Ansa
Violenti tafferugli durante il corteo degli antagonisti in seguito alla chiusura del centro sociale. Un gruppo di incappucciati lancia bottiglie sulle forze dell’ordine, che impiegano gli idranti. Nove poliziotti feriti.
Nel centro di Torino, trasformato dalla protesta per lo sgombero del centro sociale Askatasuna in una zona attraversabile solo a colpi di slogan e bandiere rosse, quando sono comparsi i volti coperti dai passamontagna e le prime file sono arrivate a contatto con la polizia, è scoppiata la guerriglia. Cassonetti in fiamme, lancio di sassi e di fuochi d’artificio contro i reparti mobili. La risposta dello Stato: cariche, idranti e lacrimogeni. Quasi un’ora di battaglia in corso Regina Margherita, all’angolo con via Vanchiglia. Città paralizzata, piazza Vittorio e ponti blindati, agenti colpiti mentre tenevano la linea: in nove, colpiti con oggetti contundenti, sono rimasti feriti. Pochi istanti prima, dal corteo pro Askatasuna, annunciato, atteso e temuto, quello che avanzava come un lungo serpentone di famiglie, studenti e volti noti del centro sociale, proprio come era stato previsto, è emersa la falange di facinorosi.
Il terreno era stato preparato a colpi di retorica. Gli slogan degli attivisti: «Il governo Meloni cerca di piegare questa città, medaglia d’oro per la resistenza». Torino «è partigiana e si è sempre schierata». E ancora: «In piazza ci sono giovani, famiglie e persone che si riconoscono in un progetto collettivo». Parole. Poi arrivano i fatti. Quando il corteo imbocca corso Regina Margherita, qualcosa cambia. All’angolo con via Vanchiglia il corteo, con un passaggio secco, muta pelle. Spuntano i caschi, le sciarpe salgono sul volto. Il manuale della piazza antagonista, quello che dimostra che gli scontri non sono un incidente di percorso ma il percorso, viene applicato alla lettera. Nel corteo c’è anche la pasionaria No Tav Nicoletta Dosio. Rivendica una storia che parte dal 1999 e assicura che quella «resistenza» continuerà. Richiama la presenza dei «nuovi vecchi partigiani», citando Prosperina «Lisetta» Vallet, la cui gigantografia in bianco e nero posta sul furgone di apertura del corteo era stata rimossa dallo stabile di Askatasuna, «perché anche le immagini fanno paura ai fascismi». Gli organizzatori rivendicano al microfono 10.000 presenze (circa 3.000 sono quelle stimate dalla questura). Dagli altoparlanti parte un messaggio di solidarietà del fumettista Zerocalcare: «Non immagino Torino senza Askatasuna e spero che questo non accadrà mai». Ma ci sono anche volti istituzionali. Il segretario della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, tra i garanti del patto saltato con il Comune sull’edificio di corso Regina Margherita 47, quello occupato da Askatasuna, dice di pensare «che il Comune deve riprendere quella strada, che è una strada di dialogo». Parla di «mediazione sociale». Pochi minuti dopo è il caos. Seguito dalle lacrime di coccodrillo. «Desideriamo condannare con fermezza gli episodi di violenza che si sono verificati durante il corteo di oggi, esprimendo solidarietà e vicinanza alle forze dell’ordine coinvolte nei disordini, chiamate ad operare in un contesto molto complesso e delicato, ai commercianti e a tutte le cittadine e i cittadini che hanno vissuto disagi, peraltro a pochi giorni dal Natale», dice il sindaco di Torino Stefano Lo Russo (nella cui giunta c’è un assessore di Alleanza dei Verdi e Sinistra, Jacopo Rosatelli, che ha preso parte al corteo). Ormai viene bollato come un «infame» dai manifestanti ai quali nei mesi scorsi aveva strizzato l’occhio. Dopo gli scontri, quando è tornata la calma, un gruppetto di attivisti ha proiettato sui palazzo di piazza Vittorio Veneto le scritte «Sbirri di m.... Aska libero». Poi: «Meloni dimissioni». E infine: «Sindaco Lo Russo servo infame». A riportare la questione sul binario è il segretario del sindacato di polizia Coisp Domenico Pianese: «A Torino siamo di fronte alla pretesa di imporre l’illegalità come metodo politico e di