2020-12-29
Non è un Paese per chi dice la verità. Condannata giornalista di Wuhan
Isaac Wong/SOPA Images/LightRocket via Getty Images
Quattro anni di prigione a Zhang Zhan, la blogger che pubblicò i video reportage sui primi focolai di Covid esplosi in città. Arrestata a maggio, rischia la vita per lo sciopero della fame. Per il regime ha diffuso «informazioni false».Raccontare l'origine del Covid 19 a Wuhan costa il carcere. Zhang Zhan, ex avvocato diventata blogger arrestata a maggio dalle autorità cinesi, è stata condannata ieri a quattro anni di reclusione dal tribunale di Shanghai. Udienza brevissima. La sentenza: colpevole di aver diffuso «informazioni false» con i suoi video reportage girati mentre nella città dell'Hubei focolaio del virus si parlava di «polmonite misteriosa». «Il governo», raccontava nei suoi reportage, «non ha fornito alla gente informazioni sufficienti, quindi ha semplicemente bloccato la città. Questa è una grande violazione dei diritti umani». Oggi le sue condizioni di salute destano grande preoccupazione: a causa dello sciopero della fame iniziato a giugno dopo l'arresto è alimentata forzatamente tramite un sondino nasale. Cercare la verità sull'origine del coronavirus sembra una preoccupazione di pochi, per giunta sempre più osteggiata da Pechino. E la condanna di ieri di Zhang (prima dei quattro blogger arrestati per aver raccontato gli eventi di Wuhan a finire a processo) potrebbe suonare come un avviso alla squadra internazionale di esperti dell'Organizzazione mondiale della sanità che a giorni sarà in Cina per indagare sulle origini del Covid 19.Tra loro c'è anche lo zoologo britannico Peter Daszak, convinto che la teoria del virus fuoriuscito dal laboratorio di Wuhan sia una «fesseria». Ma il suo curriculum fa sorgere qualche perplessità: ha lavorato in passato, nell'ambito di un progetto internazionale, con la professoressa cinese Shi Zhengli, oggi a capo dell'Istituto di virologia di Wuhan. E se a questo aggiunge gli sforzi di Pechino per rallentare le attività dell'Organizzazione mondiale della sanità a inizio anno e la promessa delle autorità cinesi di seguire la squadra di esperti in ogni sua mossa, ecco che ci troviamo davanti a una serie di circostanze assai poco favorevoli per eventuali scoperte che inchiodassero il regime di Xi Jinping alle sue responsabilità sulla pandemia.Il caso di Zhang non è il primo. Il più clamoroso ha riguardato Li Wenliang, il medico-eroe di Wuhan che avvisò per primo le autorità locali della pericolosità del Covid 19 e che per questo fu richiamato all'ordine e accusato di aver diffuso «dicerie». «Dicerie» su quello stesso virus che lo uccise poche settimane più tardi. Dopo la sua morte, il regime ha cercato di mettere il cappello sulla sua storia, dipingendolo come un martire. La sua morte ha rappresentato una vera e propria «sfida senza precedenti» per Pechino, come ammettono gli stessi funzionari della censura cinese stando ai documenti rivelati la scorsa settimana da New York Times e ProPublica: le autorità inviarono numerosi direttive per controllare i dibattiti online e contenere la rabbia del popolazione. Tuttavia, anche a dieci mesi dalla sua scomparsa e nonostante la propaganda di regime, l'opinione pubblica cinese non sembra disposta a bersi la narrazione di Pechino riconoscendo, invece, l'importanza delle denunce dell'oftalmologo e le responsabilità del regime. Tra le voci critiche silenziate dalla Cina ci sono anche molti giornalisti. Domenica l'organizzazione Human Rights Watch ha denunciato che «le autorità cinesi hanno intensificato le detenzioni arbitrarie di giornalisti e attivisti che denunciavano la pandemia Covid 19 e altre questioni, o criticavano il governo». Tra questi, arrestati per ragioni di «sicurezza nazionale» non meglio specificata: Cheng Lei, giornalista sino-australiana che lavorava per la tv di Stato cinese Cgtn; Du Bin, fotografo freelance cinese che ha lavorato anche per il New York Times, i cui libri sembra abbiano innervosito anche il presidente Xi; e Haze Fan, giornalista cinese di Bloomberg. «La detenzione di giornalisti e attivisti non farà sparire i veri problemi della Cina», ha commentato Yaqiu Wang, ricercatore di Human Rights Watch.Chi rischia di fare una figura se possibile peggiore di quella di Pechino è l'Unione europea, impegnata a trovare una intesa sull'accordo sugli investimenti con la Cina. Sette anni di trattative, 35 round negoziali: il solito tempismo perfetto (sarcasmo!) dell'Unione europea. Ieri, mentre Pechino condannava Zhang, gli ambasciatori dei 27 si riunivano per discutere il trattato dopo il forte pressing della Germania nelle ultime settimane. La cancelliera Angela Merkel punta a chiudere l'accordo entro fine anno, cioè entro il termine del suo semestre di presidente del Consiglio dell'Unione europea. È disposta perfino a ignorare gli appelli del Parlamento europeo, che chiede maggiori garanzie da Pechino sulle condizioni di lavoro, sulla reciprocità commerciale e sulla minoranza uigura. Senza dimenticare i timori degli Stati Uniti, espressi nei giorni scorsi da Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente eletto Joe Biden. I 27 hanno passato i quattro anni di Donald Trump lamentandosi delle mosse unilaterali di Washington. Quest'accelerazione nei negoziati rischia dunque di non avere altro vincitore che Pechino, che intanto continua a lavorare per tappare la bocca ai critici e pure ai dissidenti di Hong Kong.