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2021-10-10
Nuovo decreto o maratona in Aula: il disastro si può ancora scongiurare
Mario Draghi (Ansa)
Dal 16 settembre scorso (giorno in cui il Consiglio dei Ministri discusse e annunciò il decreto-legge sull'obbligo di green pass in tutti i luoghi di lavoro), e poi dal successivo 21 settembre (giorno in cui fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la versione finale del decreto), non c'è stata una sola mattina in cui la Verità, a partire dagli editoriali del direttore Maurizio Belpietro, abbia dimenticato di chiedere a gran voce di modificare quelle disposizioni.
Da subito e fino a ieri, questo giornale non ha cessato di indicare le contraddizioni teoriche (siamo l'unico paese al mondo ad imporre un obbligo così esteso) e soprattutto i problemi pratici innescati dal provvedimento: nel lavoro pubblico (si pensi solo alle forze dell'ordine) e in quello privato, dalle grandi imprese a quelle più piccole, dalla logistica ai trasporti, fino al caos che si determinerà in ciascuna delle nostre case, visti gli effetti verso badanti, baby-sitter e colf.
Per lunghi giorni, la risposta è stata un assordante coro del tipo: «Il green pass è uno strumento di libertà». Una specie di esorcismo, di formula ripetuta ossessivamente per negare i problemi che però, a poco a poco, si sono manifestati nella loro enormità.
E così, piano piano, dai governatori agli industriali, adesso tutti convergono con il nostro allarme. Ieri, non ultima per importanza, è arrivata la presa di posizione di Filiera Italia: «Così com'è scritta, la norma del green pass sui luoghi di lavoro è inapplicabile». E poche ore prima, erano stati i governatori Luca Zaia su Repubblica («Lei non ha idea del caos che scoppierà nelle aziende il 15 ottobre, perché non saremo in grado di offrire a tutti i non vaccinati un tampone ogni 48 ore. Gli imprenditori con cui parlo io sono preoccupatissimi») e Massimiliano Fedriga sulla Stampa («Non possiamo penalizzare le aziende in questa fase fondamentale di ripresa») a chiedere a gran voce modifiche urgenti.
Insomma, siamo giunti alla mattina del 10 ottobre, e la norma appare ormai orfana: non c'è un solo «babbo» o «mamma», politicamente parlando, che la rivendichi così com'è, o che neghi il caos che si determinerà tra cinque giorni, il 15 ottobre, quando scatterà l'obbligo di green pass nella sua versione più rigida e generalizzata.
Soluzioni? Il ventaglio degli interventi possibili è ampio, dall'ipotesi più forte e razionale, che ci riallineerebbe agli altri Paesi occidentali (abolire tout court l'obbligo di green pass per lavorare) fino a interventi per attenuare e smussare. Matteo Salvini ha per lo meno proposto di allungare la durata minima del green pass da tampone da 48 a 72 ore («È possibile, anzi doveroso e previsto dall'Europa. Evitare caos, blocchi e licenziamenti il 15 ottobre è fondamentale»). Zaia chiede di autorizzare le imprese all'uso dei test rapidi nasali, mentre nessuno ha ricordato l'altra soluzione semplice, e cioè lo sdoganamento dei tamponi salivari rapidi.
Tutti però concordano sull'urgenza, sottolineata ad esempio da Fedriga: «Bisogna fare presto, perché il 15 ottobre è arrivato e le aziende non possono organizzarsi dall'oggi al domani. E in molti casi, pensi ad esempio agli autisti del trasporto pubblico locale, non possono permettersi di lasciare a casa i lavoratori, perché non sanno come sostituirli».
E allora come si fa? La Verità propone qui due strade entrambe praticabili: la prima passa dal Parlamento, la seconda dal governo.
Prima ipotesi: com'è noto, ogni decreto-legge, dopo essere stato varato dal governo, deve essere approvato dal Parlamento (tecnicamente si chiama «conversione in legge»: le Camere modificano il testo e lo trasformano in una legge) entro 60 giorni. Nel nostro caso, i due rami del Parlamento potrebbero eccezionalmente (un po' come se si fosse nell'ultima settimana di una sessione di bilancio, nel rush finale per impedire di finire in esercizio provvisorio) discutere, introdurre le modifiche necessarie e approvare tutto non in 60 ma in cinque giorni, lavorando giorno e notte (tra Commissione e Aula, prima in un ramo e poi nell'altro del Parlamento).
Seconda ipotesi (ancora più semplice): il governo potrebbe riconvocarsi entro uno- due giorni e varare un nuovo decreto-legge, con tutte le correzioni necessarie, che entrerebbe in vigore subito dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (e comunque prima del 15 ottobre), salvo poi lasciare al Parlamento 60 giorni per la conversione.
