2021-05-23
Luigi Lardini: «Nonostante il Covid cresciamo in Corea»
Il direttore creativo dell'azienda di famiglia: «La pandemia è stata un disastro, ha fermato progetti come lo sbarco in Borsa, però abbiamo inaugurato due negozi a Seoul e Busan e lanciamo una nuova capsule collection formata da 15 capi».«Il Covid ha massacrato tutti in tutti i settori. Piano piano ne verremo fuori ma ci vorrà ancora del tempo». Luigi Lardini, direttore creativo del famoso brand del fiorellino, quello che si vede sul rever delle giacche indossate da tanti volti televisivi, patron dell'azienda di Filottrano (Ancona) nata nel 1978, che vanta una competenza sartoriale unica, parla a ruota libera con La Verità.«Non c'è certezza di recuperare il vecchio fatturato. Noi eravamo in forte ascesa, stavamo entrando in Borsa, facendo grossi progetti e aprendo nuovi negozi, ma si è bloccato tutto. È stato un disastro». I progetti sono stati solo rimandati?«Spero tanto di sì. Continuo a crederci ma sono convinto che servirà almeno un anno e mezzo per rimettersi in carreggiata. L'Ebitda, in questa situazione è crollato, entrare in Borsa adesso sarebbe come suicidarsi. Quindi aspetteremo il tempo necessario».Perché la scelta di sbarcare in Borsa?«Volevamo fare ancora di più, aprire molti punti vendita soprattutto in Giappone e in Corea e uno a Londra». In Corea ci siete andati lo stesso, però, con nuove aperture.«Sì, e stanno funzionando molto bene. In Corea abbiamo aumentato il fatturato. Nonostante la crisi siamo riusciti ad aprire due nuovi punti vendita a Seoul e a Busan. La Corea è un mercato fondamentale per la distribuzione della collezione Lardini, e con queste due nuove aperture, che si aggiungono ai sei punti vendita già esistenti, consolidiamo maggiormente il mercato. In Giappone, altro Paese per noi molto importante, le cose non vanno un granché bene, per non parlare di Europa e Italia. Gli Stati Uniti rappresentava ancora un fatturato irrisorio. Non ci siamo ancora in America nel modo in cui vorremmo e anche per loro è un momento molto complicato». Il vostro mercato di riferimento?«Era il Giappone, dove fatturavamo di più, poi l'Italia che è sempre stato il nostro fiore all'occhiello, e a seguire la Corea con le vendite dirette nei negozi. Italia e Germania sono i mercati in cui abbiamo sofferto di più».Ho letto che in Corea la riconoscono per strada come una star.«È vero, sia in Giappone sia in Corea. È molto imbarazzante. Prima vedi che ti indicano con il dito e poi ti appoggiano la mano sulla spalla per farsi dei selfie. I quotidiani più importanti di quei Paesi hanno spesso pubblicato le mie foto e quindi le persone mi riconoscono. L'espansione verso l'Oriente è stata positiva».E la Cina?«Ci siamo, abbiamo un paio di negozi. Ma non è il nostro primo mercato. Si fa sempre fatica in Cina. Per lo meno noi che non siamo un brand blasonato che può reggere il mercato con accessori, borse, borsette, scarpe, mentre il resto è solo vetrina, contorno. Noi siamo visti più come dei capospallisti. Comunque abbiamo avuto delle belle soddisfazioni con collezioni con giacche in maglia o maglieria leggera. Il mercato si sta spostando in quella direzione. E abbiamo venduto molto».Le cose stanno andando abbastanza bene, allora?«No, per me questo momento è peggio della seconda guerra mondiale, lo considero la terza. Prima c'erano distruzione e costruzione, adesso c'è solo la distruzione. Bisogna venirne fuori. Troppo lungo il periodo di chiusura, non ci sono state più occasioni per vestirsi bene. Andiamo in giro come dei clochard perché in casa ci si rilassa e non si indossa certo l'abito da sera con le scarpe tacco 12».Però ora ci sono importanti riaperture, con il coprifuoco spostato alle 23. «Ne stiamo venendo fuori, pare. Vediamo dei raggi di sole. Ci vuole del tempo per i negozi che fanno nuovi ordini sempre più piccoli e si ritrovano anche con l'estivo dell'anno scorso».Il Pitti riapre i battenti, sarà presente?«Stiamo valutando in questi giorni. Abbiamo fatto una prima riunione. Per ora è un “ni". Perché non credo serva molto ai primi di luglio quando i giochi sono ormai fatti. Però è la centesima edizione e quindi una data importante. Abbiamo partecipato a Pitti connect, la formula digitale con un video della sfilata organizzata nella nostra sala taglio. Siamo stati molto soddisfatti della riuscita perché il mood era quello giusto, ambientato nella natura». Lei crede nel digitale? Le vendite online sono state importanti in questo periodo?«Certamente. Perché non c'è un altro modo di vendere. Abbiamo creato la nostra piattaforma dove si possono vedere i capi indossati da un modello, guardare i tessuti abbinati e tutti i look. Ma mancano sempre i sensi, dal tatto alla vista e perfino all'olfatto perché il tessuto ha un odore, un suo profumo. Lo tocchi con mano, vedi la corposità, la pesantezza. È tutta un'altra cosa. Però i clienti si sono fidati di noi, di come li abbiamo indirizzati sulle novità della stagione».Riscontri positivi, quindi?«Abbiamo perso qualcosa soprattutto perché i nostri clienti dovevano smaltire prima i capi della stagione precedente». Tra le novità?«La capsule collection Luigi Cesare Romano Augusto arrivata alla terza stagione, una quindicina di pezzi estratti dalla collezione. Sono i miei quattro nomi perché allora era questa l'usanza, in chiesa oltre al primo nome dovevi darne altri tre. Compaiono nell'etichetta, verde perché la mia prima copertina, appena nato, era in quel colore». Lei veste anche la Juventus.«Sì, ma sono capi che mi hanno imposto. Se avessi avuto mano libera li avrei vestiti diversamente. Sarebbero stati più eleganti. Sono presuntuoso ma sono sicuro che avrebbero fatto una gran figura con giacche in maglia, polo, più sportivi per il giorno».Ha personale in cassa integrazione?«Sì, cerchiamo di far lavorare tutti anche se meno ore ricorrendo alla cig. L'abbiamo anticipata sempre noi. Quello che decideranno tra sindacati, Confindustria e governo a fine giugno non lo so ma speriamo facciano qualcosa fino a Natale perché non credo che permetteranno di licenziare i dipendenti». La politica aiuta?«Sono un uomo di destra da sempre però ora sono molto contento che ci sia Mario Draghi. Ha accontentato destra e sinistra ma alla fine decide lui. Questo è il governo che preferisco. Non siamo aziende da salvare, anzi ci salviamo da soli. Ma dobbiamo essere aiutati perché dal 1978 a oggi abbiamo dimostrato il nostro valore. Siamo ancora alla prima generazione, stanno entrando i figli e i nipoti. Ma il volante l'abbiamo ancora in mano noi fratelli: Andrea in amministrazione, Lorena in contabilità e Anna Rita alla produzione. Dobbiamo tenere duro ancora per sei o sette anni per riportare l'azienda agli splendori di 15 mesi fa, quando eravamo in forte ascesa. Ma ce la faremo, ne sono convinto».