Ricerca di due accademici svizzeri dimostra che solo l’8,5% delle imprese occidentali ha disinvestito, in barba alle sanzioni e alle pressioni che i governi hanno esercitato. Persino McDonalds si è lasciata la porta aperta.
Ricerca di due accademici svizzeri dimostra che solo l’8,5% delle imprese occidentali ha disinvestito, in barba alle sanzioni e alle pressioni che i governi hanno esercitato. Persino McDonalds si è lasciata la porta aperta.Non bastano un editto o il pressing dell’opinione pubblica per convincere le aziende a smontare filiere di produzione rodate da anni. La divisione politica e mediatica del mondo tra buoni e cattivi, che impone di aiutare i primi e punire i secondi, non coincide con la realtà del mercato e delle catene di cooperazione economica, che sono assai più complesse. Lo dimostra anche il risultato di una ricerca condotta a fine 2022 da due professori - Simon Evenett, del dipartimento di economia dell’università svizzera di San Gallo, e Niccolò Pisani, dell’International institute for management development (Imd) di Losanna - che mostra che solo l’8,5% delle aziende occidentali aveva ceduto almeno una delle sue filiali russe e dunque effettivamente disinvestito da Mosca. Nonostante le sanzioni draconiane e la pressione esercitata dai governi, non ci sarebbe stata alcuna fuga in massa delle imprese con sede nell’Unione europea o nei Paesi del G7. Almeno secondo l’indagine fatta sul campo dagli autori di questo paper: «L’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022 e le decisioni aziendali che sono seguite», si legge nello studio, «offrono spunti sulla misura in cui le aziende occidentali sono disposte a recidere i legami commerciali con nazioni ora viste dai loro governi come rivali geopolitici. In un certo senso, è il banco di prova perfetto». Non solo. «I gruppi occidentali che continuano con le loro operazioni commerciali in Russia potrebbero essere accusati di fare affari con il nemico», viene aggiunto citando un articolo del Financial Times del marzo 2022 sulle aziende farmaceutiche «particolarmente interessante, in quanto i medicinali e le relative forniture mediche sono stati esentati dai regimi sanzionatori imposti alla Russia. Pertanto, le Big pharma hanno subito pressioni per ridimensionare la loro presenza in Russia anche se i loro prodotti non erano negli elenchi delle sanzioni».Come è stata svolta l’indagine sul campo? Evenett e Pisani hanno raccolto informazioni sulle partecipazioni azionarie di società con sede in uno Stato membro della Ue o in una nazione del G7 al momento dell’invasione dell’Ucraina, facendo affidamento sul database Orbis, riconosciuto a livello internazionale. Poi hanno verificato quante di queste società avevano interamente disinvestito da una delle loro filiali russe entro la fine di novembre 2022. Infine, hanno confrontato i risultati con quelli ottenuti dai ricercatori del Kyiv school of economics, che aveva intrapreso un’indagine simile. Ed ecco i numeri: quando Mosca ha lanciato la sua operazione, 1.404 società dell’Unione europea e dei Paesi del G7 avevano 2.405 controllate attive in Russia. Alla fine di novembre, soltanto 120 di queste società (appunto, l’8,5%) aveva chiuso almeno una controllata in Russia. La propensione a rimanere o ad abbandonare la Federazione è diversa da Paese a Paese e, in particolare, tra i membri del G7 e dell’Ue. A capeggiare il gruppo delle 120 aziende uscite completamente dalla Russia sono gli Usa (25%), seguiti da Finlandia (12,5%), Germania (11,7%) e Regno Unito (10,8%). Nel gruppo delle 1.284 società che invece sono ancora attive nel Paese primeggiano quelle tedesche (il 19,5%), seguite da quelle americane (12,4%), giapponesi (7%) e dalle italiane (6,3%). Inoltre, nel processo di dismissione, alcune aziende occidentali hanno inserito clausole di «buy back» nei contratti con gli acquirenti delle loro filiali russe: ad esempio