dichiarare guerra allo Stato». Mentre la sinistra, quella che aveva tollerato il patto con gli attivisti del centro sociale, e i sindacati restano in silenzio. Dai vertici del centrodestra, invece, la condanna è dura. Matteo Salvini: «Da una parte donne e uomini in divisa, che difendono la legalità, dall’altra i soliti violenti, figli di papà frustrati e falliti, che hanno mandato sette (poi diventati nove, ndr) agenti all’ospedale. Lo sgombero di Askatasuna è solo l’inizio, ruspe sui centri sociali covi di delinquenti». Galeazzo Bignami, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, punta il dito: «La sinistra dovrebbe vergognarsi. Ha dimostrato ancora una volta di non avere senso delle istituzioni, sfilando al corteo con chi oltraggia ogni giorno lo Stato e i suoi rappresentanti». Per Antonio Tajani «è la dimostrazione» che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi (che in serata ha telefonato al capo della polizia Vittorio Pisani per informarsi sulle condizioni degli agenti feriti a Torino) «ha fatto bene». Poi ha aggiunto: «Se il centro sociale diventa il luogo dove si organizzano gli attacchi alle forze dell’ordine è giusto che il governo abbia preso una decisione ferma, non c’è libertà senza legalità». Perfino il leader di Azione Carlo Calenda usa toni pesanti: «Askatasuna è un gruppo violento e intollerante che è stato per troppo tempo tollerato. Vanno sciolti e perseguiti se compiono reati».
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Theodoris Kyriakou (Getty Images)
Antenna Group, in trattativa per rilevare i giornali di Elkann (Gedi), annuncia che investirà a lungo nel nostro Paese: «È uno dei pochi Stati che offre stabilità politica e prospettive di crescita». Ma l’universo di sinistra vuole farla scappare.
Succede anche questo, nel grande teatro dell’informazione italiana: arrivano i greci e spiegano con serietà, pacatezza e persino una certa eleganza perché investire in Italia è una buona idea. Comprano (o trattano per comprare) Repubblica, cioè il cuore simbolico dell’impero Gedi di John Elkann, e dicono che lo fanno perché l’Italia è un Paese stabile, con prospettive di crescita e un giornalismo di qualità. Una frase che, messa così, suona quasi come una provocazione.
Sì, perché mentre Antenna Group, colosso greco dei media, guarda a Roma e Milano come a una scommessa di lungo periodo, qui da noi una parte dell’universo progressista sembra impegnata in una missione opposta: spiegare ai greci che stanno sbagliando, che non hanno capito niente, che questo Paese non è all’altezza. Altro che accoglienza degli investitori stranieri: qui si alza il ponte levatoio. Eppure i greci - che di crisi se ne intendon - dicono cose semplici. Dicono che l’Italia è uno dei pochi Stati europei che oggi offre stabilità politica. Un sistema che regge, che governa, che decide. In un’Europa attraversata da elezioni anticipate, governi balneari e maggioranze liquide, Roma appare improvvisamente come un porto sicuro. Ironia della storia: ci scopriamo stabili quando smettiamo di raccontarci instabili.
Antenna non parla di una scorribanda finanziaria, ma di una scelta industriale di lungo periodo. Parola grossa, quasi sospetta, in un Paese abituato ai fondi mordi-e-fuggi. Qui, invece, il messaggio è chiaro: investire in Italia perché il mercato è aperto, favorevole, accogliente per chi vuole costruire. E perché l’informazione italiana resta una delle poche in Europa con una tradizione riconosciuta di giornalismo indipendente. Detto dai greci, non da qualche patriota fuori tempo massimo.
Non solo. Antenna parla di affinità storica e culturale, di un legame che va oltre la pura logica commerciale. Insomma, non arrivano per colonizzare, ma come l’editore che vuole far crescere ciò che trova. Garantiscono - nero su bianco, nelle dichiarazioni - indipendenza, rispetto delle sensibilità culturali, continuità della collocazione del giornale. Repubblica resterà Repubblica. Non diventerà né un bollettino governativo né una dependance di Atene.
