2022-08-30
«Abbiamo visto i nostri cari morire soli e senza cure»
I parenti delle vittime private di assistenza e terapie: «Lasciati a soffrire per giorni. Quando li ricoveravano era troppo tardi».«Sono la figlia di Sergio Gastaldi, una delle tante vittime per le mancate cure da Covid 19. Mio padre era un uomo di 72 anni, nessuna patologia pregressa, era un uomo pieno di energia e tanta voglia di vivere». Inizia così il racconto commosso di Susanna Gastaldi, di Bolpiano, in provincia di Torino. La sua storia è simile a quella di tante altre. Quando questi figli, fratelli, sorelle hanno perso i loro cari, la cura del Covid esisteva già e si era visto che funzionava quasi sempre - a patto che fosse precoce - ma il ministero della Salute, che lo sapeva, ha fatto finta di niente, come sta facendo finta ancora adesso, nonostante lo studio pubblicato su Lancet che ormai ha ufficializzato l’approccio terapeutico di tanti medici che invano hanno avvertito le autorità sanitarie sin dal marzo del 2020: se si interrompe con i farmaci il processo infiammatorio in fase precoce si ottiene come risultato il 90 per cento delle ospedalizzazioni in meno. «Mio padre inizia ad avere i primi sintomi lunedì 2 novembre 2020, di sera, una febbricola e mal di gola - continua Susanna - il mercoledì chiama la dottoressa perché ha anche la tosse e la dottoressa non lo visita e gli dice di prendere la tachipirina. Mio padre sta sempre peggio e il venerdì richiama la dottoressa, chiedendo un antibiotico ma la dottoressa gli prescrive solo il tampone che però è possibile fare solo la domenica e poi gli dà un milligrammo di Bentelan, che è una dose pediatrica. La febbre si alza e mio padre chiama la guardia medica che però dice che non può dargli nulla perché bisogna aspettare il tampone. Mio padre, insieme a mia madre, che nel frattempo si era ammalata pure lei, vanno in macchina con la febbre alta a fare il tampone al drive-in e aspettano tre ore. La sera mio padre ha la saturazione a 87. Chiamiamo il 118. In ospedale rimane in vigile attesa altre 12 ore, perché si aspetta l’esito della tac: ha una polmonite bilaterale e dopo un giorno gli mettono il casco. Resiste 3 settimane e ora leggendo l’articolo su Lancet si apre per noi una ferita che non si è mai chiusa. Mio padre era un uomo onesto che credeva nello Stato, nella sanità, nei medici. È morto in seconda ondata, dopo otto mesi dall’inizio della pandemia. I protocolli potevano e dovevano essere cambiati».Anche il fratello di Tony, Lucio Sticchi, 59 anni, di Maglie in provincia di Lecce si è ammalato quando il ministero non poteva non sapere dell’esistenza delle cure domiciliari. È morto il giorno di Pasqua del 2021. Racconta Tony: «Il medico gli ha prescritto la solita tachipirina e vigile attesa e le Usca non sono mai venute. Mio fratello non aveva patologie pregresse e quindi se lo avessero visitato e se gli avessero prescritto gli antinfiammatori sicuramente non sarebbe morto. Io sono andato finanche dal sindaco per chiedere aiuto perché nessuno è venuto a soccorrerlo e neppure a fargli un tampone» dice, in lacrime. A Ermelinda Cobuzzi, di Lecce, trema la voce mentre ricorda: «Mio padre Diego aveva 73 anni - racconta - non fumava, non beveva e non aveva patologie. Il 4 di febbraio del 2021 i primi sintomi. Per una settimana è stato curato con tachipirina e vigile attesa ed era difficilissimo parlare col medico. Dopo cinque giorni siamo riusciti a contattarlo e gli ha dato dell’Augmentin. Mio padre è salito in ambulanza l’11 febbraio con le sue gambe. Il giorno prima aveva fatto il tampone a casa e avevano scritto sulla cartella clinica che non aveva sintomi importanti, ma la sera dopo