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2022-08-17
Nelle Parlamentarie dei pentastellati gareggiano i parenti di chi è a fine corsa
Giuseppe Conte (Ansa)
Gli iscritti al M5s hanno terminato ieri sera alle 22 di votare sulla piattaforma Sky Vote per scegliere i candidati alle elezioni del prossimo 25 settembre. I più giovani, almeno cinque, hanno 25 anni, il più anziano, un ex sacerdote, ne ha 84. C’è anche il leader del Movimento, Giuseppe Conte, che punta al collegio della Camera Lazio 1 e ha scelto il low profile: nella sua scheda sul portale neanche la foto, soltanto nome e cognome, luogo di nascita, Volturara Appula, età, 58 anni, e genere.
Parlamentarie però sempre meno per una scelta dal basso e sempre più esempio di vera partitocrazia, ben lontana dallo spirito del Movimento che doveva rappresentare il cambiamento. Da una parte il rischio di ex infiltrati tra gli attivisti al voto, dall’altra gli eletti del capo politico tra paracadutati e fedelissimi piazzati in collegi blindati e nel mezzo la classica parentopoli. Della serie «tengo famiglia», i trombati del terzo mandato o gli ex pentastellati di rilievo hanno risolto gli «affari di famiglia» piazzando fratelli, fidanzati o mariti (un po’ come succede dalle parti del Pd con le mogli) facendo lievitare il mugugno chiaro e distinto della base, presente ormai da giorni.
Tra i nomi noti, candidato alla Camera nel collegio Lombardia 1, c’è Davide Buffagni, 32 anni, fratello di Stefano, deputato ed ex viceministro allo Sviluppo economico. Nella scheda sul portale M5s, Buffagni, diplomato come perito informatico, si presenta come «imprenditore e restaurant manager». Nel collegio Lombardia 3 si candida invece Samuel Sorial, fratello dell’ex deputato Giorgio. «Ho 30 anni, sono dottore in giurisprudenza e attualmente collaboro con uno studio legale della mia città, Brescia, occupandomi principalmente di diritto civile, commerciale e internazionale», scrive l’aspirante onorevole. Ergys Haxhiu è invece il compagno del ministro delle Politiche giovanili, Fabiana Dadone, che si candida nel collegio Piemonte 2, mentre da Velletri arriva Paolo Trenta, fratello di Elisabetta, ex ministro nel primo governo Conte. Ora è consigliere comunale ma aspira al Senato.
Non solo parenti, però. Tra le autocandidature ci sono quelle degli ex deputati Paolo Bernini, Michele dell’Orco (sottosegretario ai Trasporti del primo governo Conte) e Bruno Marton, senatore fino al 2018 e poi collaboratore di Vito Crimi. In lizza per la Camera anche Andrea Mazzillo, per un anno assessore al Bilancio nella giunta capitolina di Virginia Raggi. Al Senato guarda invece Andrea Venuto, ex delegato del sindaco all’Accessibilità universale. L’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa correrà per il Senato in Campania, mentre nella sua Sicilia si presenta l’ex sindaco di Porto Empedocle, Ida Carmina. Nel listino blindato di Conte, mal digerito un po’ da tutti, ci sono i quattro vice Michele Gubitosa, Riccardo Ricciardi, Alessandra Todde e Mario Turco, più altri big come l’ex ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli e l’ex sindaco di Torino, Chiara Appendino, entrambi candidati alla Camera. Poi la capogruppo al Senato, Maria Domenica Castellone, e la sottosegretaria, Barbara Floridia. Non mancano all’appello l’ex capogruppo al senato, Ettore Licheri, e il componente del direttivo del gruppo parlamentare, Francesco Silvestri. Nella lista anche personalità della società civile come l’ex procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, e Dario Vassallo, fratello del sindaco antimafia di Pollica, Angelo, ucciso nel 2010. Ma anche Roberto Scarpinato, uno dei protagonisti del nuovo corso della Procura di Palermo dal 1992 in poi.