Nissan, ha venduto la sua controllata russa alla statale Nami lasciandosi aperta una finestra di sei anni per l’eventuale riacquisto, così come McDonalds si sarebbe garantita per 15 anni la possibilità di riacquistare le sue attività in Russia alle stesse condizioni.Ma perché molte imprese hanno deciso di non rompere le relazioni con Mosca? Questo può succedere per molteplici ragioni, viene sottolineati nello studio. «Ad esempio, un’azienda occidentale che opera in un settore escluso da sanzioni ufficiali può decidere che non è opportuno abbandonare i propri clienti russi» o «i rapporti a lungo termine con dipendenti o fornitori o decidere di cessare le attività per via della rilevanza sociale dei loro prodotti e servizi (ad esempio, la fornitura di medicinali salvavita)». Anche chi si è impegnato a disinvestire potrebbe, alla fine, non riuscirci perché non è in grado di trovare un acquirente per la sua società controllata disposto a pagare un prezzo sufficientemente alto. «E anche quando un acquirente lo ha trovato e il prezzo è stato concordato, il governo russo potrebbe aver posto degli ostacoli che impediscono o comunque ritardano la vendita o, in ultima analisi, impediscono il trasferimento dei proventi all’estero», viene aggiunto.I risultati, sottolineano dunque i due professori, mettono in dubbio la disponibilità delle aziende occidentali a seguire le scelte politiche dei loro governi, in particolare separando i loro destini da quelli di economie di Stati ritenuti rivali geopolitici. Una situazione che in futuro, nel caso di uno scontro aperto, potrebbe essere replicata nei rapporti con la Cina.
«The Man on the Inside 2» (Netflix)
La serie con Ted Danson torna su Netflix il 20 novembre: una commedia leggera che racconta solitudine, terza età e nuovi inizi. Nei nuovi episodi Charles Nieuwendyk, ex ingegnere vedovo diventato spia per caso, indaga al Wheeler College.
(IStock)
Si rischia una norma inapplicabile, con effetti paradossali sui rapporti sessuali ordinari e persino all’interno delle coppie.
Grazie all’accordo «bipartisan» Meloni-Schlein è stato approvato in commissione giustizia della Camera, il 12 novembre scorso, il progetto di legge a firma dell’onorevole Laura Boldrini e altri, recante quello che, dopo la probabile approvazione definitiva in Aula, dovrebbe diventare il nuovo testo dell’articolo 609 bis del codice penale, in cui è previsto il reato di violenza sessuale. Esso si differenzia dal precedente essenzialmente per il fatto che viene a essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito nella vigente formulazione della norma), ma anche quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Nuovo approccio dell'istituto di credito rivolto alle imprese pronte ad operazioni di finanza straordinaria. Le interviste a Stefano Barrese, Marco Gianolli e Alessandro Fracassi.
Matteo Bassetti e Sergio Abrignani (Imagoeconomica)
Abrignani in commissione: «Nessuno consultò il Css per tutto il 2020. Ci interpellarono sugli mRna solo l’anno successivo». E Bassetti ci prova: «Ho ricevuto fondi da Pfizer per gli antibiotici, non per i vaccini».
«Quanti quesiti ha ricevuto dal ministero della Salute nel 2020, quando era membro del Consiglio superiore di sanità?», chiedeva ieri Marco Lisei, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia. La domanda era rivolta a Sergio Abrignani, ordinario di Immunologia e immunopatologia presso l’Università degli Studi di Milano, poi da marzo 2021 componente del Comitato tecnico scientifico. «Solo una volta, di illustrare che cosa fossero i vaccini a mRna e quali quelli a vettore a vettore virale», è stata la stupefacente riposta del professore. Per poi aggiungere, a un’ulteriore domanda che chiariva il ruolo suo e dei suoi colleghi: «Dopo l’alert dell’Oms del 5 gennaio 2020 non siamo stati consultati. Solo nel gennaio 2021, per rivedere il piano pandemico influenzale Panflu».