Nell'uno o nell'altro modo, si potrebbe fare in tempo, impedendo che il 15 ottobre si trasformi nell'inizio di un caos previsto ed evitabile.
Agli antipodi di tutto ciò, su una linea diametralmente opposta, si pone invece l'ipotesi avanzata ieri da Forza Italia, attraverso la capogruppo a Palazzo Madama Anna Maria Bernini, che ha esplicitamente evocato l'obbligo vaccinale come «opportunità» da valutare «davvero molto seriamente da parte del governo».
«Non dateci le mascherine di Fca»
Ad ormai oltre un anno e mezzo dall'inizio della pandemia, quello delle mascherine targate Fca, farlocche e per di più puzzolenti, è uno scandalo che non accenna a scemare e che interessa svariate zone del Paese. La conferma arriva dalla Provincia di Trento dove centinaia, anzi migliaia di mascherine giacciono nelle scuole inutilizzate. E, ormai, destinate a rimanere tali. Sì, perché sono sia maleodoranti sia di scarsa vestibilità, tanto da essersi guadagnate la poco edificante fama di dispositivi «mutanda». Per non parlare, poi, del potere filtrante, sul quale è più che lecito nutrire dubbi.
Come in altre parti d'Italia, in Trentino il disagio non interessa un singolo istituto. «Abbiamo 200 scatoloni», ha per esempio spiegato, ripresa ieri dal Corriere del Trentino, Teresa Periti, dirigente del liceo Russel di Cles, «e noi le distribuiamo ma i ragazzi non le vogliono». 200 scatoloni giacciono inutilizzati anche in una scuola dell'Alto Garda. E così in altre scuole, mentre continua l'arrivo di queste mascherine. Che, ironia della sorte, non solo sono disponibili ma, ormai, lo sono pure in abbondanza. Anzi, risultano fin troppe, una vasta e inutile marea.
«Ne abbiamo un'ampia disponibilità», conferma Carlo Zanetti, dirigente dell'istituto comprensivo Trento 2, «e le forniamo alle famiglie, che però preferiscono, se possono, usare le proprie». Quindi, che fare di questi dispositivi, che peraltro hanno una data di scadenza? Il dilemma serpeggia in numerose scuole. Ci sono istituti che, per evitare che finisca tutto in discarica, hanno già provveduto, tramite associazioni benefiche, a inviarle in Paesi dove le mascherine scarseggiano.
Le stesse istituzioni trentine sono ben consapevoli del problema, che però non dipende da loro. «Abbiamo ricevuto quelle che sono state delle segnalazioni, delle lamentele da parte del mondo della scuola», aveva dichiarato in proposito, ancora mesi fa, l'Assessore provinciale all'istruzione Mirko Bisesti, intervenendo in Consiglio provinciale e auspicando si possa «far luce maggiormente sui dispositivi forniti dallo Stato».
Già, lo Stato. Perché le mascherine impossibili da indossare, come noto, non sono prodotte in Trentino. Arrivano dritte dal ministero. E, a loro volta, sono frutto del multimilionario contratto che, su input di Domenico Arcuri, durante la gestione della pandemia del governo di Giuseppe Conte, la struttura commissariale aveva sottoscritto con Fca, messasi all'improvviso a produrre mascherine in due stabilimenti riconvertiti allo scopo. Il punto è che queste mascherine, oltre a essere scomode, talvolta sono pure risultate inadeguate a fornire protezione.
Come i lettori della Verità ricorderanno, già nell'ottobre 2020, Rossano Rasso, sottosegretario all'Istruzione in quota Lega, si era mosso per chiedere approfondimenti su due lotti di mascherine Fca destinate alle scuole che, successivamente, sono risultati non a norma.
Peccato che la nota di ritiro di quelle mascherine farlocche, disposta dal ministero di Speranza, sia datata 6 settembre 2021. C'è dunque voluto quasi un anno per certificare un problema parso da subito, già all'olfatto, palese.
Beninteso, non si sta dicendo che le mascherine ammassate nelle scuole del Trentino Alto Adige - da inizio pandemia, ne sono arrivate la bellezza di oltre 35 milioni di unità - siano non a norma.
Di certo c'è, come si diceva, che comunque nessuno le vuole. Eppure il paradossale approvvigionamento di dispositivi, anche se Arcuri è uscito di scena - e le sue mascherine sono sotto la lente degli inquirenti -, continua.
Con il risultato che i dirigenti scolastici trentini non sanno più come disfarsi di quelle mascherine sgradite e in esubero. Il colossale spreco così continua. Tanto paga Pantalone.