E allora dov’è il problema? Il problema è tutto politico e simbolico. Per una parte della sinistra italiana l’idea che un gruppo straniero dica che l’Italia funziona è quasi un affronto. Come se il racconto del Paese malato fosse diventato una rendita di posizione. Se qualcuno arriva e dice che l’Italia cresce, attrae capitali, ha giornalisti competenti e un mercato dinamico, scatta l’allarme: così ci rovinano la narrazione.
C’è poi il riflesso pavloviano sull’«editore straniero», come se l’italianità dell’informazione fosse stata finora custodita da mani immacolate. Dimenticando che Repubblica è già passata da De Benedetti a Elkann senza che il mondo finisse, e che la vera indipendenza non dipende dal passaporto dell’azionista ma dalle regole, dai contratti, dalla solidità industriale.
I greci, intanto, guardano avanti. Parlano di media capaci di espandersi a livello globale, di un pubblico che non si riconosce più in un’offerta sempre più polarizzata e urlata, di uno spazio crescente per notizie credibili, affidabili, di qualità. È una diagnosi che coincide, curiosamente, con quella fatta da anni dagli stessi editorialisti che oggi storcono il naso.
E qui sta il paradosso finale, degno di una commedia attica: la sinistra che difende l’indipendenza dell’informazione cercando di sabotare un investimento che la garantisce, e i greci che difendono il giornalismo italiano spiegando che è uno dei suoi punti di forza. Capovolgimento perfetto.
Antenna Group parla addirittura di un campione europeo dei media, di un progetto continentale che parta dall’Italia. In un momento in cui l’Europa discute di sovranità informativa e di pluralismo, c’è chi prova a costruire e chi preferisce gridare al complotto.
Forse, alla fine, la notizia non è che i greci comprano Repubblica. La vera notizia è che c’è ancora qualcuno che guarda all’Italia senza complessi, senza autodenigrazione, senza la tentazione masochista di raccontarsi sempre peggio di come è. E questo, per una parte del dibattito pubblico, è imperdonabile.
I greci investono perché l’Italia è in salute.
Il problema è che non tutti vogliono ammetterlo.
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Nei laboratori Dolomia. Nel riquadro, Massimo Slaverio
Il presidente del comitato esecutivo di Unifarco, la spa che realizza i prodotti Dolomia: «Estraiamo il meglio delle sostanze vegetali impattando il meno possibile sull’ambiente. Prediligiamo la filiera a km zero. L’ingrediente segreto è l’acqua che sgorga dalla roccia».
Dolomia nasce da una storia che profuma di natura, ricerca e passione. Tutto ha origine tra le montagne bellunesi dove un farmacista, affascinato dalle proprietà delle piante officinali delle Dolomiti, inizia a studiarne i benefici per la pelle. Da quell’intuizione prende forma un progetto che oggi vive all’interno di Unifarco spa, realtà italiana d’eccellenza nella dermocosmesi. Dolomia è l’incontro tra la forza silenziosa delle montagne e il rigore scientifico, tra ingredienti di origine naturale e competenza farmaceutica. Ripercorriamo il suo percorso con Massimo Slaviero, presidente del comitato esecutivo del gruppo Unifarco, supportato da Gianni Baratto, direttore scientifico.
Ci racconta la storia di Dolomia?
«Dolomia entra in farmacia nel 2001 con il make up e con l’obiettivo di permettere alle persone di valorizzarsi con le luci e i colori eleganti delle Dolomiti attraverso prodotti estremamente sicuri per tutte le pelli e gratificanti nella durata e nell’applicazione. Lo studio delle virtù delle piante dolomitiche, la ricerca di metodi estrattivi sostenibili e lo studio continuo della fisiologia della pelle hanno fatto nascere il laboratorio estratti in connessione con il laboratorio cosmetico. Questo ci ha permesso di funzionalizzare il make up e di sviluppare una linea di fitocosmesi che porta la quintessenza della natura sulla pelle».
Come è nato il brand?
