2023-03-26
Nell’inferno della nuova Bakhmut, che sposta il fronte della guerra
A Kostyantynivka un missile russo colpisce un centro per rifugiati. Ma le vittime non sembrano solo civili, come sostengono i media locali. Intanto Chasiv Jar viene risucchiata velocemente al centro del conflitto.niccolò celestida KramatorskLe notizie di un quotidiano locale parlano di un attacco in una struttura umanitaria alle porte della cittadina di Kostyantynivka. Quando arriviamo sul luogo del misfatto capiamo immediatamente che non è la solita azione offensiva. Questa volta, molto probabilmente, è stato utilizzato un missile di grandi dimensioni. Lo si vede bene dal tipo di distruzione, che ha devastato qualunque cosa nel raggio di 30 metri.Notiamo un grande cratere, che nel frattempo si è riempito d’acqua a causa della rottura di un tubo: è distante una ventina di metri dall’edificio che è appena crollato, ma poi, avvicinandoci alle macerie, notiamo un altro cratere, che per metà è stato riempito dai detriti spostati da una ruspa, che ora è parcheggiata lì davanti. I media parlano di vittime civili: tre donne e due uomini ricoverati in ospedale. Alcune persone ci spiegano che questo luogo prima era un Centro dell’invincibilità, che ospitava profughi provenienti da Chasiv Jar, la cittadina più prossima alla tristemente famosa Bakhmut. Intorno a questo luogo, che è diventato spettrale per l’entità della distruzione, ci sono parecchi edifici a cui alcuni militari stanno applicano pannelli di legno alle finestre esplose. Perlustrando per bene l’area inciampiamo in qualcosa di sinistro. Non abbiamo notizie di morti tra i militari e nessuno parla della loro presenza, ma un casco buttato in una scatola di legno, con parecchi guanti celesti da chirurgo attira il nostro sguardo. Ci avviciniamo, sappiamo riconoscere dei guanti usati da poche ore. Poi guardiamo il casco, dove qualcuno ha anche gettato un succo di frutta, che giace in ciò che rimane del cervello di un uomo. Poco più in là, una divisa militare con il giubbotto antiproiettile quasi interamente intrisa di sangue, la scatola di un drone professionale Matrice e altre tracce di materiali militari. Non ci è dato sapere di più, ma qui qualcosa non torna. Troviamo una signora, che indossa una giacca rossa, ci dice placidamente che gli è stato chiesto di non parlare con i giornalisti. Poco più in là, continuando il giro intorno all’edificio, respiriamo a pieno la potenza delle deflagrazioni: decine di brandelli di vestiti sono ricaduti sugli alberi intorno all’edifico; per terra, frammenti di stoffa disintegrata, plastica bruciata, giochi per bambini, molle di materasso, detriti di ogni genere. Siamo abituati a visitare i luoghi di un bombardamento, ma ciò che ci lascia molti interrogativi è il fatto che qui sono stati usati missili (pensiamo S-300) che hanno una gittata e un costo molto più alti dei normali razzi, che generalmente vengono utilizzati sulle abitazioni e nelle aree civili, per sconvolgere la popolazione.l’ultimo salutoDalla strada da cui siamo provenuti vediamo un Van bianco che supera la nostra vettura, parcheggiata poco distante, e imbocca un vialetto, passando proprio davanti al cratere, per fermarsi davanti alla palazzina dove avevamo visto un viavai di persone. Da quel furgone bianco viene scaricata una bara, che viene destinata a un’anziana signora. Il cadavere viene trasportato fuori, su una barella appena preparata. La donna, che è stata ritrovata sotto le macerie, ha i piedi legati e la classica garza intorno al mento e alla testa. È stata rivestita con abiti semplici, probabilmente non i suoi. Quando riportano dentro la barella e la lasciano sola davanti al furgone è come se il tempo si fermi. Non ci resta che salutare quest’ennesima vittima della guerra, che probabilmente aveva già iniziato a soffrire tempo prima, quando aveva dovuto abbandonare la propria casa, sotto i colpi dell’artiglieria. Lasciamo questo posto con la sensazione che le notizie diffuse dalle testate locali non abbiamo riportato esattamente tutti i fatti e corriamo verso Chasiv Jar. I fronti vanno verificati giorno per giorno, in modo da capire i cambiamenti in corso, così da non dover interpretare le voci, spesso contrastanti e confusionarie, che si rincorrono di persona in persona. Da Kostyantynivka si imbocca una stradina che va verso Nord, nelle campagne. La grande arteria Avtoshlyakh T0504, non è più percorribile ed è sotto il tiro dell’artiglieria russa. Non ci resta che questa strada, per lo più sterrata, ma con qualche pezzo nel quale si intravede il vecchio asfalto, nei tratti dove passa tra i piccoli insediamenti di contadini che coltivavano i campi di queste dolci colline. Si fa lo slalom tra una buca e l’altra. In questi nove mesi di assedio, i carri armati, le jeep e i mezzi pesanti dei militari, che fanno la spola con il fronte, hanno reso il suolo così compromesso che in alcune parti sono stati creati dei bypass, che attraversano i campi al lato della strada.traffico bellicoIn un villaggio, a circa 20 minuti dalla cittadina, i soldati si sono insediati nelle case abbandonate. E in un boschetto che scende giù verso il crinale di una collina, le nuove leve si addestrano a sparare con i kalashnikov e con i mitragliatori. Si tratta di un posto perfetto per alcuni giornalisti, che si fermano qui bardati di tutto punto e fanno le