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In cinque giorni, Parlamento e governo hanno il tempo per evitare il caos del pass a lavoro: le Camere possono discutere e modificare le norme attuali. All'esecutivo, invece, basterebbe varare un testo correttivo.Nelle scuole trentine migliaia di dispositivi scomodi e maleodoranti, voluti da Domenico Arcuri, sono negli scatoloni. Gli alunni le rifiutano e i presidi implorano il ministero: «Basta».Lo speciale contiene due articoli.Dal 16 settembre scorso (giorno in cui il Consiglio dei Ministri discusse e annunciò il decreto-legge sull'obbligo di green pass in tutti i luoghi di lavoro), e poi dal successivo 21 settembre (giorno in cui fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la versione finale del decreto), non c'è stata una sola mattina in cui la Verità, a partire dagli editoriali del direttore Maurizio Belpietro, abbia dimenticato di chiedere a gran voce di modificare quelle disposizioni. Da subito e fino a ieri, questo giornale non ha cessato di indicare le contraddizioni teoriche (siamo l'unico paese al mondo ad imporre un obbligo così esteso) e soprattutto i problemi pratici innescati dal provvedimento: nel lavoro pubblico (si pensi solo alle forze dell'ordine) e in quello privato, dalle grandi imprese a quelle più piccole, dalla logistica ai trasporti, fino al caos che si determinerà in ciascuna delle nostre case, visti gli effetti verso badanti, baby-sitter e colf. Per lunghi giorni, la risposta è stata un assordante coro del tipo: «Il green pass è uno strumento di libertà». Una specie di esorcismo, di formula ripetuta ossessivamente per negare i problemi che però, a poco a poco, si sono manifestati nella loro enormità.E così, piano piano, dai governatori agli industriali, adesso tutti convergono con il nostro allarme. Ieri, non ultima per importanza, è arrivata la presa di posizione di Filiera Italia: «Così com'è scritta, la norma del green pass sui luoghi di lavoro è inapplicabile». E poche ore prima, erano stati i governatori Luca Zaia su Repubblica («Lei non ha idea del caos che scoppierà nelle aziende il 15 ottobre, perché non saremo in grado di offrire a tutti i non vaccinati un tampone ogni 48 ore. Gli imprenditori con cui parlo io sono preoccupatissimi») e Massimiliano Fedriga sulla Stampa («Non possiamo penalizzare le aziende in questa fase fondamentale di ripresa») a chiedere a gran voce modifiche urgenti.Insomma, siamo giunti alla mattina del 10 ottobre, e la norma appare ormai orfana: non c'è un solo «babbo» o «mamma», politicamente parlando, che la rivendichi così com'è, o che neghi il caos che si determinerà tra cinque giorni, il 15 ottobre, quando scatterà l'obbligo di green pass nella sua versione più rigida e generalizzata. Soluzioni? Il ventaglio degli interventi possibili è ampio, dall'ipotesi più forte e razionale, che ci riallineerebbe agli altri Paesi occidentali (abolire tout court l'obbligo di green pass per lavorare) fino a interventi per attenuare e smussare. Matteo Salvini ha per lo meno proposto di allungare la durata minima del green pass da tampone da 48 a 72 ore («È possibile, anzi doveroso e previsto dall'Europa. Evitare caos, blocchi e licenziamenti il 15 ottobre è fondamentale»). Zaia chiede di autorizzare le imprese all'uso dei test rapidi nasali, mentre nessuno ha ricordato l'altra soluzione semplice, e cioè lo sdoganamento dei tamponi salivari rapidi. Tutti però concordano sull'urgenza, sottolineata ad esempio da Fedriga: «Bisogna fare presto, perché il 15 ottobre è arrivato e le aziende non possono organizzarsi dall'oggi al domani. E in molti casi, pensi ad esempio agli autisti del trasporto pubblico locale, non possono permettersi di lasciare a casa i lavoratori, perché non sanno come sostituirli».E allora come si fa? La Verità propone qui due strade entrambe praticabili: la prima passa dal Parlamento, la seconda dal governo. Prima ipotesi: com'è noto, ogni decreto-legge, dopo essere stato varato dal governo, deve essere approvato dal Parlamento (tecnicamente si chiama «conversione in legge»: le Camere modificano il testo e lo trasformano in una legge) entro 60 giorni. Nel nostro caso, i due rami del Parlamento potrebbero eccezionalmente (un po' come se si fosse nell'ultima settimana di una sessione di bilancio, nel rush finale per impedire di finire in esercizio provvisorio) discutere, introdurre le modifiche necessarie e approvare tutto non in 60 ma in cinque giorni, lavorando giorno e notte (tra Commissione e Aula, prima in un ramo e poi nell'altro del Parlamento). Seconda ipotesi (ancora più semplice): il governo potrebbe riconvocarsi entro uno- due giorni e varare un nuovo decreto-legge, con tutte le correzioni necessarie, che entrerebbe in vigore subito dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (e comunque prima del 15 ottobre), salvo poi lasciare al Parlamento 60 giorni per la conversione. Nell'uno o nell'altro modo, si potrebbe fare in tempo, impedendo che il 15 ottobre si trasformi nell'inizio di un caos previsto ed evitabile. Agli antipodi di tutto ciò, su una linea diametralmente opposta, si pone invece l'ipotesi avanzata ieri da Forza Italia, attraverso la capogruppo a Palazzo Madama Anna Maria Bernini, che ha esplicitamente evocato l'obbligo vaccinale come «opportunità» da valutare «davvero molto seriamente da parte del governo». