2023-09-02
Nomade ma bergamasco: è lo stracchino
È il «figlio» in movimento delle vacche in transumanza, «strache» (stanche) perché esauste. A crearlo sono stati i «bergamini» diventati, da pastori erranti delle valli orobiche nel Trecento, veri e propri imprenditori e maestri dell’arte casearia d’alta quota.Bergamo, per certi versi, è sempre stata un mondo a parte nel panorama lombardo. Un po’ per la sua storia, per secoli terra di confine tra la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano. Un po’ per la sua stessa geografia, composta da un ventaglio di valli ognuna, a sua volta, con caratteristiche e tradizioni proprie. Ma c’era chi aveva visto lontano. Un certo Gino Veronelli, milanese del quartiere Isola, eletta Bergamo sua patria adottiva, non ebbe esitazioni: «È la reale capitale della cultura gastronomica».Tifoseria di parte? Mai mettere limiti alla Provvidenza. Però, se si va a indagare, si verifica come, di quarti di nobiltà golosa, la patria di Gaetano Donizetti e Vittorio Feltri ne abbia diversi nella sua bisaccia, oltre ad essere stata proclamata, assieme a Brescia, Capitale italiana della Cultura 2023. Ad esempio, dei cinquantacinque formaggi nazionali a denominazione Dop (eccellenza certificata a livello europeo), ben nove vedono Bergamo protagonista. L’Unesco ha concesso la denominazione di Città creative per la gastronomia a tre campanili. Alba per il Tartufo, Parma per le eccellenze suine e… Bergamo per il formaggio. Se poi andiamo a ravanare negli archivi delle guide stellate, Bergamo eccelle con maestri di mestolo che hanno fatto la storia della cucina italiana, ad iniziare dalla famiglia Cerea in quel di Brusaporto.Ci soccorre, in tutto questo, una riflessione di una tra le più attente studiose della civiltà materiale, la brava Irene Foresti, la quale sottolinea come «il cibo sia un bene culturale portatore di valori identitari forti». Fino ad alcuni anni fa, la cucina Bergamasca, a parte i suoi mestoli stellati, aveva sempre seguito un profilo riservato, quello della cucina quotidiana, della tradizione familiare, anche se, già in epoca rinascimentale, ne Il cuoco bergamasco alla casalinga, si segnalava come «sono proprio le valli la culla dell’identità culturale della Bergamasca».Valli in cui la transumanza delle greggi era la regola che dettava lo spostamento di uomini e armenti e, non a caso, ecco ancora l’Unesco che ha inserito anche la Bergamasca tra le Testimoni del patrimonio immateriale dell’umanità riservato alla transumanza assieme ad altri percorsi tra Italia, Austria e Grecia. Una civiltà di valle che vedeva protagonisti, ognuno con i suoi ruoli, bovini, pecore o capre. La capra, oltre a monticare dove altri non arrivavano, era fonte di «Berna», una sua carne sgrassata, essiccata e aromatizzata, conservata avvolta attorno a stecche di larice. I pastori in alpeggio la consumavano lentamente e con parsimonia, una sorta di chewing proteinico.La pecora, oltre a essere generosa fornitrice di lana, veniva ricordata a futura memoria con salami e prosciutti. La vacca bruna alpina, compagna di mille avventure con i suoi pastori, ovvero i «bergamini». Un mondo a parte che ha fatto la storia della civiltà rurale di un’ampia area che, dalla Cergamasca, si estendeva ai confini di Veneto, Emilia, Piemonte. Comunità seminomadi le cui prime tracce risalgono al Trecento quando, bonificate le pianure, vi fu chi si industriò per portare il bestiame in alpeggio nella bella stagione per poi svernare in pianura con un bagaglio di saperi, tradotti poi in sapori quotidiani, che hanno influito in maniera importante nell’economia del tempo. Erano chiamati «bergamini» perché, all’inizio, si spargevano nelle pianure provenienti essenzialmente dalle valli bergamasche. Poi il termine ha ricompreso tutti quelli che si dedicavano alla monticazione estiva.Ne dà un bel ritratto Stefano Jacini, padre dell’inchiesta agraria dell’Italia post-unitaria: «Sono veri e