Pensando alla transizione ecologica, Conte punta sul professor Livio De Santoli, docente alla Sapienza ed esperto di energia e ambiente. C’è, inoltre, il notaio del Movimento, Alfredo Colucci, altro fedelissimo contiano che compare nell’organigramma del Movimento in qualità di «organo di controllo» con il compito di vigilare, tra le altre cose, sulle «deliberazioni degli Organi associativi». Ha smentito invece i rumor su una possibile candidatura il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico.
Ieri mattina, in apertura di Parlamentarie, l’appello accorato dell’ex senatore Danilo Toninelli tra i più critici dei nomi blindati: «Votiamo i nostri portavoce. Cerchiamoli nei listini liberi e aperti, dove tutti partono dalla stessa linea di partenza. I listini bloccati lasciamoli a Giorgia Meloni o a Enrico Letta. Una candidata come Chiara Appendino merita di essere eletta perché ha preso più voti dagli iscritti grazie al suo eccellente lavoro da sindaco, non perché è blindata da una scelta che non c’entra con la democrazia diretta».
Un altro dissidio tra i grillini ruota attorno alla contestata norma che consente, per la prima volta nella storia del Movimento, la candidatura anche in un collegio diverso da quello di residenza. La prima a beneficiarne è la deputata uscente Vittoria Baldino, eletta nel Lazio alle passate politiche e candidata in Calabria per questa tornata. La candidatura è stata addirittura oggetto di un esposto inviato a Conte e al comitato di garanzia pentastellato da Alessia Bausone, ex candidata alle regionali, la quale chiede di valutare l’eventuale violazione del codice etico da parte di Baldino, «in quanto beneficiaria di una presunta attività clientelare».
Di Maio dribbla le accuse di plagio ma critiche e sondaggi lo affossano
Negli stessi minuti in cui Luigi Di Maio affrontava il suo debutto da vicepremier nel 2018, nella piazza romana dei Santi Apostoli, che fu dell’Ulivo, Bruno Tabacci, al fianco del papà dei dem, Walter Veltroni, di Luca Lotti, di Laura Boldrini e di Pier Ferdinando Casini invocavano «unità, unità» contro il governo pentaleghista. Con il reggente dell’epoca, Maurizio Martina, che si era convinto che quella fosse la fine delle divisioni. Solo quattro anni dopo Di Maio e Tabacci, in nome della coerenza politica si stringono la mano sotto l’ape Maia mellifera di Impegno civico, simbolo con il quale correranno alle politiche del 25 settembre. Un accordo che permetterà al movimento del ministro degli Esteri di dribblare la difficile raccolta delle firme necessarie per quei simboli che non hanno avuto una rappresentanza autonoma in Parlamento dall’inizio della legislatura. Il generoso Tabacci, però, aveva già salvato i parlamentari scissionisti del Movimento 5 stelle, permettendogli di formare i propri gruppi alla Camera e al Senato. E quello deve essere stato il laboratorio. «È il mio figlio politico», ha detto Tabacci. E Di Maio ha ricambiato, facendo gongolare il nuovo babbo, parlando subito dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Che, invece, quando nel 2019 Matteo Salvini propose di cancellarlo, lo vedeva parlarne in questo modo: «Non è togliendo un reato che sistemi le cose. Il prossimo passo quale sarà? Che per far evitare di far dimettere un sottosegretario togliamo il reato di corruzione?». E ancora: «Se qualcuno pensa di poter aiutare qualche governatore abolendo un reato, allora troverà non un muro ma un argine».
