Laurent Vinatier (Ansa)
Laurent Vinatier è in cella a Mosca dal 2024. La sua vicenda sul tavolo dei negoziati con Parigi.
Il presidente francese Emmanuel Macron è «pienamente mobilitato» per ottenere il rilascio di Laurent Vinatier «il più rapidamente possibile», in quanto è detenuto ingiustamente e la «propaganda» contro di lui «non corrisponde alla realtà», fa sapere l’Eliseo. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov ha dichiarato ai giornalisti che la Russia ha fatto «un’offerta ai francesi» riguardo al politologo, arrestato a Mosca l’anno scorso e condannato per aver raccolto informazioni militari, e che «ora la palla è nel campo della Francia». Peskov si è rifiutato di fornire dettagli, citando la delicatezza della questione.
Vinatier, 49 anni, a giugno 2024 era stato arrestato dalle forze di sicurezza russe con l’accusa di spionaggio: non si era registrato come «agente straniero» mentre raccoglieva informazioni sulle «attività militari e tecnico-militari» della Russia, che avrebbero potuto essere utilizzate a scapito della sicurezza nazionale. All’epoca il francese, la cui moglie è di origine russa, era consulente dell’Ong svizzera Centro per il dialogo umanitario e aveva stabilito nell’ambito del suo lavoro contatti con politologi, economisti, funzionari ed esperti militari.
A ottobre 2024 era arrivata la condanna «amministrativa» a Vinatier, tre anni di reclusione per la mancata registrazione nell’elenco degli agenti stranieri. La difesa aveva chiesto una multa per l’errore che l’imputato ha riconosciuto di aver commesso «per ignoranza», mentre l’accusa chiedeva 3 anni e 3 mesi. Lo scorso 24 febbraio, questa condanna estremamente severa è stata confermata in appello sulla base della legislazione contro i presunti agenti stranieri.
Nell’agosto 2025, un fascicolo sul sito web del tribunale del distretto di Lefortovo a Mosca ha rivelato che un cittadino francese è accusato di spionaggio. Rischia fino a vent’anni di carcere ai sensi dell’articolo 276 del codice penale russo. «Il caso Vinatier ha ottenuto visibilità solo dopo che il giornalista di TF1 Jérôme Garraud, durante la conferenza stampa annuale del presidente russo Vladimir Putin il 19 dicembre, ha chiesto al capo dello Stato: “Sappiamo che in questo momento c’è molta tensione tra Russia e Francia, ma il nuovo anno si avvicina. La sua famiglia (di Laurent Vinatier, ndr) può sperare in uno scambio o nella grazia presidenziale?”. Il presidente russo ha risposto di non sapere nulla del caso ma ha promesso di indagare», sostiene TopWar.ru sito web russo di notizie e analisi militari. Putin ha aggiunto che «se esiste una possibilità di risolvere positivamente questa questione, se la legge russa lo consente, faremo ogni sforzo per riuscirci».
Il politologo è attualmente detenuto nella prigione di Lefortovo, penitenziario di massima sicurezza. Prima era «in un altro carcere a Mosca e poi per un mese a Donskoy nella regione di Tula, a Sud della capitale», ha riferito la figlia Camille alla rivista Altraeconomia spiegando che il padre «si occupa di diplomazia “secondaria”, ha studiato la geopolitica post-sovietica e negli ultimi anni si è occupato della guerra tra Russia e Ucraina» e che il secondo processo, dopo quello relativo a questioni amministrative è per accuse di spionaggio. Sarebbe vittima delle tensioni tra Mosca e Parigi a causa della guerra in Ucraina.
«Questo arresto e le accuse sono davvero mosse da una scelta politica e avvengono in un contesto specifico di crescenti tensioni tra Francia e Russia […] la chiave di tutto questo sta nella politica, non nella legge», concludeva la figlia, confermando l’ipotesi di uno scambio di prigionieri come possibile chiave di svolta della vicenda Vinatier.