lo hanno intubato. Il primo di marzo è morto e io voglio sapere perché a casa non è stato curato. Hanno lasciato le famiglie da sole, a vedere impotenti il proprio caro annaspare e adesso voglio capire se mio padre è morto invano, se poteva essere salvato e io so che poteva essere salvato. Mio padre doveva essere salvato, era una persona per bene, non meritava questa fine» si dispera Ermelinda. Un dolore insanabile, come quello di Manuela Zamboni, di Monza: «Quello che provo io è solo rabbia- dice - sapere che c’era una strada per salvare mia madre mi fa rabbia. Sapere che già le autorità erano state informate mi fa rabbia. Mia mamma si chiamava Rosalba Micheletti e inizia ad avere un po’ di febbre il 17 marzo del 2020. La dottoressa di base non la visita e prescrive la tachipirina per abbassare la febbre che resta lieve per 5 giorni. Ha un po’ di tosse, dissenteria e non mangia. Al sesto giorno la saturazione scende e la notte mamma respira a fatica. Mio papà chiama il numero di emergenza 1500 e si sente rispondere che «se i discorsi che fa la mamma quando parla sono comprensibili possiamo ancora aspettare». Mio fratello chiama l’ambulanza e mamma viene ricoverata con l’illusione di aver fatto la cosa giusta, ma quando arriva in ospedale aveva già una grave insufficienza respiratoria e la polmonite bilaterale». L’epilogo, dopo 15 giorni in terapia intensiva, è lo stesso di tanti altri malati che sono stati abbandonati a casa senza cure.Il papà di Lara, ad esempio, di Brescia, Guerrino Grippo, luogotenente dell’Arma dei carabinieri che aveva 61 anni ed era in perfetta salute, ricoverato con saturazione a 80 dopo 7 giorni di vigile attesa. Il medico di base gli aveva prima consigliato un antinfiammatorio per poi sconsigliarglielo: «Ci ha ripensato dicendo che avrebbe peggiorato la situazione» racconta sua figlia Lara, che ora non si dà pace, ma le storie di orrore e di dolore non sono finite perché c’è chi, come Viviana Molteni, anche lei di Lecce, ha perso a seguito di mancate cure entrambi i genitori: intubati a marzo del 2021 sono rimasti una settimana a casa senza alcuna assistenza, né farmaci tranne la tachipirina. «Erano in totale abbandono. Ho trovato pentolini sul fuoco con cibo andato male, il divano sporco di pipì, vestiti a terra come per tamponare i bisogni. Mio papà due settimane prima era in cortile a giocare a calcio con i miei figli e mia mamma, 65, anni stava programmando le vacanze. Mia madre è svenuta a casa due volte e mio padre, che in quel momento stava meglio di lei, mi ha chiamato, piangendo, perché non riusciva a sollevarla da terra» ricorda Viviana. Una tragedia simile ha vissuto pure Cristina Merlino, di Roma. Anche i suoi genitori sono morti entrambi di Covid dopo essere stati totalmente abbandonati dalla sanità pubblica. «Non hanno ricevuto nessuna assistenza fino al peggioramento e alla richiesta di ambulanza. Mia madre è finita per prima in ospedale con sintomi ormai gravissimi, mio padre si stava disidratando e non si riusciva a trovare un infermiere, neppure privato, per fargli una flebo. Ai numeri di emergenza non rispondeva nessuno e l’Usca si è fatta viva, per fare il tampone, dopo che mia madre era già morta. I miei genitori se ne sono andati lo stesso giorno, erano in due ospedali diversi, il 24 novembre del 2020», racconta Cristina Merlino, che è una giornalista e mesi fa ha anche scritto all’Ordine, chiedendo un intervento nei confronti di quei colleghi che hanno continuato a negare l’esistenza di una possibilità di cura del Covid, nonché a denigrare i medici che invece, curando, salvavano vite. Non ha mai ricevuto risposta.
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