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nuovo-decreto-o-maratona-in-aula-il-disastro-si-puo-ancora-scongiurare-2655263781.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="non-dateci-le-mascherine-di-fca" data-post-id="2655263781" data-published-at="1633807566" data-use-pagination="False"> «Non dateci le mascherine di Fca» Ad ormai oltre un anno e mezzo dall'inizio della pandemia, quello delle mascherine targate Fca, farlocche e per di più puzzolenti, è uno scandalo che non accenna a scemare e che interessa svariate zone del Paese. La conferma arriva dalla Provincia di Trento dove centinaia, anzi migliaia di mascherine giacciono nelle scuole inutilizzate. E, ormai, destinate a rimanere tali. Sì, perché sono sia maleodoranti sia di scarsa vestibilità, tanto da essersi guadagnate la poco edificante fama di dispositivi «mutanda». Per non parlare, poi, del potere filtrante, sul quale è più che lecito nutrire dubbi. Come in altre parti d'Italia, in Trentino il disagio non interessa un singolo istituto. «Abbiamo 200 scatoloni», ha per esempio spiegato, ripresa ieri dal Corriere del Trentino, Teresa Periti, dirigente del liceo Russel di Cles, «e noi le distribuiamo ma i ragazzi non le vogliono». 200 scatoloni giacciono inutilizzati anche in una scuola dell'Alto Garda. E così in altre scuole, mentre continua l'arrivo di queste mascherine. Che, ironia della sorte, non solo sono disponibili ma, ormai, lo sono pure in abbondanza. Anzi, risultano fin troppe, una vasta e inutile marea. «Ne abbiamo un'ampia disponibilità», conferma Carlo Zanetti, dirigente dell'istituto comprensivo Trento 2, «e le forniamo alle famiglie, che però preferiscono, se possono, usare le proprie». Quindi, che fare di questi dispositivi, che peraltro hanno una data di scadenza? Il dilemma serpeggia in numerose scuole. Ci sono istituti che, per evitare che finisca tutto in discarica, hanno già provveduto, tramite associazioni benefiche, a inviarle in Paesi dove le mascherine scarseggiano. Le stesse istituzioni trentine sono ben consapevoli del problema, che però non dipende da loro. «Abbiamo ricevuto quelle che sono state delle segnalazioni, delle lamentele da parte del mondo della scuola», aveva dichiarato in proposito, ancora mesi fa, l'Assessore provinciale all'istruzione Mirko Bisesti, intervenendo in Consiglio provinciale e auspicando si possa «far luce maggiormente sui dispositivi forniti dallo Stato». Già, lo Stato. Perché le mascherine impossibili da indossare, come noto, non sono prodotte in Trentino. Arrivano dritte dal ministero. E, a loro volta, sono frutto del multimilionario contratto che, su input di Domenico Arcuri, durante la gestione della pandemia del governo di Giuseppe Conte, la struttura commissariale aveva sottoscritto con Fca, messasi all'improvviso a produrre mascherine in due stabilimenti riconvertiti allo scopo. Il punto è che queste mascherine, oltre a essere scomode, talvolta sono pure risultate inadeguate a fornire protezione. Come i lettori della Verità ricorderanno, già nell'ottobre 2020, Rossano Rasso, sottosegretario all'Istruzione in quota Lega, si era mosso per chiedere approfondimenti su due lotti di mascherine Fca destinate alle scuole che, successivamente, sono risultati non a norma. Peccato che la nota di ritiro di quelle mascherine farlocche, disposta dal ministero di Speranza, sia datata 6 settembre 2021. C'è dunque voluto quasi un anno per certificare un problema parso da subito, già all'olfatto, palese. Beninteso, non si sta dicendo che le mascherine ammassate nelle scuole del Trentino Alto Adige - da inizio pandemia, ne sono arrivate la bellezza di oltre 35 milioni di unità - siano non a norma. Di certo c'è, come si diceva, che comunque nessuno le vuole. Eppure il paradossale approvvigionamento di dispositivi, anche se Arcuri è uscito di scena - e le sue mascherine sono sotto la lente degli inquirenti -, continua. Con il risultato che i dirigenti scolastici trentini non sanno più come disfarsi di quelle mascherine sgradite e in esubero. Il colossale spreco così continua. Tanto paga Pantalone.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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