L’avvocato della famiglia, Frederic Belot, ha affermato che sperano nel rilascio entro il Natale ortodosso del 7 gennaio. Uno scambio di prigionieri è possibile, ma vuole essere «estremamente prudente».
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
Domani in Florida il bilaterale tra il leader ucraino e il presidente statunitense. Putin apre a concessioni su alcune aree già conquistate, ma vuole tutto il Donbass.
A distanza di una settimana dall’ultimo round di negoziati, la Florida torna a essere la sede dei colloqui sulla pace in Ucraina, ma questa volta il faccia a faccia sarà direttamente tra leader. Domani a Mar-a-Lago è atteso l’incontro tra il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e l’omologo americano, Donald Trump.
A confermare il bilaterale, dopo l’indiscrezione lanciata da Axios, è stato lo stesso leader di Kiev: «Abbiamo un programma ampio e l’incontro si terrà questo fine settimana, credo domenica», ha detto ai giornalisti, non escludendo la partecipazione, in collegamento da remoto, dei rappresentanti dei Paesi europei. D’altronde, le conversazioni tra Kiev e la Casa Bianca non si sono fermate nemmeno il giorno di Natale: Zelensky ha avuto una lunga telefonata con l’inviato americano, Steve Witkoff, e con il genero di Trump, Jared Kushner, per approfondire «i formati, gli incontri e le tempistiche» per fermare la guerra. A quel colloquio telefonico sono poi seguiti ulteriori «contatti» tra il capo negoziatore ucraino, Rustem Umerov, e «la parte americana».
Al centro del dialogo con il tycoon ci saranno «alcune sfumature» sulle garanzie di sicurezza, ma soprattutto i nodi irrisolti per arrivare alla pace: il controllo del Donbass e dei territori orientali rivendicati dalla Russia e la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Sul tavolo ci sono dunque le questioni più delicate e il significato del meeting, a detta di Zelensky, è «finalizzare il più possibile» visto anche che alcuni temi «possono essere discussi solo a livello di leader». A rivelare ulteriori dettagli è stato il presidente ucraino in un’intervista telefonica rilasciata ad Axios. Per la prima volta si è detto disposto a indire un referendum sul piano americano qualora Mosca accettasse un cessate il fuoco di 60 giorni. Pare però, secondo un funzionario americano, che la Russia sia disposta a concedere una tregua più breve. Riguardo alle garanzie di sicurezza, Zelensky ha affermato che servono discussioni sulle «questioni tecniche». In particolare, Washington ha proposto un patto di 15 anni che può essere rinnovato, ma secondo il presidente ucraino «il bisogno» sarà «per più di 15 anni». In ogni caso, l’incontro tra i due leader, come riferito da Axios, rifletterebbe «i progressi significativi dei colloqui». Vero è che Trump aveva dato la sua disponibilità solo qualora fosse vicino il raggiungimento di un accordo. Un’ulteriore conferma dei «progressi» emerge dalle parole di Zelensky, che ha dichiarato: «Il piano di 20 punti su cui abbiamo lavorato è pronto al 90%. Il nostro compito è assicurarci che tutto sia pronto al 100%. Non è facile, ma dobbiamo avvicinarci al risultato desiderato con ogni incontro, con ogni conversazione». Un membro della delegazione ucraina, Sergiy Kyslytsya, ha rivelato al Financial Times che le posizioni della Casa Bianca e di Kiev sarebbero piuttosto vicine. Ed è dunque arrivato «il momento» che i due presidenti «benedicano, modifichino e calibrino, se necessario» il piano di pace.