L’argine d’argilla deve essere crollato dopo qualche lezioncina politica dell’ex scudocrociato, che quando Di Maio era ancora nella culla faceva già il presidente della Regione Lombardia. Dal canto suo il maestro burattinaio Tabacci, in un’intervista al Corriere, ha svelato di essere «incuriosito dalla sua evoluzione, tanto ero distante dal primo Di Maio, tanto sono in piena sintonia con il Di Maio che si autodefinisce senza se e senza ma draghiano». E infine ha spiegato: «Per il resto da diccì convinto mi vengono in mente le parole di Papa Roncalli: “Se incontri un viandante non chiedergli da dove viene, domanda dove sta andando”». E Di Maio vuole andare di nuovo in Parlamento, ovviamente. Mettendo da parte quello che pensava dei voltagabbana: «Questa è la legislatura con il maggior numero di cambi di casacca, introduciamo un sistema di vincolo di mandato», blaterava. A questo proposito ieri Matteo Renzi è stato lapidario: « L’uomo dei gilet gialli, di Bibbiano, dell’impeachment a Mattarella. L’uomo senza vergogna elemosina un collegio: che fine ha fatto la dignità in politica?».
Ma anche l’onestà deve essere andata a farsi friggere. E il ministro degli Esteri si è beccato pure un’accusa di plagio politico dal consigliere provinciale del Lazio, Fabio Desideri, che, anni fa, proprio con la lista Impegno civico, vinse le elezioni diventando sindaco di Marino. «Lista, simbolo e nome sono depositati», aveva ammonito Desideri, che possiede un atto notarile stagionato di 20 anni. Nonostante le polemiche, il via libera sarebbe comunque arrivato dal Viminale: simbolo regolare. Anche se un sondaggio G.d.c. dà la sigla allo 0,9%. Tabacci e Di Maio ieri hanno quindi caricato a bordo pure il Partito socialista democratico italiano (Psdi). Il nuovo che avanza.
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Il voto sulla piattaforma non evita guai al M5s. Tra i pretendenti ci sono fratelli, compagni e aiutanti dei grillini con due mandati.Luigi Di Maio dribbla le accuse di plagio ma critiche e sondaggi lo affossano. Il patto con Bruno Tabacci contraddice la breve storia di Giggino. Da ieri alleato pure del Psdi. Lo speciale comprende due articoli.Gli iscritti al M5s hanno terminato ieri sera alle 22 di votare sulla piattaforma Sky Vote per scegliere i candidati alle elezioni del prossimo 25 settembre. I più giovani, almeno cinque, hanno 25 anni, il più anziano, un ex sacerdote, ne ha 84. C’è anche il leader del Movimento, Giuseppe Conte, che punta al collegio della Camera Lazio 1 e ha scelto il low profile: nella sua scheda sul portale neanche la foto, soltanto nome e cognome, luogo di nascita, Volturara Appula, età, 58 anni, e genere. Parlamentarie però sempre meno per una scelta dal basso e sempre più esempio di vera partitocrazia, ben lontana dallo spirito del Movimento che doveva rappresentare il cambiamento. Da una parte il rischio di ex infiltrati tra gli attivisti al voto, dall’altra gli eletti del capo politico tra paracadutati e fedelissimi piazzati in collegi blindati e nel mezzo la classica parentopoli. Della serie «tengo famiglia», i trombati del terzo mandato o gli ex pentastellati di rilievo hanno risolto gli «affari di famiglia» piazzando fratelli, fidanzati o mariti (un po’ come succede dalle parti del Pd con le mogli) facendo lievitare il mugugno chiaro e distinto della base, presente ormai da giorni. Tra i nomi noti, candidato alla Camera nel collegio Lombardia 1, c’è Davide Buffagni, 32 anni, fratello di Stefano, deputato ed ex viceministro allo Sviluppo economico. Nella scheda sul portale M5s, Buffagni, diplomato come perito informatico, si presenta come «imprenditore e restaurant manager». Nel collegio Lombardia 3 si candida invece Samuel Sorial, fratello dell’ex deputato Giorgio. «Ho 30 anni, sono dottore in giurisprudenza e attualmente collaboro con uno studio legale della mia città, Brescia, occupandomi