loro dirette come se fossero a pochi metri dal combattimento, ma questa è un’altra storia, che racconteremo più avanti. Si prosegue e il traffico si fa più intenso. Mezzi e jeep con unità di soldati armati fino ai denti affollano le arterie che provengono dal fronte, dalla direzione di Bakhmut, e si immettono nella strada che stiamo percorrendo, sia per raggiungere che per lasciare Chasiv Jar, alla volta delle zone di combattimento. Per proseguire su questa strada ormai non ci servono più le mappe offline scaricate nei primi giorni, visto che in molti punti, mentre ci si avvicina alla cittadina, la connessione sparisce. La zona però ormai la conosciamo bene, siamo venuti qui almeno quattro volte nell’ultima settimana e le condizioni della città non ci stupiscono.Arrivati a qualche chilometro, ci fermiamo per indossare le protezioni. Questa volta decidiamo di portarci verso il Centro dell’invincibilità direttamente in macchina. Ci prepariamo quindi a dare indicazione a Eugene, il nostro driver, con le poche parole che conosciamo per poterci orientare: «Leva» (sinistra), «Prima» (dritto), «Prava» (destra), «Davai davai» (quando ce dà correre). Eccoci nella strada che entra a Chasiv Jar: i campi sulla sinistra e i classici palazzoni sovietici sulla destra. Appena facciamo i primi 300 metri, capiamo subito che qui la situazione è completamente cambiata rispetto a due giorni fa: la strada, a tratti, è completamente invasa dai detriti e bisogna stare attenti a non bucare le gomme. Gli alberi hanno i rami squarciati dalle esplosioni avvenute alla loro base. Si prosegue più avanti e si arriva in quella che è la piazza principale della città, dove accanto al monumento ai caduti ucraini che combatterono nella guerra sovietico-afghana, un palo della luce è stato colpito e si ripiegato su sé stesso, cadendo a terra.Più in là, l’intera porzione centrale di un palazzo è stata centrata da un grosso missile, probabilmente un altro S-300. Svoltiamo a destra in un viale, dove ci sono almeno tre crateri di grosse dimensioni. La terra fresca ricaduta intorno ci ricorda le fontane di farina dove si buttano le uova per fare la pasta fresca. Si va avanti veloci, evitando i detriti e ascoltando il rumore degli impatti dei colpi in entrata e il suono più secco dell’artiglieria ucraina in uscita. Arriviamo e parcheggiamo davanti al Centro dell’invincibilità, anch’esso colpito. Alcuni volontari stanno avvisando la popolazione che domani, 27 marzo, il Centro verrà chiuso. Appendono un cartello alla porta per scoraggiare le persone ad andarci e per provare a convincerle a evacuare la città.Troviamo alcuni militari che fumano fuori dall’ingesso dello scantinato di un palazzo. Ci chiedono subito: «Cosa fate qui? Non c’è più nessuno». Siamo gli unici giornalisti dentro Chasiv Jar e arrivano colpi in ogni momento, ma intanto loro, come gli altri civili, se ne stanno tranquillamente fuori a fumare. Con il rischio che il prossimo ordigno cada nelle vicinanze. Come l’ultimo di poche ore prima, a circa 50 metri, che sta ancora bruciando delle casette utilizzate come ripari per la macchine. Facciamo subito un giro per questo quartiere. I colpi sono arrivati dappertutto, a ogni passo ci sono detriti, punti di impatto di mortai, macchine accartocciate. Girato l’angolo di un palazzo, un soldato cerca di salvare dei pezzi da un’automobile che è stata centrata da un mortaio, incurante della situazione. Probabilmente questa notte ci sono stati bombardamenti molto intensi. Ora, tra virgolette, c’è qualcosa di simile alla calma. Non osiamo pensare a cosa significhi la confusione da queste parti. In un altro palazzo, sempre davanti all’ingresso di uno scantinato, c’è una piccola guarnizione di soldati, quasi tutti anziani. Stanno fumando tenendosi il più possibile verso l’ingresso. Ci fanno subito entrare nel bunker là sotto. «È pericoloso, ora ricominciano sparare, riparatevi qui», ci dicono. Poi ci danno la password del loro prezioso Starlink, l’unica finestra con il mondo che oltre a permettergli di comunicare con le altre unità - perché le radio a volte sono più intercettabili - riesce a regalargli un momento di svago: chi guardando Facebook o Instagram, chi le notizie o comunicando su Whatsapp con la famiglia.sigarette tra le bombeAnche noi approfittiamo di questa pausa obbligata nel sottosuolo, dove questi uomini dai volti neri dalla polvere e dalla fuliggine della stufa, sono quasi increduli di vederci. Guardiamo le mappe, traduciamo alcune indicazioni che ci vengono date e aspettiamo il momento più opportuno per andare. Fuori si sentono i colpi, per lo più e per fortuna, questa volta lontani da questo quartiere.Dopo un quarto d’ora in cui l’attesa diventa sempre più snervante, decidiamo che non sapremo mai se c’è un vero momento opportuno per andare via. E con il loro consenso decidiamo di agire. Corriamo verso la macchina e facciamo tutto il percorso a ritroso, stupendoci dei civili che camminano per la strada, incuranti dei bombardamenti. Ascoltiamo i colpi, sperando che non ne capiti uno sulla nostra macchina. Una volta fuori dalla città, ripresa la strada di campagna, tiriamo un sospiro di sollievo: possiamo dire che Chasiv Jar ormai fa parte di un fronte unico con quello di Bakhmut. E anche qui si gioca il futuro di questa parte di conflitto.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)