In vista dell’incontro in Florida, Zelensky ha già iniziato a consultarsi con i partner. Ieri pomeriggio ha avuto «un’ottima conversazione» con il primo ministro canadese, Mark Carney, per aggiornarlo «sullo stato di avanzamento» del «lavoro diplomatico» ucraino «con gli Stati Uniti». Zelensky ha poi aggiunto: «Nei prossimi giorni si potrà ottenere molto sia a livello bilaterale fra Ucraina e Stati Uniti, sia con i nostri partner della coalizione dei Volenterosi». Anche il segretario generale della Nato, Mark Rutte, è stato consultato dal presidente ucraino per discutere «degli sforzi congiunti per garantire la sicurezza» e «coordinare le posizioni» prima dei colloqui con il tycoon. La maratona telefonica del leader di Kiev ha incluso anche il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, e il primo ministro danese, Mette Frederiksen.
Nel frattempo, proseguono i contatti anche tra il Cremlino e la Casa Bianca. A rivelarlo è stato il portavoce russo, Dmitry Peskov: «Dopo che Kirill Dmitriev ha riferito al presidente sui risultati del suo viaggio in America e sui suoi contatti con gli americani, queste informazioni sono state analizzate e, su indicazione del presidente Putin, si sono già verificati contatti tra i rappresentanti delle amministrazioni russa e statunitense». A guidare le conversazioni telefoniche, da parte di Mosca, è stato il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov. Riguardo alle questioni territoriali, secondo la rivista russa Kommersant, Putin, durante una riunione con gli imprenditori avvenuta la vigilia di Natale, ha dichiarato che potrebbe essere disposto a rinunciare a parte del territorio ucraino controllato dai soldati di Mosca, ma non è disposto a fare marcia indietro sul Donbass. Lo zar, nel meeting, ha affrontato anche la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. E, stando a quanto rivelato da Kommersant, Putin ha comunicato che non prevede la partecipazione ucraina, ma solamente una gestione congiunta con gli Stati Uniti con cui sono in corso le trattative. Sul piano di pace, il viceministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov, è tornato a sbilanciarsi. Nel talk show 60 minuti, trasmesso dalla tv russa Rossija-1, ha affermato che il piano di pace rivisto dall’Ucraina è «radicalmente diverso dai 27 punti» su cui ha lavorato Mosca. E pur annunciando che la fine della guerra è «vicina», Ryabkov ha accusato l’Ucraina e l’Europa di aver «raddoppiato gli sforzi» per «affossare» l’accordo di pace.
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Papa Leone XIV (Getty)
Leone XIV all’Angelus manda un messaggio ai guerrafondai di Bruxelles: «Chi oggi crede alla pace è spesso ridicolizzato, spinto fuori dal discorso pubblico e accusato di favorire avversari e nemici». Evitare di trattare con Vladimir Putin ha invece provocato solo morti.
Papa Leone ieri all’Angelus ha detto che chi parla di pace rischia di fare la figura del fesso. Purtroppo, aggiungo io, chi invoca la tregua non corre soltanto il pericolo di essere trattato come lo scemo del villaggio, perifrasi meno carina però più efficace di quella usata dal pontefice, bensì di essere anche considerato un servo di Putin, ovvero un ignobile figuro che per soldi o per ambizioni di carriera è disposto a mettere la propria dignità al servizio di un regime dittatoriale. Sono quasi quattro anni, cioè da quando le truppe di Mosca hanno invaso l’Ucraina, che chiunque lanci un appello alla pace che non includa un richiamo alla vittoria totale di Kiev sull’invasore viene considerato un traditore. Sostenere la necessità di un cessate il fuoco, anche a costo di qualche concessione, è ritenuta una bestemmia.
Anzi, un’offesa al buonsenso e all’onore. Dire che sia necessario trattare invece che morire è infatti considerato un cedimento all’aggressore. Più o meno come una resa di fronte al prepotente di turno, con annessi richiami storici alla famosa occupazione della Cecoslovacchia da parte di Hitler nel 1939. Chi sollecita la pace e non la vittoria contro Putin sarebbe insomma un codardo, al pari di quelli che di fronte ai nazisti si voltarono dall’altra parte facendo finta di non vedere.
