
Le vicissitudini di un ricoverato nell’Alto Vicentino. I parenti non lo possono visitare. Non può vedere i suoi familiari anche se non ha il Covid, neppure il vaiolo delle scimmie. Isolato dal mondo esterno da quindici giorni, il signor G. oltre a star male nemmeno riceve il conforto di una visita perché nel reparto di medicina interna dove è ricoverato, all’ospedale Alto Vicentino di Santorso, ci sono stati alcuni pazienti positivi. Tre per l’esattezza, però siccome i tempi di incubazione sono di almeno cinque giorni, spiegano dalla direzione sanitaria dell’Ulss 7 Pedemontana, e non si sono contagiati tutti in un colpo, venti pazienti sono rimasti «congelati» sulla loro branda per due settimane, in attesa che il soffio di Omicron cambiasse direzione. L’anziano signore è ricoverato con seri problemi che nulla hanno a che fare con il virus cinese e le sue varianti, eppure al pari di altri degenti subisce un crudele isolamento in nome di un protocollo ospedaliero da inizio pandemia. Vi rendete conto che su 41 posti letto della medicina interna di questo ospedale, definito «culturalmente nuovo», inaugurato nel febbraio 2012, venti sono occupati da persone (con le patologie più diverse), che sono negative al tampone però rimangono isolate in quanto considerate possibili incubatoi di Covid? Ci immaginiamo anche con il minimo dell’assistenza, ovvero pochi accertamenti per evitare che l’eventuale virus circoli indisturbato per l’Alto Vicentino come è successo, visto che i tre pazienti erano entrati con tampone negativo. Forse già erano stati infettati e si è scoperto dopo. Forse la positività non la tieni lontana con green pass e mascherina imposti ai visitatori, di fatto non basta un test per trasformarti in malato Covid. Negli ospedali, invece, è ancora così. Tra percorsi obbligati, sanificazioni da lebbrosario, quarantene anche senza sintomi o positività, in tutta Italia i reparti continuano a funzionare con regole da piena emergenza sanitaria. «La situazione è stata spiegata dagli operatori sanitari sia ai pazienti, sia ai familiari», fanno sapere dall’Ulss 7, come se questo bastasse a tranquillizzare il figlio in ansia per le condizioni del genitore, o i parenti che non possono portare due parole di conforto al congiunto. Però «le visite saranno riaperte all’inizio della prossima settimana», precisano all’Alto Vicentino, cioè da oggi. Dopo quindici giorni di chiusura ingiustificata sotto il profilo sanitario, considerato come Omicron viaggia rapido ma con sintomi quasi sempre lievi. E se nel frattempo le condizioni di un ricoverato si fossero aggravate, i familiari dovevano accontentarsi di una chiamata al cellulare perché «in odore» di positività al Covid-19 un paziente perde ogni diritto di contatto con i propri cari? Sappiamo benissimo che nessuno fornisce informazioni telefoniche sulle condizioni di salute di un ospedalizzato, figuriamoci se una capo sala o un medico hanno tempo per intrattenersi in sala d’attesa con familiari angosciati. La disumanità procede di pari passo con l’idiozia di linee guida da osservare, imposte e mai modificate dal ministro della Salute, Roberto Speranza. Ospedali al collasso per mancanza di personale, eppure costretti a sospendere i sanitari non vaccinati, continuano a vivere nel terrore di un paziente positivo perché dal Pronto soccorso alle aree specialistiche l’organizzazione attuale separa l’assistenza, non la integra mediante «bolle» per chi risulta sintomatico o asintomatico. I malati, e i loro familiari, ne pagano le conseguenze.
Quest’anno in Brasile doppio carnevale: oltre a quello di Rio, a Belém si terrà la Conferenza Onu sul clima Un evento che va avanti da 30 anni, malgrado le emissioni crescano e gli studi seri dicano che la crisi non esiste.
Due carnevali, quest’anno in Brasile: quello già festeggiato a Rio dei dieci giorni a cavallo tra febbraio e marzo, come sempre allietato dagli sfrenati balli di samba, e quello - anch’esso di dieci giorni - di questo novembre, allietato dagli sfrenati balli dei bamba che si recheranno a Belém, attraversata dall’equatore, per partecipare alla Cop30, la conferenza planetaria che si propone di salvarci dal riscaldamento del clima.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Il 9 novembre 1971 si consumò il più grave incidente aereo per le forze armate italiane. Morirono 46 giovani parà della «Folgore». Oggi sono stati ricordati con una cerimonia indetta dall'Esercito.
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Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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Teresa Ribera (Ansa)
Il capo del Mef: «All’Ecofin faremo la guerra sulla tassazione del gas naturale». Appello congiunto di Confindustria con le omologhe di Francia e Germania.
Chiusa l’intesa al Consiglio europeo dell’Ambiente, resta il tempo per i bilanci. Il dato oggettivo è che la lentezza della macchina burocratica europea non riesce in alcun modo a stare al passo con i competitor mondiali.
Chiarissimo il concetto espresso dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: «Vorrei chiarire il criterio ispiratore di questo tipo di politica, partendo dal presupposto che noi non siamo una grande potenza, e non abbiamo nemmeno la bacchetta magica per dire alla Ue cosa fare in termini di politica industriale. Ritengo, ad esempio, che sulla politica commerciale, se stiamo ad aspettare cosa accade nel globo, l’industria in Europa nel giro di cinque anni rischia di scomparire». L’intervento avviene in Aula, il contesto è la manovra di bilancio, ma il senso è chiaro. Le piccole conquiste ottenute nell’accordo sul clima non sono sufficienti e nei due anni che bisogna aspettare per la nuova revisione può succedere di tutto.









