2020-08-01
Non si dice ma c’è pure il referendum. Ecco come (e per che cosa) si vota
L'attenzione è concentrata sulle regionali, però a settembre si va alle urne per il taglio dei parlamentari. Favorevoli o contrari, gli schieramenti devono chiarire i dubbi e le criticità della riforma costituzionale.Vito Crimi getta acqua sul fuoco invano, il Movimento è allo sbaraglio: tra scontri interni e voltafaccia, si prepara a digerire perfino il Mes. Mentre il consenso si è dimezzato.Lo speciale contiene due articoli.Se ne sono accorti in pochi, eppure il prossimo 20 settembre in calendario non ci sono solo delle elezioni regionali, ma anche un referendum costituzionale confermativo, quello comunemente definito sul taglio dei parlamentari. A ben vedere, la scelta dell'accorpamento in un'unica data di votazioni così diverse sarà un elemento tutt'altro che neutro. A prima vista, infatti, un osservatore distratto potrebbe convenire con l'idea dell'election day: scadenze concentrate e il risparmio di qualche euro. Attenzione, però: le cose sono più complicate. Per quanto sia immaginabile un esito scontato della consultazione, accorpare quel voto a una scadenza regionale a fortissima intensità politica, con il grosso della campagna elettorale ad agosto, a televisioni di fatto spente (quasi senza talk show, senza approfondimenti, senza adeguata informazione radio-tv), significa accettare il precedente per cui una riforma costituzionale avverrà (o non avverrà) senza alcuna seria possibilità per i cittadini di discutere la posta in gioco.Ricordiamo di che si tratta. Nei mesi scorsi, è arrivata in porto una riforma costituzionale (quattro passaggi parlamentari) che porterebbe il numero dei deputati da 630 a 400 e quello dei senatori da 315 a 200. Su questa iniziativa, cara ai grillini, gli alleati del Pd ne hanno letteralmente combinate di tutti i colori: a lungo contrari alla riforma, sono poi divenuti favorevoli nell'ultima votazione, avendo nel frattempo varato il Conte bis. Dopo il quarto e ultimo voto (avvenuto alla Camera il 7 ottobre scorso con soli 14 contrari), si poteva aprire la finestra per sottoporre questa decisione a referendum. In questo caso, non si sono trovati 500.000 cittadini disposti a sottoscrivere la richiesta, ma hanno provveduto un quinto dei membri di una Camera, cioè una pattuglia trasversale di parlamentari. Morale: toccherà agli italiani dire sì o dire no alla conferma del taglio. Se prevalesse il no, ovviamente tutto resterebbe com'è ora. Se vincesse il sì, il primo adempimento necessario sarebbe sistemare la legge elettorale per adeguare il numero dei collegi al nuovo (e più piccolo) numero di deputati e senatori. Non credete a chi vi dirà che occorrano tempi biblici per questa operazione, con ciò chiudendo la strada a un eventuale scioglimento delle Camere, o affermando che la sistemazione dei collegi avrà effetti insuperabili sulla chiusura della legislatura, qualora il governo Conte andasse in crisi. Basterebbe solo ricavare - prima dell'eventuale scioglimento - il tempo strettamente necessario (e con l'impegno di tutti e la supervisione del Quirinale, si potrebbero evitare dilazioni temporali pretestuose) per approvare alla Camera e al Senato l'adattamento tecnico della legge elettorale al diminuito numero di parlamentari. Nei cassetti degli uffici legislativi giacciono simulazioni prontissime: si tratta solo di scegliere. Naturalmente, nel momento in cui si mette mano ai collegi resta da capire se, in extremis, qualcuno cercherà lo spazio anche per un'ulteriore correzione della legge elettorale: e non si tratta mai di scelte dagli effetti banali. Entrando nel merito del referendum, vale la pena di sollecitare i sostenitori delle due tesi opposte a qualche chiarimento. Ai sostenitori del sì, grillini in testa, si può forse rimproverare il fatto di aver dato solo una curvatura anticasta a un taglio che avrebbe avuto bisogno di una cornice coerente e chiara. Che forma di stato vogliamo? Che forma di governo preferiamo? Volete portarci a Washington (con il presidenzialismo), a Londra (con il premierato), o, purtroppo, a Tripoli, confermando l'attuale assetto parlamentarista ma aggravandolo con una legge ancora più proporzionale che ridurrebbe la politica italiana, perfino più di adesso, a una rissa tra tribù e fazioni? Avere oltre 300 parlamentari in meno (bene) servirà a poco se però saremo tutti appesi alle mutevoli volontà e ai piccoli ricatti dei partiti e partitini che diverranno decisivi per formare le coalizioni traballanti che ci governeranno. Serviva e servirebbe un respiro diverso. Ad esempio, proporre agli italiani un disegno coerente: un assetto istituzionale «decidente» (come in Usa o in Uk), un sistema elettorale coerente, e, in quel quadro, stando comunque attenti a evitare collegi troppo vasti che renderebbero i candidati «irraggiungibili» dagli elettori, una forte riduzione del numero dei parlamentari avrebbe senso. Non mancano criticità forti anche sul lato opposto, quello dei sostenitori del no, cioè di coloro che peraltro hanno promosso il referendum. In primo luogo, per l'evidente strumentalità con cui la raccolta di firme è avvenuta in Parlamento alcuni mesi fa: con molti peones (non tutti, per carità) che hanno firmato più che altro con il retropensiero di allungare la legislatura. In secondo luogo, perché la pura e semplice difesa degli attuali mille seggi pare a molti irrealistica, fuori dal tempo. Davvero qualcuno pensa di opporsi alla demagogia non con proposte di riforma serie e incisive, ma solo invocando la conservazione feticistica dell'esistente (e delle poltrone)? È il modo migliore di regalare ai moribondi grillini un piccolo trionfo. Forse vale la pena di fare il possibile, nonostante il mese di agosto, per invitare tutti a una discussione di fondo, evitando di mettere ancora una volta sotto i piedi la democrazia: dopo il Parlamento umiliato con i Dpcm, dopo il prolungamento anomalo dello stato d'emergenza, rischiamo la presa in giro di una non-campagna referendaria, di una modifica costituzionale rilevantissima che avverrà (o non avverrà) senza dibattito, senza alcuna vera discussione in grado di portare l'elettorato a un sì, a un no o a un'astensione in modo davvero libero e consapevole. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/non-si-dice-ma-ce-pure-il-referendum-ecco-come-e-per-che-cosa-si-vota-2646854535.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-m5s-cambia-pelle-per-la-poltrona" data-post-id="2646854535" data-published-at="1596227506" data-use-pagination="False"> Il M5s cambia pelle per la poltrona La scatoletta di tonno che i 5 stelle avevano giurato di aprire era di dimensioni considerevoli, ma non ha comunque saziato gli appetiti dei grillini. Sul rinnovo delle 28 commissioni è così andato in scena l'ultimo psicodramma pentastellato. Tra presidenti, vicepresidenti e segretari erano in ballo 168 poltronissime. Il Movimento, nonostante i robusti appetiti, è rimasto però a sbocconcellare gli avanzi del buffet. Inaudito. Tanto da meritare una raccolta di firme tra gli eletti, per protestare contro il direttivo. I riottosi meditano vendetta. Anche se non sembra abbiano né la forza né la voglia di strappare. Meglio digiuni che sull'uscio. Ma la resa è vicina. La crisi economica incombe. E le imminenti elezioni si annunciano disastrose. Giuseppe Conte s'è già appellato agli alleati: «Possibile non trovare un momento di sintesi agli appuntamenti regionali?». Possibilissimo. I giallorossi sono divisi quasi ovunque. Davanti al Movimento, si materializzano le disastrose percentuali racimolate, nell'ultimo anno, alle amministrative. Il capo politico Vito Crimi prova a gettare acqua sul fuoco: «Tutto questo dramma di non aver saputo difendere la capacità del M5s di imporsi nella maggioranza mi sembra non ci sia. Il Movimento è unito e va avanti. La maggioranza del partito è contenta dell'accordo»″, ha commentato. Ma lo scenario apocalittico non placa la rivolta. Tra i 5 stelle regna l'anarchia. I vertici, a partire da Crimi, sono considerati insignificanti e subalterni ai dem. Tutti sulla stessa barca fallata. Bisogna comunque restare a galla fino alla fine della legislatura, pena la deriva. L'ammutinamento, però, prosegue. Da una parte i governisti: con il vigile ossequio e la formale ortodossia, hanno guadagnato inimmaginabili strapuntini. Dall'altra, i movimentisti: quelli diventati, loro malgrado, marginali. Continuano a rimembrare i tempi andati. Lotta dura senza paura, poteri forti felloni, mai più vili compromessi: insomma, vaffanculo a tutti. Una pattuglia, ovviamente, pronta a rinunciare a ogni moto ideologico se saziata a dovere. Nel mentre, gli elettori se la danno a gambe levate. Per i sondaggisti, il consenso dei 5 stelle s'è dimezzato rispetto alle politiche del 2008. Oscilla tra 16 il 18 per cento. Prevedibile. I francescani che attaccavano ogni bramosia, sono i protagonisti del più pittoresco voltafaccia della storia repubblicana. Da sicuri alleati della Lega a fedeli scudieri dei democratici. Da destra a sinistra. Da gialloblù a giallorossi. Erano euroscettici, ma si preparano a intascare il Mes. Difendevano partite Iva e piccoli imprenditori, sono diventati smaccati statalisti: reddito di cittadinanza, aziende da redimere e nazionalizzazioni. Si fingevano guardiani delle frontiere, ma adesso spalleggiano l'accoglienza più lassista. E quei «delinquenti» dei democratici? Puah! Erano il Pdmenoelle. Berlusconiani mascherati. Ora sono imprescindibili colleghi, su indicazione di un altro che non aveva mai smesso di insolentire il centro sinistra. Ovvero Beppe Grillo, autonominatosi nel frattempo «l'Elevato». Traduzione: colui che può continuare a fare e disfare come meglio crede. Perfino perseverare negli accordi, a dispetto dell'imperante discordia, con il segretario dem, Nicola Zingaretti. Ma è il fondatore, poi, che comanda? E dov'è finito, proprio ora che servirebbe almeno un cenno? Boh. Così i peones, nella sovrana incertezza della ricandidatura, cominciano a guardare altrove. Verso la Lega. O Fratelli d'Italia, che ha già iniziato il reclutamento. Governo a rischio. Per i vertici pentastellati urge dunque riconquistare il cuore dei delusi. E il modo, adesso, sembra solo uno: celebrare quel bel congressone rinviato a data da destinarsi. Insomma, assomigliare sempre più agli alleati. A quel Pdmenoelle diventato stella polare nel cielo dell'Elevato.