In realtà, la storia è molto diversa e i richiami di chi si appella al passato non hanno alcun fondamento. Innanzitutto, il rifiuto di ogni trattativa al momento ha prodotto solo centinaia di migliaia di morti e feriti da entrambi le parti. E probabilmente nei mesi a venire, se non si troverà la via per un armistizio, conteremo altre centinaia di migliaia di vittime, anche in Europa. Niente di questo accadde nel 1939, quando con la scusa di difendere le ragioni gli abitanti dei Sudeti, popolazione di origine germanica insediata tra la Boemia e la Slesia, i tedeschi occuparono la Cecoslovacchia. Nel nostro caso i richiami storici c’entrano come i cavoli a merenda, perché gli abitanti del Donbass non sono quelli dei Sudeti e le potenze occidentali, invece di voltarsi dall’altra parte, sono pienamente coinvolte in una guerra di cui non si intravede la fine.
Nonostante si combatta da quasi quattro anni e la scia di sangue si allunghi giorno dopo giorno, c’è ancora chi sostiene che è necessario continuare a combattere. Anzi, dato che molti ucraini per evitare di finire al fronte e perdere la vita si sono dati alla macchia, a fare la guerra dovrebbero essere gli stessi europei. I capi di stato maggiore inglese e francese già invitano i propri concittadini a prepararsi a perdere i figli in battaglia. E uno dei comandanti della Nato, l’ammiraglio Cavo Dragone, addirittura invoca un attacco preventivo alla Russia, che sebbene venga definito ibrido altro non vuol dire che iniziare un conflitto.
Sì, mentre il papa parla di pace, in Europa c’è tanta voglia di guerra. Di solito, attaccare serve a far dimenticare la crisi economica, consentendo alle industrie in difficoltà di riciclarsi con la produzione di armamenti. È ciò che accade in Germania e anche in Francia. Dove un’industria alla canna del gas si attacca ai cannoni e ai carri armati pur di risollevarsi.
Ciò detto, chi parla di pace non rischia solo di venire ridicolizzato, come dice il Papa, ma anche di finire nelle liste di proscrizione. Quando nei primi mesi di guerra qualche commentatore invitò a far sedere al tavolo della trattativa ucraini e russi, descrivendo i pericoli di un conflitto che poteva destabilizzare l’Europa, il Corriere della Sera si incaricò di comporre l’elenco dei putiniani d’Italia, colonna infame da porre al bando. Se fra qualche anno si ripercorrerà la storia dell’invasione dell’Ucraina, dell’arroganza di Putin e degli errori dell’Occidente, ma anche dei molti tentativi di raggiungere un cessate il fuoco, credo che sarà utile ripercorrere anche i tentativi di tappare la bocca, con accuse ingiuste e sgradevoli, a tutti coloro che invece delle armi avrebbero voluto far parlare il buonsenso. Ma purtroppo, come in molte guerre, il ragionamento non ha diritto di cittadinanza e dunque si è preferito dividere il mondo in due: i buoni di qua, i cattivi di là. Con il risultato che in nome della pace giusta si sono mandati a morire migliaia di persone e si è impedita a chi la sosteneva l’unica pace possibile.
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Checco Zalone (Ansa)
«Buen camino», commedia politicamente scorrettissima, fa il botto: 5,6 milioni di incasso al debutto (78,8% del totale). E oltre 680.000 persone nelle sale a Natale. Il comico pugliese brucia il colossal «Avatar»: l’ipocrisia ha rotto, gli italiani vogliono ridere.
erano alte ma il risultato ha superato ogni rosea previsione: con questa commedia diretta da Gennaro Nunziante e distribuita da Medusa, Zalone ha superato sé stesso conquistando il 78,8% della platea complessiva (680.000 persone nelle sale): nel 2016 Quo Vado, uscito il primo gennaio, aveva raggiunto il 65,6%, mentre nel 2020, con Tolo Tolo, uscito sempre il primo gennaio, si era assicurato il 75,7%. Il successo di Buen Camino è stato omogeneo su tutto il territorio nazionale e ha trainato l’intero comparto: era da 14 anni che, nel giorno di Natale, il mercato cinematografico non superava i 7 milioni di euro d’incasso.