principalmente di diritto civile, commerciale e internazionale», scrive l’aspirante onorevole. Ergys Haxhiu è invece il compagno del ministro delle Politiche giovanili, Fabiana Dadone, che si candida nel collegio Piemonte 2, mentre da Velletri arriva Paolo Trenta, fratello di Elisabetta, ex ministro nel primo governo Conte. Ora è consigliere comunale ma aspira al Senato. Non solo parenti, però. Tra le autocandidature ci sono quelle degli ex deputati Paolo Bernini, Michele dell’Orco (sottosegretario ai Trasporti del primo governo Conte) e Bruno Marton, senatore fino al 2018 e poi collaboratore di Vito Crimi. In lizza per la Camera anche Andrea Mazzillo, per un anno assessore al Bilancio nella giunta capitolina di Virginia Raggi. Al Senato guarda invece Andrea Venuto, ex delegato del sindaco all’Accessibilità universale. L’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa correrà per il Senato in Campania, mentre nella sua Sicilia si presenta l’ex sindaco di Porto Empedocle, Ida Carmina. Nel listino blindato di Conte, mal digerito un po’ da tutti, ci sono i quattro vice Michele Gubitosa, Riccardo Ricciardi, Alessandra Todde e Mario Turco, più altri big come l’ex ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli e l’ex sindaco di Torino, Chiara Appendino, entrambi candidati alla Camera. Poi la capogruppo al Senato, Maria Domenica Castellone, e la sottosegretaria, Barbara Floridia. Non mancano all’appello l’ex capogruppo al senato, Ettore Licheri, e il componente del direttivo del gruppo parlamentare, Francesco Silvestri. Nella lista anche personalità della società civile come l’ex procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, e Dario Vassallo, fratello del sindaco antimafia di Pollica, Angelo, ucciso nel 2010. Ma anche Roberto Scarpinato, uno dei protagonisti del nuovo corso della Procura di Palermo dal 1992 in poi. Pensando alla transizione ecologica, Conte punta sul professor Livio De Santoli, docente alla Sapienza ed esperto di energia e ambiente. C’è, inoltre, il notaio del Movimento, Alfredo Colucci, altro fedelissimo contiano che compare nell’organigramma del Movimento in qualità di «organo di controllo» con il compito di vigilare, tra le altre cose, sulle «deliberazioni degli Organi associativi». Ha smentito invece i rumor su una possibile candidatura il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico. Ieri mattina, in apertura di Parlamentarie, l’appello accorato dell’ex senatore Danilo Toninelli tra i più critici dei nomi blindati: «Votiamo i nostri portavoce. Cerchiamoli nei listini liberi e aperti, dove tutti partono dalla stessa linea di partenza. I listini bloccati lasciamoli a Giorgia Meloni o a Enrico Letta. Una candidata come Chiara Appendino merita di essere eletta perché ha preso più voti dagli iscritti grazie al suo eccellente lavoro da sindaco, non perché è blindata da una scelta che non c’entra con la democrazia diretta». Un altro dissidio tra i grillini ruota attorno alla contestata norma che consente, per la prima volta nella storia del Movimento, la candidatura anche in un collegio diverso da quello di residenza. La prima a beneficiarne è la deputata uscente Vittoria Baldino, eletta nel Lazio alle passate politiche e candidata in Calabria per questa tornata. La candidatura è stata addirittura oggetto di un esposto inviato a Conte e al comitato di garanzia pentastellato da Alessia Bausone, ex candidata alle regionali, la quale chiede di valutare l’eventuale violazione del codice etico da parte di Baldino, «in quanto beneficiaria di una presunta attività clientelare».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nelle-parlamentarie-dei-pentastellati-gareggiano-i-parenti-di-chi-e-a-fine-corsa-2657871860.