«Tutto è partito dall’ammirazione dei colori delle albe e dei tramonti, della natura nelle varie stagioni, delle giornate con le nebbie fitte e i varchi di sole, dalle passeggiate in montagna in cui osservavo i boschi di faggi, abeti, larici ed i prati fioriti. Ho sentito che dovevo mettere a disposizione delle persone la natura esaltata dalla totipotenza delle piante e il benessere che infonde».
Perché avete scelto il nome Dolomia?
«È un tributo a una donna che doveva incarnare la bellezza delle Dolomiti, l’ho pensata come una figlia che doveva crescere e incarnare il concetto di bellezza maestosa e vicina».
C’è un legame con il territorio?
«La nostra azienda è nata e cresciuta alle pendici del Parco nazionale delle Dolomiti bellunesi, un luogo che ci ha ispirati, fonte di materie prime naturali potentissime perché custodisce una biodiversità e un patrimonio naturale unici».
Cosa distingue Dolomia dagli altri marchi sul mercato?
«Dolomia è l’unico brand italiano formulato con le risorse naturali delle Dolomiti potenziate dalla ricerca scientifica. La sua ricerca si specializza sull’impatto dell’esposoma sulla pelle e crede nella decontaminazione cutanea come fondamento di ogni routine cosmetica, realizzando cosmetici attivi contro tutte le dimensioni dell’inquinamento moderno: naturale emotivo, comportamentale».
Qual è la filosofia che guida lo sviluppo dei vostri prodotti?
«In particolare abbiamo sviluppato un metodo esclusivo, natural balance, associazione di potenti fitocompessi per attivare a livello della cellula cutanea fasi di detossinazione da scorie e tossine e fasi di riossigenazione. Altra grande peculiarità di Dolomia è la ricerca avanzata del nostro laboratorio cosmetico di formulazioni multisensoriali che, attraverso lo stimolo di neuro recettori cutanei, favorisce il benessere psico fisico e amplifica il beneficio dei principi attivi».
Come avviene è la scelta degli ingredienti e dei processi produttivi?
«I nostri ingredienti principali, oltre ai minerali, sono le piante dolomitiche estratte con metodi innovativi e bio-tecnologici che permettono di estrarre il meglio delle sostanze vegetali impattando il meno possibile sull’ambiente. Prediligiamo la coltivazione a km zero, dove non è possibile la coltura meristematica oppure le filiere di up cycling. Il nostro laboratorio estratti segue tutta la filiera produttiva: collabora con i coltivatori locali per le piante che devono nascere a una certa altitudine per sviluppare potenti sostanze di difesa, con istituiti di ricerca per innovare continuamente i metodi di estrazione e con il nostro spin off dell’Università di Padova».
Quali sono i principali elementi naturali che utilizzate e perché?
«I nostri ingredienti sono le piante dolomitiche. Vegetali estremamente ricchi di sostanze vitali per due ragioni: primo, sono nate in un ambiente climaticamente ostile che le ha rese tenaci in termini di antiossidanti; secondo, perché sono alimentate da un’acqua speciale, quella che sgorga nella roccia dolomia è vitalizzata perché, nel suo percorso, si arricchisce di oligoelementi e minerali di cui la roccia stessa è formata».
I benefici di alcuni ingredienti chiave?
«La radice di tarassaco, presente in ogni formulazione Dolomia, è il più potente attivo vegetale capace di filtrare gi agenti inquinanti. La scutellaria alpina, specie d’alta quota, nei suoi petali custodisce flavonoidi, molecole idratanti e rivitalizzanti, è un potente antistress per la pelle. C’è la nostra rosa prima, i cui germogli sono ricchissimi di sali minerali, polisaccaridi, lipidi che nutrono a fondo la pelle. La corteccia di abete rosso è ricca di lignani, composti fortissimi nel limitare i danni dai radicali liberi».
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2025-12-20
Da veloce pelapatate al risotto alla beduina. Parte dal Cadore la scalata del sior Dino
Dino Boscarato
Dino Boscarato è uno dei grandi ambasciatori della cucina italiana. Ha avuto una vocazione nata e fortificata con mamma e papà.
