2025-04-10
«Nel calcio si vince usando la psicologia»
Alberto Cei. Rete (iStock)
Il cattedratico già consulente della Figc: «Parte tutto dalla testa, perché è un gioco primordiale che rimanda alla caccia: la preda è la porta. La mentalità può essere allenata. I momenti chiave dei match? Oltre ai minuti finali, quelli attorno all’intervallo».Alberto Cei è uno psicologo. Insegna Coaching all’università Tor Vergata di Roma. Ha scritto un libro che s’intitola Palla al centro - la psicologia applicata al calcio, materia di cui è docente all’università Telematica San Raffaele, sempre nella Capitale. Presente alle Olimpiadi fin dal 1996, quando seguì gli atleti della Federazione italiana Tiro a volo, «migliaia di ore di allenamento per acquisire quella disposizione alla concentrazione, fondamentale per ottenere prestazioni a livello mondiale, per cui diventa “normale” colpire bersagli di 110 mm di diametro, che si muovono a 100 km/h in direzione imprevista, con una probabilità di errore uguale o inferiore all’1,5%».L’incontro con il calcio avvenne l’anno prima, nel 1995, in qualità di consulente della Figc, la Federazione Italiana Giuoco Calcio, per il settore arbitrale.Il suo è un manuale di self help, il «fai da te» per entrare a far parte del rutilante mondo del pallone?«No, è un viaggio attraverso quattro temi: l’allenamento, i campioni, gli allenatori e il “10”, la maglia magica del calcio. Che è una disciplina sportiva che si basa sul concetto di dominio - fisico, tecnico tattico, psicologico - in cui ci si impone con la realizzazione del gol. Lo rilevava Desmond Morris nel 1982 ne La tribù del calcio: è un evento tribale che coinvolge squadre, società, tifosi e che affonda le sue radici nella notte dei tempi, quando i nostri antenati sopravvivevano grazie alla caccia: “I cacciatori diventano calciatori, l’arma è la palla e la preda è la porta”».Ma anche: gli atleti sono gladiatori, i match battaglie, i goleador eroi, gli allenatori condottieri.«Senza dimenticare la dimensione mistica, o religiosa. Il calcio può essere inteso come espressione della necessità di vivere in gruppo, una religione laica dove la partita è la messa. Un bisogno così radicato per cui nella vita si può cambiare tutto, il partner, la fede, un’ideologia, il partito preferito, ma non si abbandona mai il tifo per la propria squadra. Del resto, gli stessi protagonisti alimentano tale idea “liturgica”».In che senso?«Pensi a Maradona e il gol realizzato “dalla mano di Dio” agli inglesi, peraltro una forma di rivincita per la vera guerra tra Argentina e Inghilterra per le isole Falkland-Malvinas. Gli allenatori sono “maghi” alla Helenio Herrera, o ricercano l’aiuto dell’Altissimo, Giovanni Trapattoni con la boccetta dell’acqua santa ai mondiali asiatici del 2002, o il rosario strofinato in tasca come si dice faccia talvolta Carlo Ancelotti. E poi: le squadre che vanno in pellegrinaggio al santuario del santo patrono della città. O che fanno benedire i campi di allenamento per evitare gli infortuni. Grandi campioni hanno avuto preti come consiglieri spirituali, tipo Gianni Rivera con padre Eligio. Giuseppe Signori sotto la casacca ufficiale giocava con la maglia di Padre Pio, Filip Stankovic aveva quella raffigurante la Madonna».Convinzioni, manie, superstizioni che confermano che il calcio è un gioco di testa, o di fuori di testa. Su cui devono lavorare tutti i protagonisti della scena: atleti, allenatori, arbitri. Da quali elementi fattuali è partito?«Da quelli offerti dallo stesso calcio. Per esempio: rispetto ad altri sport, il basket o il volley, in cui vengono segnati molti punti da entrambe le squadre, nel calcio i punteggi finali più frequenti sono l’1-1 e l’1-0, il gol quindi è - statisticamente parlando - un evento raro. Ancora: i momenti chiave di un incontro sono la fine del primo tempo, l’inizio del secondo, gli ultimi 10 minuti. In cui spesso si decidono le partite».Non lo dica a me che vedendo giocare Bayern-Inter, martedì sera, nell’ultimo quarto d’ora ho rischiato la sincope.«Non è finita fin quando... non è finita. Però un gol incassato un minuto prima di rientrare negli spogliatoi è una “botta” seria, tanto più se bissato appena rientrati in campo per i secondi 45 minuti». Se invece lo prendi al primo minuto, come l’Italia a Wembley con l’Inghilterra, nella finale dei penultimi Europei...«Ti fa male ma sai di avere davanti 90 minuti per pareggiare e magari vincere. Sir Alex Ferguson, che con i suoi 49 trofei vinti è l’allenatore che conta più vittorie nella storia del calcio, diceva: “Mi sono sempre preso i miei rischi, ma il mio piano era: non preoccuparti e non perdere la pazienza fino all’ultimo quarto d’ora, poi attacca a testa bassa!”