2019-07-23
«Non scendo in pista per fuggire il male ma per sconfiggerlo davanti a tutti»
Rachele Somaschini, la campionessa di rally che lotta da anni contro la fibrosi cistica: «Basterebbe un po' di conoscenza per non infliggerla agli altri».«Gattonavo ancora e già in casa avevo la macchinina elettrica». Bionda, con gli occhi grandi e la parlantina a raffica di mitragliatrice, Rachele Somaschini apre la porta di un capannone dove finisce Milano e comincia la Brianza. Dentro c'è il suo mondo: tre macchine da rally, un ponte da meccanico, i set di gomme sull'attenti, le chiavi inglesi appese al muro in perfetto ordine fino all'infinito, un sacco da boxe con palestrina per gli allenamenti, una grande teca con i trofei che neanche al museo di San Siro, un simulatore di guida, un calcio balilla, un flipper. C'è anche un motorhome con una fiancata che sembra un biglietto da visita: campionessa italiana velocità in montagna, campionessa italiana minichallenge, campionessa di rally.Venticinque anni, gente ruggente con il fascino del casco e dei capelli al vento quando se lo tolgono. Nel caso di Rachele c'è molto di più: una strana compagna di viaggio fin dalla nascita, la fibrosi cistica. Una trappola dietro ogni curva, una malattia che non ti abbandona e ti costringe a terapie continue. Ma che lei si è messa in testa di gestire correndo, forse per disorientarla. «Io faccio i rally mentre un'altra persona con la fibrosi cistica è in lista per il trapianto polmonare e fatica a scendere dal letto. Non voglio fare il fenomeno, dipende dalla genetica e dall'evoluzione della malattia». Forse quando Ayrton Senna diceva «non c'è curva in cui non si possa sorpassare» pensava proprio a questo, al coraggio e alla forza d'animo, a quel mix di intelligenza e grinta che ti aiuta a prendere per mano il tuo destino e a condurlo dove vuoi. Sulla tuta, sul casco, sulla Citroën da gara, sui poster della Somaschini c'è una bella frase: «Sei tutti i limiti che superi». Ecco, possiamo cominciare da qui.Da dove arriva quel consiglio a sfondo letterario?«Da Angelica, la mia migliore amica, una ragazza che mi ha salvato la vita. Ci ha lasciati per sempre nel novembre scorso, aveva 26 anni ed era malata come me. Si è sottoposta al trapianto bipolmonare, ma ha avuto un rigetto e un tumore. Troppo. Aveva sempre la frase giusta, non ha mai perso il sorriso. Mi ha supportato meglio di un medico e mi ha lasciato tantissimo: una positività assoluta».Fondamentale per vivere due vite contrapposte, quella del paziente e quella del pilota impaziente.«È così da sempre, due ore di terapia al mattino e due ore la sera quando sei stanco e avresti voglia di divano. Ogni mese i controlli: se ti dicono che sei peggiorato poco, antibiotici. Se ti dicono che sei peggiorato tanto, ti aspettano due settimane di ricovero con lavaggi polmonari. È così da quando sono nata con questa alterazione d'una proteina che non fa funzionare il canale del cloro. I polmoni sono l'organo più colpito, il muco diventa più denso, basta uno sbalzo di temperatura per prendere una bronchite. Sono una Salty girl, come ci chiamano negli Stati Uniti».Che significa?«La concentrazione di sale nel sudore è anche cinque volte più alta del normale. La fibrosi cistica viene definita la malattia del bacio salato, perché quando la mamma bacia suo figlio, la pelle sa di sale».Era necessario diventare pilota di rally per fare terapia?«No, ma era destino. Mio papà Luca è un imprenditore, amava le corse e le praticava. A cinque anni mi regalò un Quad da 50 cc, un cinquantino, altro che bambole. A 14 anni ero in sella a una Ktm Motard da cross. A 18 anni e un mese ho preso la patente. Ho gareggiato con lui su una Giulietta sprint storica, ho corso a Monza e sono arrivata al traguardo. Non mi sono mai posta problemi e limiti».E mamma Monica che posizione aveva in griglia di partenza?«Tutti i piloti cominciano dal kart e lei non si sarebbe mai immaginata che lo facessi anch'io, con la fibrosi cistica. È sempre tenera e apprensiva. La capisco perché ha dovuto diventare infermiera per necessità. All'inizio mi diceva: non andare a cercarti altri problemi. Poi ha capito che la mia vita è questa e che in fondo le corse sono un mezzo».Quale sarebbe il fine?