2018-07-30
«Noi nati in provetta vi raccontiamo la follia del mercato degli embrioni»
Parlano i bambini prodotti in vitro: «Rubano la nostra identità». Gli affari, le fiere, i dottori senza scrupoli. Altro che paradiso.«L'etica è cambiata quando il mercato ha scoperto che si potevano guadagnare tanti soldi fabbricando bambini on demand. Io sono una di quelli». Ecco il buio sul fondo della provetta, il dramma che i paladini dell'allegro scientismo e del progressismo da boutique del centro non vogliono vedere quando si scagliano contro il ministro Lorenzo Fontana che dice stop alla fecondazione eterologa, alla maternità surrogata. Eppure basta illuminare la penombra psicologica dove vivono quelli che furono bambini in provetta per cogliere qualcosa di illogico e di straniante. E basta ascoltare le parole asciutte di Stephanie Raeymaekers e dei suoi compagni di viaggio per mettere in dubbio l'umanità di una pratica che tiene in gran conto il capriccio degli adulti e in nessun conto il dramma dei figli. I quali si costruiscono un'esistenza apparentemente normale (sono avvocati, ricercatori, impiegati, piloti d'aereo) ma sono accompagnati da una tenera, disperata ossessione: conoscere chi li ha creati.Stephanie è belga, ha 39 anni e ha scoperto di essere figlia di una provetta a 25 quando, durante una festa, un amico di famiglia un po' alticcio si è lasciato scappare la verità che i suoi genitori non le avevano mai rivelato. «Il peggior modo di saperlo, da quel momento mi sono sentita come un prodotto comprato al supermercato al quale era stata tolta l'etichetta». Lei si arrabbiò moltissimo, rifiutò quell'aridità genealogica e cominciò a cercare il suo papà naturale. «È vivo? È morto? Quanti fratelli ho? Mi pensa? Lo ha fatto per i soldi o per aiutare gli altri? La mia vita era semplice, d'un tratto è diventata complicata».Poi ha scoperto di non essere sola e ha creato un'associazione che si chiama Donorkinderen (Figli di donatori), grazie alla quale aiuta gli altri ex bambini in provetta a cercare i genitori e a ritrovare se stessi. «Sto per arrivare a scoprire anche il mio. La cartella clinica di mia mamma è stata deliberatamente distrutta dal medico specialista, così la mia unica possibilità di inchiesta è stato il test del Dna. L'ho fatto e ho scoperto di avere una corrispondenza con qualcuno in Canada. Gli antenati di questa persona venivano dal Belgio, sono a buon punto. Ma tutto questo a livello sociale non è evoluzione, è pura follia».Chi celebra come un grande risultato i 40 anni di Louise Brown, la prima bimba nata in provetta, mostra solo ideologica superficialità. Levate i calici, ma di torno e in fretta, soprattutto se vi trovate nel raggio d'azione di Audrey Kermalvezen, avvocato francese di 35 anni, sposata con un uomo concepito in provetta come lei, che vive con un incubo: «Essere nati dallo stesso genitore». Nessuno parla, nessuno spiega, cartelle secretate. Lei ci ha scritto sopra un libro: Le mie origini, un affare di Stato. E quando ha saputo di essere stata partorita con l'eterologa ha capito il significato di un incubo che la perseguitava da bambina: «Quando ero piccola sognavo sempre un uomo che arrivava e mi portava via. Poi chiedevo continuamente ai miei genitori se mi avevano adottata. All'età di 23 anni scelsi di specializzarmi in diritto bioetico, pur non sapendo ancora nulla della mia storia». Il seme di uno sconosciuto. La reazione più diffusa alla notizia è rabbia, delusione cieca per la menzogna famigliare. Poi, come spiega l'avvocato Kermalvezen nelle sue conferenze, questa si placa mentre prende forma il risentimento nei confronti dei medici. «Quei dottori avevano creato tutte le condizioni per mantenere il segreto, scegliendo un donatore che assomigliava a mio padre e dicendo a lui e a mia madre di non rivelarci nulla». Ecco, il ruolo dei camici bianchi non è secondario. Stanno comodi sullo sfondo, si nascondono dietro regole e protocolli. Ma un'umanità che cerca se stessa chiede conto anche a loro delle ragioni di questo scempio. ferita non rimarginataRiassume per tutti la combattiva Raeymaekers: «I dottori vengono visti come dei santi, ma sono stati loro ad oltrepassare per primi i confini etici, a condurre la società verso il consumismo della procreazione, a fare di un bambino un asset. Vuoi un figlio? Posso fartelo avere. Come