. Sapeva motivare i suoi giocatori, difendendoli in pubblico ma criticandoli nello spogliatoio. E per gratificarli usava solo due parole: well done, ben fatto, perché non vi è necessità di usare espressioni assolute, enfatiche. L’altro suo mantra era “più sei bravo, più devi impegnarti”».Il talento è un dono, ma va coltivato.«Prenda Alex Del Piero. Ai mondiali di Italia 90 vede Totò Schillaci realizzare un gol clamoroso contro l’Uruguay: “Un tiro al volo che prima s’impenna e poi scende, con la palla in movimento colpita di controbalzo, però bassissima, quasi a pelo d’erba. Una condizione difficile da ripetere da fermo. Continuavo a pensarci, finché - passati sette anni, giocavo nella Juventus di Marcello Lippi - provare e riprovare in ogni allenamento, alla fine riuscii a replicarlo, nel campionato 1997-98, in casa del Bologna, risultato finale 3-1 per noi, con un calcio piazzato da 25 metri”». L’eccellenza non è un atto, ma un’abitudine. Anche ad imparare dagli errori.«La prestazione perfetta non esiste. In genere vince chi commette meno sbagli. Sapendo andare oltre. Anche perché, come disse Roberto Baggio, che ne sa qualcosa: “I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli”. Ma anche per sviluppare tale attitudine è necessaria perseveranza. Perché se bastassero le parole, saremmo pieni di campioni: “Sei agitato? Calmati. Sei distratto? Concentrati. Hai paura? Pensa positivo”, et voilà: tutti numeri uno. Sa cosa racconta Ancelotti di Cristiano Ronaldo, a proposito di forma mentis? “Si allenava sempre in modo maniacale, era capace di rimanere fino alle tre del mattino a Valdebebas, il centro sportivo del Real Madrid, per curare il suo corpo con bagni ghiacciati, anche se ad aspettarlo a casa c’era Irina, la sua fidanzata”».In effetti, ci vuole spirito di abnegazione per rimanere a mollo sottozero e non tornare a casa da Irina Shayk, modella russa e sua partner per cinque anni...«A sua volta, Cr7 ci ha regalato una fotografia di Ancelotti, unico allenatore ad aver vinto i cinque principali campionati europei, e più Champions League di tutti (cinque), che illumina il suo carattere: “L’ho visto arrabbiato pochissime volte. Quando perde le staffe inizia a urlare nella prima lingua che gli passa per la testa, e poi un minuto dopo ha già smesso, fa un respiro profondo e se ne va. Un altro minuto torna, sigaretta in bocca, tranquillo, tutto a posto. Un’incredibile capacità di riacquistare rapidamente la calma”». In compenso, rumina con la gomma da masticare in bocca per tutta la partita. Ma la vena ironica non viene mai meno. Martedì sera, dopo il tracollo del suo Real Madrid con le tre «pappine» rimediate a casa dell’Arsenal, ha spiegato che al ritorno crede di poter recuperare perché «nel calcio tutto può succedere», e poi, con un mezzo sorriso ironico, «anche che Declan Rice faccia due gol su calcio piazzato che non aveva mai fatto», alludendo al centrocampista dell’Arsenal che prima di martedì non aveva segnato nemmeno un gol su punizione nelle 338 partite giocate fin qui da professionista.«Sofferenza, stress e pressione sono i carburanti che tengono vivo un allenatore, Ancelotti li vive nelle tre ore che precedono l’incontro. Per ironia, ricorda Nils Liedlholm, che con i suoi giocatori usava il metodo del bastone e della carota, ma al contrario».Cioè?«È la stessa legge che Antonio Conte, oggi sulla panchina del Napoli, ha spiegato di aver imparato dai suoi allenatori, Eugenio Fascetti e Carlo Mazzone: il bastone va impugnato quando le cose vanno bene, e si corre il rischio di rilassarsi. La carota nei momenti di difficoltà e c’è bisogno di motivazione ed empatia».Nella disamina che lei fa dell’approccio mentale dei campioni e dei mister, di ieri e di oggi, c’è spazio anche per gli arbitri. Sempre al centro di polemiche, nonostante l’introduzione del Var, il deus ex machina per antonomasia.«La tecnologia è usata da esseri umani, e quindi il cerchio si chiude intorno alla competenza degli arbitri nel gestirla. In campo, l’arbitro può commettere errori per due motivi principali: la pressione dovuta allo stress agonistico e il sovraccarico di analisi nei momenti in cui deve fischiare. Cioè la quantità di informazioni cui deve fare attenzione, selezionando quelle utili alla sua decisione. Tenendo conto del contesto emotivo, delle proteste simultanee dei giocatori delle due squadre e della tifoseria, dell’importanza della partita, del momento del match in cui viene presa la decisione, dell’effetto che avrà sul proseguimento dell’incontro e sul suo esito finale. Tutti fattori che aumentano il “peso” psicologico che l’arbitro deve sopportare. E a cui si deve dunque allenare».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.