«Combattere con l'informazione contro questa malattia genetica molto diffusa. Far sapere a tutti che una persona su 25 è portatrice sana e potrebbe trasmetterla ai figli. La medicina ha fatto passi da gigante e oggi la prevenzione è determinante. Mi arrabbio perché un malato di fibrosi cistica costa allo Stato 15.000 euro al mese e con un esame del sangue semplicissimo, un test da 90 euro, quel costo potrebbe essere evitato. Ho varato l'iniziativa #correreperunrespiro, sostengo la Fondazione ricerca fibrosi cistica. In questi anni abbiamo raccolto 120.000 euro».Terapie, corse, ricoveri, allenamenti. Vittorie e sconfitte. Non è pesante?«C'è chi mi scrive: mio figlio non vuole fare l'aerosol. Io ho sempre affrontato tutto con rigore, applicazione. Mai stata una bambina problematica con la sindrome del rifiuto, anche se la mia valigia dei medicinali è più capiente di quella dei vestiti. L'anno psicologicamente più difficile è stato quello del diciottesimo, sapevo che dopo una festa con le amiche avrei dovuto affrontare febbre e mal di gola. Noi siamo più fragili e portati alle infezioni. A me la tosse passa dopo due mesi e se mi espongo al sole divento bordeaux. Discoteche proibite, sono nata vecchia. E su una macchina da corsa».Appunto, approfondiamo il palmarés e i contorni.«A 19 anni decido per le corse in salita e mi iscrivo alla Trento-Bondone, la più difficile. È amore a prima vista, è più bello della pista perché l'ambiente chiuso è sterile mentre su strada ci sono i tifosi ai bordi, c'è il senso della sfida dentro la natura. A 21 anni ho una Mini stradale modificata a regola d'arte per il campionato velocità in montagna. Faccio a sportellate con i colleghi veterani e comincio a vincere. Poi arriva il salto di qualità».Rally in Italia e all'estero. Cosa succede?«Succede che a fine 2017 mi contatta la Plus rally academy che si prefigge di valorizzare i giovani e mi propone di fare il campionato italiano rally. Sono 1.500 chilometri di gara in un weekend, io ero abituata a farne 50. Mio padre dice: ma sei sicura? Mia mamma: non ne voglio sapere. Mi sono sfinita in allenamento e ho dimostrato di potercela fare. Prima gara, mi ritiro al Ciocco per rottura del semiasse. Sai, un freno a mano troppo aggressivo. Seconda gara: rally di Sanremo. Lo finisco distrutta ma felice, con un sorriso che arriva alle tempie. Quest'anno ho fatto il Montecarlo, l'Everest dei rally: ghiaccio, fuoco e neve. Adrenalina pura. Ma non puoi dimenticarti della malattia, perché ogni tanto bussa».E quando succede, il mondo diventa piccolo come una stanza d'ospedale.«L'anno scorso i medici mi hanno trovato peggioratissima per colpa di un batterio di nuova generazione preso dai terricci e da ambienti umidi. L'unica cura erano due anni di terapia endovena con un cocktail di antibiotici. Li ho convinti a togliermi l'ago dal braccio mentre ero ricoverata perché dovevo correre il rally di San Marino. Poi il miracolo, il professore mi dice che c'è un miglioramento. Il batterio è lì in macchina con me, ma non fa danni».Come sei percepita dal mondo delle corse?«I colleghi vengono da me, comprano le magliette, mi vogliono bene quasi tutti. Solo qualche donna dice in giro che mi metto sul piedistallo con la scusa della fibrosi cistica. Ma più persone riesco a coinvolgere e ad aiutare a evitare la malattia, più sono contenta».Qual è stato il momento più felice della tua carriera?«Nel 2016 al Mugello mi ha premiato Alex Zanardi, un esempio, un eroe. Sono pazzamente innamorata di lui e nella foto si vede che ho gli occhi che escono dalle orbite».Correre via dalla malattia e dalla pazza folla. Correre contro il tempo. Ti sentì realizzata dentro la tua vita?«Sì, ci trovo energia e pienezza. Corro per superare i limiti come mi insegnò Angelica. La mamma che mi dice “Vai piano" alla partenza delle gare è tenera e stupenda. Ma non si può sentire».