Il recente riconoscimento fatto dall’Unesco alla cucina Italiana quale patrimonio immateriale per l’umanità apre diversi scenari su quello straordinario aspetto di un Bel Paese dalle molte bellezze, tra storia, arte, cultura, paesaggi che poi trovano immancabile, nel visitatore curioso, il goloso centro di gravità permanente attorno a tavola dedicata, con piatti e relative tradizioni che variano da regione a regione, da campanile a campanile.
Ne consegue che un patrimonio di tale genere necessiti di ambasciatori dedicati che lo sappiano trasmettere e valorizzare. Ambasciatori di cui molti sono stati pionieri che non vanno dimenticati per il valore che hanno saputo dare alla nostra cucina, spesso con iniziative a darle contorno che fanno parte della nostra storia applicata alla cultura materiale, che è una delle felici definizioni abbinata alla cucina, intesa non solo come caricabatterie calorica del nostro vivere quotidiano, ma cinghia di trasmissione verso molto altro.
Dino Boscarato è uno di questi, meglio conosciuto ai palati di lungo corso come mister all’Amelia, in quel di Mestre, l’avamposto veneziano in terraferma. Una bella storia del Nordest fatto di passione, tenacia e quel tocco di visionaria creatività che fa la differenza. Un mondo fatto rivivere in queste settimane presso una delle sale di M9, il Museo del Novecento di Mestre dove, con una riuscita narrazione documentaria, si riscopre la bella avventura umana e professionale di sior Dino, come veniva al tempo chiamato da tutti Dino Boscarato. Nasce in quel di Conegliano nel 1928, ultimo di quattro figli. Neanche il tempo di imparare a camminare con le sue gambe che papà Ottavio e mamma Luigia rilevano la conduzione di un albergo nella piccola San Vito di Cadore, porta d’entrata verso Cortina.
Testa bassa e pedalare, tanto che il nostro Dino già a sette anni è un abilissimo pelapatate al servizio della cucina. Motivazione sostenuta dall’incoraggiamento del prete del suo collegio: «Ragazzi, mangiate tante patate così diventerete intelligenti». Anche perché c’era poco altro a disposizione per crescere robusti, se non di intelletto, senz’altro di braccia che poi, qualche anno dopo, con i fratelli, lo portarono a fare il taglialegna nei boschi attorno al paese. Perché la cucina di mamma Luigia aveva bisogno di «carburante» per i fornelli che andavano a scaldare pentole e tegami per i piatti da servire ai turisti che arrivavano dalle città. Papà Ottavio viene a mancare nel 1943 e il quindicenne Dino diventa adulto anzitempo. Aiuta la mamma nella gestione amministrativa, nell’accoglienza, nelle missioni più rischiose, quando con l’occupazione tedesca procurarsi il sale per la cucina diventa una battaglia quotidiana, anche per il dilagare del contrabbando clandestino.
Ma il nostro ha tempra da vendere tanto che, mentre in famiglia lo vorrebbero ingegnere, negli anni Cinquanta, con il fratello Tarcisio, rileva un albergo a San Vigilio di Marebbe, unici italiani in una comunità a maggioranza tirolese. Dino rivela subito la sua marcia in più, fatta di amore per la vita e capacità di dare sostanza ai sogni. Nelle serate vacanziere intrattiene i suoi ospiti divertiti come animatore di tornei di carte, sfide barzellettanti, ma anche con una cucina che scalda gli animi e la panza conseguente quando mezzanotte fa l’occhiolino tentatore. Ed ecco che, con degni compagni di ventura, si sbizzarriscono a viaggiare di spaghettate o spadellate di salsiccia e polenta. Esperienza che tornerà utile quando meno te l’aspetti.