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="di-maio-dribbla-le-accuse-di-plagio-ma-critiche-e-sondaggi-lo-affossano" data-post-id="2657871860" data-published-at="1660679708" data-use-pagination="False"> Di Maio dribbla le accuse di plagio ma critiche e sondaggi lo affossano Negli stessi minuti in cui Luigi Di Maio affrontava il suo debutto da vicepremier nel 2018, nella piazza romana dei Santi Apostoli, che fu dell’Ulivo, Bruno Tabacci, al fianco del papà dei dem, Walter Veltroni, di Luca Lotti, di Laura Boldrini e di Pier Ferdinando Casini invocavano «unità, unità» contro il governo pentaleghista. Con il reggente dell’epoca, Maurizio Martina, che si era convinto che quella fosse la fine delle divisioni. Solo quattro anni dopo Di Maio e Tabacci, in nome della coerenza politica si stringono la mano sotto l’ape Maia mellifera di Impegno civico, simbolo con il quale correranno alle politiche del 25 settembre. Un accordo che permetterà al movimento del ministro degli Esteri di dribblare la difficile raccolta delle firme necessarie per quei simboli che non hanno avuto una rappresentanza autonoma in Parlamento dall’inizio della legislatura. Il generoso Tabacci, però, aveva già salvato i parlamentari scissionisti del Movimento 5 stelle, permettendogli di formare i propri gruppi alla Camera e al Senato. E quello deve essere stato il laboratorio. «È il mio figlio politico», ha detto Tabacci. E Di Maio ha ricambiato, facendo gongolare il nuovo babbo, parlando subito dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio. Che, invece, quando nel 2019 Matteo Salvini propose di cancellarlo, lo vedeva parlarne in questo modo: «Non è togliendo un reato che sistemi le cose. Il prossimo passo quale sarà? Che per far evitare di far dimettere un sottosegretario togliamo il reato di corruzione?». E ancora: «Se qualcuno pensa di poter aiutare qualche governatore abolendo un reato, allora troverà non un muro ma un argine». L’argine d’argilla deve essere crollato dopo qualche lezioncina politica dell’ex scudocrociato, che quando Di Maio era ancora nella culla faceva già il presidente della Regione Lombardia. Dal canto suo il maestro burattinaio Tabacci, in un’intervista al Corriere, ha svelato di essere «incuriosito dalla sua evoluzione, tanto ero distante dal primo Di Maio, tanto sono in piena sintonia con il Di Maio che si autodefinisce senza se e senza ma draghiano». E infine ha spiegato: «Per il resto da diccì convinto mi vengono in mente le parole di Papa Roncalli: “Se incontri un viandante non chiedergli da dove viene, domanda dove sta andando”». E Di Maio vuole andare di nuovo in Parlamento, ovviamente. Mettendo da parte quello che pensava dei voltagabbana: «Questa è la legislatura con il maggior numero di cambi di casacca, introduciamo un sistema di vincolo di mandato», blaterava. A questo proposito ieri Matteo Renzi è stato lapidario: « L’uomo dei gilet gialli, di Bibbiano, dell’impeachment a Mattarella. L’uomo senza vergogna elemosina un collegio: che fine ha fatto la dignità in politica?». Ma anche l’onestà deve essere andata a farsi friggere. E il ministro degli Esteri si è beccato pure un’accusa di plagio politico dal consigliere provinciale del Lazio, Fabio Desideri, che, anni fa, proprio con la lista Impegno civico, vinse le elezioni diventando sindaco di Marino. «Lista, simbolo e nome sono depositati», aveva ammonito Desideri, che possiede un atto notarile stagionato di 20 anni. Nonostante le polemiche, il via libera sarebbe comunque arrivato dal Viminale: simbolo regolare. Anche se un sondaggio G.d.c. dà la sigla allo 0,9%. Tabacci e Di Maio ieri hanno quindi caricato a bordo pure il Partito socialista democratico italiano (Psdi). Il nuovo che avanza.
Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
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Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
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Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
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