi, promossa dai comitati spontanei «Io sto con Roggero», da tanti cittadini e, tra gli altri, anche da Marco Rizzo, leader di Democrazia sovrana e popolare, e dal generale Roberto Vannacci, vicesegretario federale della Lega.
La storia di Roggero, infatti, al di là delle sentenze e dei sofismi giudiziari, continua a sconvolgere chiunque si metta, davvero, per un attimo, nei suoi panni. Il gioielliere, 72 anni, il 28 aprile del 2021, alla quinta rapina subita di cui una violentissima qualche anno prima, davanti a tre uomini che impugnavano un’arma entrati nel suo negozio e che hanno immobilizzato moglie e figlia, ha reagito sparando, fuori dal locale, uccidendo due malviventi e ferendone un terzo. Già condannato in primo grado a una pena di 17 anni e un primo versamento a favore dei familiari dei rapinatori, lo scorso 3 dicembre è stato ritenuto ancora colpevole dalla Corte d’Assise d’appello di Torino per duplice omicidio volontario: 14 anni e nove mesi, con la parte civile che pretende ora un risarcimento di oltre tre milioni.
Intorno alla sua vicenda sono nati comitati spontanei e gruppi social, e le manifestazioni di solidarietà sono state così tante che lui stesso si è detto stupito. Ora quella solidarietà diventa anche gesto concreto. «Chi viene aggredito ha solo pochi secondi per decidere, chi giudica ha anni per riflettere. La difesa si vive in un millisecondo, nel buio di una strada o sotto il porticato di una stazione. In quegli istanti non sei un avvocato, non sei un giudice. Sei solo un essere umano che cerca di tornare intero dai propri figli e dalla moglie o di salvarli», ha scritto Vannacci nel post su Facebook con il quale rilancia l’iniziativa, «Non è ideologia, è istinto primordiale. Chiedere a una vittima di essere “proporzionata” mentre il cuore batte a duemila è come chiedere a chi annega di misurare la temperatura dell’acqua. Serve una giustizia che protegga chi subisce, non che lo processi per aver avuto paura. Io sto con Mario, se i rapinatori non fossero entrati nel suo negozio per rapinarlo ora vivrebbero felici».
E con lui anche Rizzo: «Io sto con Roggero e aderisco alla richiesta di solidarietà da parte dei suoi legali. La morte non si augura a nessuno, neanche a un rapinatore. Ma la questione è quella di percepire, in un momento così concitato di una efferata rapina, quanto un soggetto aggredito abbia la mente lucida da interrompere la legittima reazione, appena varcata la soglia del luogo dell’aggressione. È del tutto evidente che Roggero spara nell’atto di difendere ancora la sua famiglia. E questo non è omicidio volontario. In un Paese dove uno scafista, condannato a 30 anni, viene graziato, si può davvero stare attivamente dalla parte di un onesto lavoratore che ha solo difeso i suoi cari ed il suo lavoro».
Nell’ultima seduta del Consiglio comunale di Alba, sette rappresentanti della minoranza, su iniziativa di Lorenzo Barbero, consigliere della Lega, hanno deciso di devolvere il proprio gettone di presenza per la causa. Barbero ha anche lanciato un appello pubblico promuovendo una raccolta firme istituzionale: «Un gesto dal valore simbolico il nostro, ma che vuole esprimere vera solidarietà umana».
Senza fare i conti in tasca al gioielliere, ma solo ragionando a spanne, le cifre già versate per questa faccenda sono da capogiro: Roggero, prima ancora della sentenza di primo grado, aveva versato ai parenti dei rapinatori un parziale risarcimento, per rispondere alla provvisionale esecutiva stabilita dai giudici di circa 500.000 euro, oggi la richiesta è salita a tre milioni di euro, mentre solo le spese legali da corrispondere ai legali di parte civile, come da sentenza d’appello, ammontano a oltre 30.000 euro. Tutti soldi che Roggero non ha, come ha dichiarato lui stesso ospite a Fuori dal coro: «Ho già tirato fuori 700.000 euro - ha detto - di cui 300.000 euro di risarcimento. Loro (i parenti dei rapinatori, ndr) hanno detto no ad altri 480.000 euro con cui avrei sperato di chiudere definitivamente tutto. La somma che mi chiedono io non ce l’ho neanche vendendo tutto e andando a dormire sotto i ponti. Mi chiedo che cosa succederà, che cosa farò, quale sarà il mio futuro».
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Alfredo Mantovano (Ansa)
Vengono riparametrate le sanzioni e allargato il potere preventivo di controllo. Centrodestra compatto, Pd e M5s gridano al golpe.
Grideranno al colpo di Stato contabile, ma hanno la voce fioca. Perché, com’è già successo con la cancellazione del reato di abuso d’ufficio, sindaci e assessori del Pd e dei 5s non vedevano l’ora di scrollarsi di dosso il fantasma dei giudici contabili. È passata al Senato in via definitiva con 93 sì, 51 contrari e cinque astenuti - Italia viva - la cosiddetta riforma della Corte dei Conti - primo firmatario il ministro per gli affari europei e il Pnrr Tommaso Foti - che non intacca le prerogative dei giudici contabili, anzi le rafforza in tema di parere preventivo sulle spese pubbliche, ma manda in pensione la presunzione di colpevolezza di amministratori e funzionari pubblici.