propri imprenditori, con una particolare attenzione e organizzazione razionale del lavoro. Pianificano sin nei minimi dettagli il tragitto transumante». Facilmente riconoscibili per una mise vestiaria molto originale a iniziare dallo «scussal», una sorta di grembiule da casaro che divenne via via una vera e propria divisa, come il tabarro, il cappello, il portamento. Tuttavia non sufficienti a risparmiare l’ironia di Giovanni Bignami: «Si possono facilmente riconoscere a occhi chiusi per il loro aroma di stracchino e ricotta». Erano queste le loro eccellenze, accompagnate da un linguaggio, il gaì, per cui non servivano dizionari di sorta. «Un lessico ricco di doppi sensi e sottointesi, accompagnato da una mimica facciale volta a far capire alla controparte il vero senso di quel che si intende dire, parlando lentamente a bassa voce».Un linguaggio, probabilmente di antica origine celtica, oramai divenuto patrimonio di pochissimi reduci. I bergamini sono gli artefici di una delle eccellenze delle valli bergamasche, lo stracchino. Un formaggio svilito dalla modernità, quella dei bancali della Gdo, ma con una storia che va raccontata per le mille sorprese che riserva. Non più tardi di qualche settimana fa un bravo ristoratore dolomitico commentava così l’uso dello stracchino: «È detto “straco” (stanco, in veneto), perché molliccio». Tutt’altro. Era il figlio, in movimento, delle vacche in transumanza, “strache” (loro sì stanche) perché esauste, alla fine della giornata, o all’alba prima di monticare, quando i bravi bergamini le alleggerivano del loro oro bianco e lo lavoravano secondo necessità nei calèc, piccole stazioni di sosta delimitate da muretti di pietra e un telo a protezione. Il poco latte non si poteva trasformare in burro, quindi di pronto reddito, come avveniva in pianura ma nemmeno conservare per altre lavorazioni, anche per le difficoltà di trasporto. Ed ecco allora l’ispirazione bergamina: armati di caldaie mobili, sottoponevano la cagliata a una lavorazione a caldo, risparmiando anche in legna da ardere, e ottenevano delle formaggelle morbide che mettevano nelle apposite formature di legno, dette «fassarol», con ripartizioni quadrate per ogni forma. Questo sia per sfruttare al massimo il poco spazio a disposizione nel carro da transumanza a due ruote, la bareta, sia per evitare che rotolassero a valle se fatti rotondi come i formaggi tradizionali, al primo tornante galeotto. Stracchini di pronto consumo, dopo poche settimane, ma anche insospettabili patriarchi di una dinastia casearia che va dal taleggio al gorgonzola. Eppure, nella Milano del tempo, i commercianti di settore erano ben distinti. C’erano i «furmagiatt», rivenditori aspecifici di cacio, e gli «strachinat», specialisti dedicati. Un formaggio dalla base molto eclettica e dalle diverse potenzialità, a seconda della lavorazione, con variazioni di pasta, crosta e colori tanto che qualcuno lo ha definito come «il tulipano dei formaggi».Variamente interpretato nello spirito del tempo, come Carlo Porta che, facendo memoria di un pranzo cui era stato invitato, evidentemente poco gradito, annotò di «un freddo arrosto e un itterico stracchino». Nobilitato, invece, in una commedia in scena a Bologna, dove sul palco si ritrovò l’aristocrazia del tempo. Il Cavalier Turrone, da Cremona, il Barone del Zampone da Modena e il Principe Stracchino da Milano.Come è strana la vita. Mentre il poeta Carlo Frugoni lo esaltava, in una sua ode, «spalmato sul pane è come dolce burro saporito che solletica fuor d’uso il palato più squisito», lungo i Navigli le mamme della porta accanto raccontavano dello «stracchinello», ovvero il piccolo esito del rigurgito delle loro creature dopo la poppata quotidiana, mentre di patire della «malattia dello stracchino» era tacciato il giovincello un po’ troppo paffuto per la sua età.
Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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