Commedia divertente, leggera, prodotta da Indiana production con Medusa, in collaborazione con Mzl e Netflix, Buen Camino è la storia di un cafonissimo quanto ignorante miliardario, un produttore brianzolo di divani, che proprio mentre sta preparando la festa per il suo 50° compleanno scopre che la sua unica figlia, battezzata Cristal in onore del famoso champagne, si è dileguata. La ribellione al lusso sfrenato in cui vive il padre si concretizza nel Cammino di Santiago de Compostela: Zalone lo scopre e si mette all’inseguimento della figlia adolescente, tra ostelli spartani e sentieri polverosi. In sala fragorose risate per le gag a raffica e le battute, anche politicamente scorrette, come quella sul nuovo compagno della ex moglie, un regista palestinese, «l’unico che occupa dei territori a Gaza, gaza mia», e quella sull’ostello: «Mi sembra di stare in un film, Schindler’s List». Battute che hanno fatto indignare i soliti benpensanti, ma Zalone non si scompone: «Invece di lamentarsi del politicamente corretto», ha detto in conferenza stampa pochi giorni prima dell’uscita del film, «bisogna essere intelligentemente scorretti, io non avverto questo problema».
In un solo giorno, Buen Camino ha già raggiunto la settima posizione della classifica degli incassi dei film italiani usciti nel corso dell’ultimo anno: al primo posto c’è Follemente, commedia diretta da Paolo Genovese uscita nello scorso febbraio, che dopo dieci mesi nelle sale ha raggiunto quota 18 milioni di incassi; seguono Diamanti di Ferzan Özpetek nelle sale già da un anno; Io sono la fine del mondo di Angelo Duro , anche lui uscito un anno fa e diretto dallo stesso Nunziante; Io e te dobbiamo parlare, scritto, diretto e interpretato da Alessandro Siani, uscito a dicembre 2024; Oi vita mia di Pio e Amedeo, uscito lo scorso novembre, e La vita va così, diretto da Riccardo Milani, uscito a ottobre 2025.
Facendo qualche semplice calcolo sugli incassi che la commedia di Zalone potrà realizzare da oggi all’inizio di gennaio, è facile prevedere che Buen Camino schizzerà in vetta alla classifica dopo meno di due settimane di programmazione. In ogni caso, questa classifica fa comprendere in maniera cristallina che gli italiani al cinema vogliono divertirsi e rilassarsi: Checco Zalone, Angelo Duro, Pio e Amedeo e Alessandro Siani sono comici puri, ognuno con il suo stile ma tutti lontanissimi dal cinema che piace agli intellettuali, ai benpensanti, in sostanza quello a base di indigeribili mattoni drammatici costellati di messaggi politico-culturali. Non può non tornarci in mente la leggendaria, eroica ribellione del ragionier Ugo Fantozzi quando, obbligato con i suoi colleghi a partecipare all’ennesima proiezione della Corazzata Potëmkin al cineforum del professor Guidobaldo Maria Riccardelli, mentre in tv c’è Inghilterra-Italia di Coppa del Mondo, sale sul palco e esclama: «La Corazzata Potëmkin è una cag... pazzesca!», ricevendo i famosi 92 minuti di applausi.
Del resto, fino a qualche anno fa, i cinema a Natale si gremivano di spettatori che non vedevano l’ora di assistere all’annuale cinepanettone prodotto dalla Filmauro di Aurelione De Laurentiis, diretto per lo più da Neri Parenti e interpretati dalla coppia Massimo Boldi-Christian De Sica, con battute molto «politicamente scorrette», che forse oggi non potrebbero essere inserite, ma che facevano e fanno ancora ridere di gusto.
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