Il senatore del Pd Antonio Misiani accusa: «Altro che riforma, è un attacco frontale ai controlli di legalità e all’equilibro die poteri. Alla Corte dei Conti imputano il no al Ponte sullo Stretto». È lo stesso Misiani che definì «paradossale e assurda» la richiesta da parte dei giudici contabili di licenziamento di un professore lombardo multato perché aveva fatto la pipì in un cespuglio a bordo strada. Ha ragione il relatore di maggioranza Pierantonio Zanettin (Forza Italia) a dire: «Con questo provvedimento, che trae spunto da una sentenza della Corte Costituzionale, vogliamo evitare la stasi degli uffici pubblici. È un obiettivo condiviso dalla maggioranza degli amministratori a prescindere dal colore politico».
Eppure dai pentastellati si alzano alti lai. Roberto Cataldi a Palazzo Madama grida: «Date il via libera a qualsiasi forma di illegalità; questa legge è incostituzionale: vìola l’articolo 100 della Carta che vuole la Corte dei Conti indipendente». Chissà che ne pensano le professoresse di Venezia condannate perché hanno rottamato gli inutili banchi a rotelle comprati dal ministro Lucia Azzolina ai tempi del Covid su cui indaga la Corte dei Conti europea, ma la nostra tace. Quanto alla Costituzione l’articolo 100 sancisce: «La Corte dei Conti partecipa nei casi e nelle forme stabilite dalla legge al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce». Dunque la legge può modificarne l’attività a piacimento.
L’opposizione però racconta che si fa pagare all’organo di cui è presidente Guido Carlino, assai vicino a Sergio Mattarella, lo sgarbo sul Ponte di Messina a cui i giudici contabili hanno negato la legittimità. Peccato che Franco Bassini, l’ispiratore di tutte le riforme amministrative targate prima Pci e poi Pdi, abbia candidamente ammesso: «Dal Ponte sullo Stretto al caso Milano la Corte deve controllare la legittimità, non sostituirsi al decisore politico valutando il merito delle scelte, questa riforma va nella giusta direzione».
E qual è? Lo spiega il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano: «Vi è stata una costante interlocuzione con rappresentanti della Corte dei Conti che ha permesso di modificare più di una delle norme e non c’è nessuna vendetta per il Ponte. Il pronunciamento dei giudici è di un mese fa, la riforma è partita nel 2023. Si tratta di decidere se essere ipocriti o meno; siamo stati abituati ad accertamenti contabili stratosferici, il cui solo limite era di non andare mai a compimento se non per minime parti».
E qui c’è il merito delle norme. Si limita al 30% del danno accertato il rimborso, al massimo è possibile lasciare il funzionario senza stipendio per due anni e si punisce solo il dolo non la colpa grave, ma si obbligano gli amministratori a stipulare un’assicurazione che li copre in caso di condanna e rende certo l’incasso per lo Stato.
In cambio, ai giudici viene ampliata la competenza consultiva e preventiva sugli atti. E per dirla col ministro Foti: «La riforma per sconfiggere la paura della firma che di fatto blocca il lavoro della pubblica amministrazione. Da oggi lo Stato vigila, non paralizza».
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Il riconoscimento della nostra cucina Patrimonio dell’umanità ha scatenato i detrattori: c’è il giornalista inglese che la bolla come «bugia» o l’accademico tricolore che sentenzia che il grana sia nato in America.
Ci piace immaginare che lassù, nell’Eden dei sapienti, un profeta e un custode delle tradizioni culinarie e gastronomiche italiane, Pellegrino Artusi e Orio Vergani, seduti a una tavola apparecchiata con tovaglie di Fiandra (in quel paradiso, a differenza di certi ristoranti italiani stellati e no, le tovaglie si usano ancora), abbiano festeggiato il riconoscimento dell’Unesco alla cucina italiana elevata a Patrimonio immateriale dell’umanità. Un Patrimonio che entrambi hanno salvaguardato portando alla sua costruzione immateriali, ma solidi mattoni del sapere, della cultura e dell’amore per il cibo. Ci piace anche immaginare che allo stesso tavolo, a festeggiare, si siano seduti anche due santi: San Francesco Caracciolo, patrono dei cuochi e della cucina italiana, e San Pasquale Baylon, protettore dei pasticcieri che lo considerano l’inventore dello zabaione. Sicuramente i due santi con l’aureola fatta con un’invitante crosticina dorata il primo, con la panna montata il secondo, una spintarella nel momento della decisione a New Delhi, lo scorso 10 dicembre, l’hanno data.
Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
L’ad di Yamamay Gianluigi Cimmino: «L’artista ha un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici. Per vendere la pubblicità non basta: bisogna essere impeccabili su prodotto, prezzo e assortimento. I testimonial della svolta? Jennifer Lopez e Cristiano Ronaldo».
Musica, sport e icone contemporanee: Yamamay continua a parlare alle nuove generazioni attraverso volti riconoscibili e linguaggi autentici. Con Rose Villain come nuova testimonial, il brand rafforza il proprio posizionamento e conferma una strategia che unisce identità, innovazione e coerenza. Ne abbiamo parlato con Gianluigi Cimmino, ad di Yamamay, che ci ha raccontato scelte, visione e prospettive future del marchio.
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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