2020-10-28
«Noi, i 30 bambini dimenticati del Vajont»
Micaela Coletti (Sergio del Grande/Mondadori via Getty Images)
A Longarone perse padre, madre, nonna e due sorelle. Presiede il comitato dei sopravvissuti al disastro del 1963. Un cavillo li privò del risarcimento per la perdita della casa. Nessuna abitazione per loro nemmeno quando Montedison versò 77 miliardi al Comune.Quando la frana di 260 milioni di metri cubi di roccia staccatasi dal monte Toc, nella valle del Vajont, precipitando nell'invaso artificiale sbarrato dalla faraonica diga costruita dalla Sade e oltrepassandola, generò il terrificante spostamento d'aria e l'immane onda d'acqua, Micaela Coletti era una bambina di 12 anni che abitava con il papà, la mamma, la nonna, altre tre sorelle e un fratello in una casa in piazzetta San Liberale a Longarone. Di quel fabbricato, vicino alla chiesa, non rimase nulla, nemmeno le fondamenta. Mancavano pochi minuti alle 23. Era il 9 ottobre 1963. Lei si era appena infilata nel letto e quell'improvviso cataclisma la lanciò in volo per 500 metri. La ritrovarono sotto una coltre di mota e detriti, con una mano e un piede affioranti. I soccorritori dissero: «Ecco un'altra vecchia». «Non sono una vecchia» ebbe la forza di rispondere. Travolti dall'onda, persero la vita, in maniera agghiacciante, il papà (Sergio, 43 anni), la mamma (Giacomina, 40 anni), la sorella (Leila, 16 anni), un'altra sorella (Annalisa, 11 anni). La nonna Annita, 67 anni, un minuto prima del disastro, aveva proferito le sue ultime parole: «Chiudo bene le imposte. C'è il temporale». In realtà era una sera serena e di luna piena. Da quell'apocalisse che causò almeno 1.923 morti, per quanto il mai chiarito bilancio sia superiore, della sua famiglia sopravvissero soltanto lei, la sorella maggiore (Matelda, 17 anni) e il fratellino (Giancarlo, 6 anni), rinvenuti in punti diversi di quel deserto di macerie e fango che diventò Longarone, un paese fino a quel momento felice delle Dolomiti bellunesi tanto da essere chiamato «la piccola Milano», per le sue fiorenti attività commerciali e turistiche. Quella di Micaela Coletti fu l'unica famiglia di Longarone con tre figli superstiti rimasti completamente senza alcun parente diretto che potesse sostenerli nel riconoscimento dei propri diritti in un disastro colposo nel quale la società incriminata, la Sade, rilevata nel 1962 dall'Enel e poi dalla Montecatini (in seguito Montedison), ebbe come avvocato difensore Giovanni Leone, presidente del Consiglio al momento della sciagura e in carica fino al 4 dicembre 1963, il quale disse alle popolazioni colpite: «Avrete giustizia». Salvo poi avvalersi di una norma giuridica, l'istituto della «commorienza», che servì a privare molti superstiti di giusti risarcimenti o a determinarne una sostanziale decurtazione. Il processo si concluse, in Cassazione, il 9 aprile 1971, un giorno prima della prescrizione e con pene minime per gli imputati ancora viventi, ma la vicenda giudiziaria si trascinò fino al 2000, quando, per patteggiare con le numerose cause civili ancora in corso, Montedison versò al Comune di Longarone 77,3 miliardi di lire di risarcimento. Tuttavia, di quei 30 minorenni, bambini e ragazzi sotto i 16 anni che, dopo la sciagura, rimasero pressoché completamente soli, nessuno si è ricordato. È lo scandalo nello scandalo, anime indifese travolte dal destino, doppiamente vittime. Micaela Coletti li rappresenta tutti, è presidente del Comitato sopravvissuti del Vajont.Lei, sua sorella e suo fratello avete ottenuto qualche forma di risarcimento dopo il processo svoltosi a L'Aquila e finito in Cassazione?«Nel 1970, ciascuno di noi tre abbiamo ricevuto un risarcimento di 6 milioni 780.000 lire, versati in un libretto che non ho potuto toccare fino a quando sono diventata maggiorenne. Fino ad allora avevo un tutore, un personaggio di Livorno che non so che fine abbia fatto ma che ha approfittato e lucrato sulla situazione. Per quanto altri abbiano deciso per noi, facevamo parte di quelli che avrebbero ottenuto questo indennizzo a patto di mettere una firma per non costituirsi parti civili al processo, come molti altri sono stati indotti a fare».E per la perdita della vostra abitazione?«Assolutamente nulla. Ciò anche per la norma della commorienza, in base alla quale, non essendoci stati documenti che attestavano la trasmissione dell'eredità della casa da mia nonna a mio padre e a mia madre, ed essendo morti tutti nello stesso sinistro, è come non ci fosse stata alcuna eredità».Ma quei 77 miliardi di lire dati dalla Montedison al Comune di Longarone in seguito alla firma del concordato, non dovevano servire per risarcire i familiari delle vittime della comunità?