Una sera d’estate, in piena stagione, la cuoca responsabile si ammala. La cucina è vuota, nessun supplente nel raggio di chilometri. Dino e i suoi amici turisti si danno da fare. Imbracciano i mestoli e, con i grembiuli d’ordinanza, agli ospiti seduti a tavola arrivano i piatti insospettabili, quelli di sempre in condizioni normali. È uno dei primi esempi che seguiranno nella vita di Dino Boscarato, ovvero quella sua straordinaria abilità di trasmettere passione ed entusiasmo abbinati alla capacità di fare squadra per una missione comune. Inevitabile il passo conseguente. Vicino a San Vito di Cadore vi è la possibilità di rilevare un piccolo chalet posto sulle rive del laghetto di Mosigo. Un ritrovo del bien vivre vacanziero con Cortina a quattro passi. La ricetta è una calamita per il ritorno seriale. Feste danzanti, cacce al tesoro abbinate ai profumi di una cucina che dà ulteriore motivazione a scoprirne le molte bellezze, soprattutto femminili, che ne fanno cornice. Se è vero che al sole estivo venivano a trovare discreto riposo volti quali Mariano Rumor o Aldo Moro, la sera scattava la marcia in più. Feste danzanti con un promettente Fred Bongusto a scaldare gli animi. I pittori della scuola di Burano guidata da Virgilio Guidi in missione a ritrarre le bellezze del momento con la soprano Toti Dal Monte spesso modella per una sera. Arte e spettacolo a braccetto con Lino Toffolo che intrattiene gli ospiti come a teatro.
Boscarato si inventa una veneziana Festa del Redentore in trasferta dolomitica e pure di calendario, ovvero da fine luglio spostata a Ferragosto. Un manipolo di orchestrali della Fenice rende il dovuto onore a una sfilata di aspiranti miss su piccole barchette allegoriche ridisegnate per l’occasione. Una per tutte, un’«enorme» capasanta con una bellezza locale in costume da bagno tutta spruzzata di porporina i cui riflessi argentei si spandevano, grazie alla luna, sulle acque del lago ma, soprattutto, sulle pupille eccitate degli astanti. E qui Boscarato dava il colpo di grazia finale con il «risotto alla beduina». Andiamo oltre gli scontati spaghetti di mezzanotte. Tutti gli ospiti dovevano sedersi a terra, al centro della sala da ballo, mentre in cucina Dino e i suoi preparavano degno risotto per l’occasione che poi veniva servito in apposita scodella ai «beduini» che se ne stavano seduti come sotto le loro tende nel deserto.
I tempi cambiano, il nascente boom economico apre le porte di molti sogni, l’importante è darsi da fare per raggiungerli. Con un amico, Dino va a Monaco di Baviera dove sembra si possa rilevare una importante gelateria in pieno centro. In fondo, la tradizione dei gelatai del Cadore in trasferta nordica è storia di lungo corso, come le ricchezze giustamente guadagnate in terra foresta. Qualcosa, però, non funziona e Dino torna mesto all’albergo di mamma Luigia a San Vito. Qui scatta il core de mamma che, avendo intuito il talento del suo ragazzo, attiva una storica conoscenza che aveva con un amico veneziano, Umberto Spolaor. Poco fuori Mestre, al tempo periferia dal tratto incerto della nobile Venezia lagunare, si trova una vecchia trattoria gestita dalla signora Amelia, da cui aveva preso il nome. Niente di che, era nata nel primo dopoguerra come stazione di sosta per i cavalli che trainavano i carretti lungo la riviera del Brenta. Cucina molto familiare. Trippe o poco più. Pasta e fagioli, arrosti, qualche anatra ripiena.
La signora Amelia, oramai, voleva deporre il mestolo di comando e affidare la sua creatura, mandata avanti con sudore e sacrificio, a degno erede. Le premesse erano sostenute dalle migliori condizioni. Da trattoria di campagna stava progressivamente entrando nel perimetro di espansione urbana di una Mestre in pieno boom edilizio, tanto che all’Amelia era una delle sedi preferite per le ganzéghe, sorta di celebrazioni edilizie in cui, alla fine dei lavori, titolari e maestranze si ritrovavano per festeggiare la posa dell’ultima tegola sul tetto di case e palazzi sempre più a crescita verticale. E così era per i matrimoni dove, per una volta, le famiglie non badavano a spese, con pranzi che spesso e volentieri si prolungavano fin verso l’ora di cena. Che dire, sicuramente una sfida per il giovane montanaro Dino Boscarato che, a 33 anni, deve decidere cosa fare da grande.
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