bambole perfette con cui giocare, ma così i bimbi perdono la loro integrità». Poi sintetizza con un concetto enorme, che la mette in gioco come persona: «Penso che i miei genitori avrebbero dovuto accettare la loro infertilità di coppia, loro non avevano il diritto di avere figli».Le storie si rincorrono, ci inseguono sul web come fantasmi di uomini e donne che vogliono riprendere in mano il loro futuro cercando certezze nel passato. Anzi, nel primo atto supremo della loro vita. C'è l'americana Caroline Stephens di Pittsburgh che fa parte del gruppo anonimousus.org e racconta: «L'ho saputo quando avevo nove anni, da quel giorno mio padre si è sentito sollevato perché mi rivelò che ogni volta che mi guardava vedeva in me la prova della sua infertilità. So che ho il naso aquilino di mia mamma, ma per me il resto è un mistero. Quando ero una ragazzina immaginavo che mio padre fosse qualcuno in tv. Qualcuno famoso come nelle favole. Durò fino a 16 anni, poi ho cominciato a sentirmi ingannata, derubata di metà della mia identità e rifiutata da mio padre». Ne è seguita una fase durissima con vena autodistruttiva. Altro che conquista sociale, un inferno. «Ero ossessionata dalla ricerca del mio vero padre e dalla paura che mi avrebbe respinta. Sono uscita da quel tunnel di profondo dolore grazie a molti anni di psicoterapia, anche se la ferita non si è ancora rimarginata e mai lo farà. Però ho smesso di cercare il mio papà biologico. Non mi piace pensare di essere nata solo perché uno studente aveva bisogno di soldi».Il ministro Fontana non ha fatto altro che armarsi di buon senso e guardare il lato oscuro della luna. A fronte di tutto ciò la società occidentale del «tutto è possibile» tira diritto, seduta dalla parte della ragione a prescindere, definendo retroguardia bigotta chi non accetta il mercato degli affetti. A Bruxelles c'è una rassegna inquietante che neppure il più etilico degli autori di fantascienza avrebbe potuto immaginare. Si chiama Fiera della Riproduzione, è organizzata per il mondo gay e vi si reclamizzano bambini meravigliosi, perfetti da comprare con l'utero in affitto, con un listino prezzi per quasi tutte le tasche. «Un'esperienza scioccante perché questa gente viene a mostrarti come crea i bambini e ti dice anche che è tutto normale», denuncia la Raeymaekers.seme per contrattoFigli per tutte le tipologie di coppie, anche per nonni che vogliono sentirsi genitori in tarda età, con la madre in menopausa e una serie di conseguenze raccontate da Paolo B. che oggi ha 52 anni ed è stato vittima di una moda in grande incremento (anche di fatturato). «I bambini come me rischiano di ritrovarsi orfani in giovane età o con genitori vecchi e bisognosi di tutto. C'è da considerare cosa significhi essere adolescenti con genitori ultrasessantenni che demonizzano qualunque cosa esuli dalle loro esperienze giovanili. Ti dicono: ai nostri tempi non esistevano le playstation, i cd, i concerti, le notti bianche, gli smartphone, Internet. Ogni tentativo di far uscire la famiglia dagli anni Trenta o Quaranta si trasforma in uno scontro generazionale. Vivi una vita da diverso in mezzo ai coetanei e ti senti continuamente definire “bastone della vecchiaia". Smettiamola di considerare i figli come un diritto assoluto dei genitori e impariamo a rispettare i limiti dettati da madre natura, che non esistono per caso».Così un intero popolo ha qualcosa da ridire, anzi da urlare a questo mondo dei capricci e del progresso senza etica al quale anche i sacerdoti - impegnati con tutte le forze a ribadire l'accoglienza diffusa e solo quella - sembrano passivamente adeguarsi. Con un ultimo aspetto, forse il più sconvolgente, raccontato da Michele Rossitto, ingegnere elettronico che lavorava nella Silicon Valley e un giorno decise di diventare un donatore seriale. Firmò il contratto e cominciò a mettere a disposizione il suo seme. «Le mie motivazioni erano egoistiche: volevo dei bambini e mi piaceva l'idea che avrei avuto una famiglia in senso lato, figli biologici senza le responsabilità. In America la donazione era ben vista, come una funzione sociale». Anni dopo è stato travolto dal desiderio di conoscere i suoi dieci figli; ha inserito il suo codice nel database e li ha trovati. «Abbiamo cominciato a scambiarci foto». Sul pianeta di Blade Runner lui si sente moderno e contento.