«Sì, si sarebbe dovuto dire: bene, ora che dopo 37 anni le risorse sono arrivate, costruiamo una casa per questi 30 bambini».E invece?«E invece niente. Questi soldi sono stati impiegati per ristrutturare il cimitero delle vittime del Vajont a Fortogna, un lavoro che si poteva evitare dato che hanno tolto le croci storiche e messo dei cippi bianchi con i nomi che nemmeno si vedono, per fare una piazza, dare contributi per ritinteggiare le pareti esterne delle abitazioni. Ma noi, dopo la tragedia, non abbiamo mai avuto diritto di aprire bocca. È stato solo la rappresentazione di Marco Paolini (trasmessa su Rai 2 nel 1997, ndr) a rompere il silenzio su questa strage volutamente dimenticata e allora ho capito che si è trattato, letteralmente, di un assassinio di Stato».Perché non avevate diritto di aprire bocca?«Perché - e questo l'ho saputo nel corso del tempo - era passata l'immagine che la popolazione colpita dalla sciagura vivesse a spese dello Stato. Tutti tacevano. Nessuno più ha parlato di questa tragedia. E alcuni si sono approfittati».Ad esempio?«Nei giorni successivi al disastro, arrivava a Longarone molto denaro frutto di donazioni e di raccolte promosse dai giornali. L'Unità raccolse 14 milioni di lire. Non si sa che fine abbiano fatto. So di persone, sacerdoti compresi, trovati al confine con la Svizzera con valigie di soldi della solidarietà al Vajont». Mai pensato di intentare una causa di vostra iniziativa?«No, anche perché ci sarebbero state solo spese per gli avvocati. E inoltre è sempre rimasto quel marchio addirittura infamante, ci avrebbero visto come quelli che vogliono soldi».Quando ha deciso di costituire il Comitato dei sopravvissuti del Vajont?«Nel 2001. Il sindaco di allora, Pierluigi De Cesaro, il cui padre ebbe un cugino appena nato scomparso nell'onda, ci concesse a titolo gratuito una stanzetta con una lampadina e senza un telefono in un edificio di fronte al municipio. Ma nel 2014, l'attuale sindaco ci disse che c'erano dei lavori da fare e ci ha privato di questa sede. Allora ho portato tutta la documentazione a casa mia, ma non è semplice, perché l'appartamento dove abito è di soltanto 54 metri quadrati».Cosa ricorda di quella sera del 9 ottobre 1963?«Continuo a chiedermelo da 57 anni. È stata una questione di pochissimi secondi. Un gran tuono, aria, acqua. Il letto ha preso il volo, la casa scomparsa, e poi mi sono ritrovata sommersa dal fango dove oggi c'è la biblioteca».Dopo il suo ritrovamento, cosa accadde?«Fui trasportata all'ospedale di Pieve di Cadore, dove stetti due mesi. Sto ancora aspettando che qualcuno mi dica che i miei genitori sono morti. Poi, un giorno, mi portarono una gonna e una maglietta e fui condotta da una zia che non avevo mai visto prima, a Belluno. Anche lei non mi disse mai nulla. Percepiva un affitto pagato dal Comune per ospitarmi. Sempre questioni di denaro, già…».E poi cosa accadde?«A 18 anni conobbi un uomo, mi fidanzai per tre mesi, e mi sposai. Ci separammo nel 1990. Dovevo trovarmi un lavoro ma trovai molte difficoltà, dato che anche il nostro diritto di “orfani del lavoro" - mio padre lavorava alla diga del Vajont dopo aver fatto l'autista di camion - non lo considerava nessuno. Nel 2001, da Belluno, tornai a Longarone».Com'è stata l'esperienza di quel ritorno?«Non è stata una buona esperienza, perché quando cercavo di parlare con le persone, con gli anziani, con vecchie compagne di scuola, trovavo soltanto estraneità. Nessuno intendeva più tornare su quella vicenda. Avrei voluto qualcuno che mi raccontasse di mia madre e mio padre, anche perché ricordavo soltanto che due giorni prima della tragedia li avevo sentiti parlare tra loro. Dato che c'era grande paura e i vecchi dicevano “Quella diga sarà la nostra morte", progettavano di portarci a Belluno. Ciò che mi resta di loro è una fotografia che una nostra zia di Roma ha conservato. E un'altra che trovai a L'Aquila nel '98 tra i documenti del processo, con il corpo martoriato di mio padre quando fu ritrovato, riconosciuto solo perché aveva i documenti. Fu l'unico dei miei familiari a essere riconosciuto. Sotto molte croci, qui al cimitero di Fortogna, in realtà ci sono resti che non si è mai saputo di chi fossero, parti di cadaveri diversi sistemati in un'unica cassa. Furono riconosciute 726 salme, 600 rimasero senza nome perché nessuno poteva identificarle, o perché dei corpi delle vittime non fu mai ritrovato nulla». Il municipio, per un soffio, fu risparmiato dall'onda. Sono rimasti documenti?«Sono rimasti, ma anche quelli è come fossero sepolti. Noi bambini sopravvissuti fummo dimenticati. Gli imputati scontarono quasi niente di carcere. Fino a quando ci siamo noi restano frammenti di memoria e dopo che l'ultimo morirà, il Vajont sarà un'altra cosa».
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