
In un suo saggio recente, lo storico Guido Melis racconta i numeri della macchina statale del fascismo. Si scopre che il Duce fu modernizzatore, ma senza cambiare l'amministrazione in modo drastico.Dopo una campagna elettorale in cui si è discusso moltissimo di fascismo, fa un effetto straniante tornare a leggere un vero libro di storia dedicato a quegli anni, come quello appena uscito per i tipi del Mulino: La macchina imperfetta, di Guido Melis, docente alla Sapienza ed esperto di storia della pubblica amministrazione.Lo spaesamento deriva dal confronto tra una polemica elettorale su un fascismo puramente fantasmatico e un'analisi seria, documentata, certo non simpatetica con l'oggetto dell'indagine ma comunque priva di inutili accenti faziosi. La quarta di copertina spiega lapidariamente il senso del titolo: «Quello che volle e non riuscì a essere lo Stato fascista». Una struttura «rivoluzionaria» in cui nulla era lasciato al caso, mossa dalla volontà demiurgica di un capo onnisciente, secondo la retorica del regime; un meccanismo che spesso girava a vuoto e non riuscì mai davvero ad assimilare i dettami mussoliniani in termini di efficienza, rinnovamento, modernizzazione e fedeltà ideologica, secondo lo storico. Il che, tuttavia, significa andare a rimproverare al fascismo di essere stato, in ultima istanza, troppo poco totalitario. Melis lo scrive nero su bianco, nelle sue conclusioni, parlando di «un totalitarismo sempre annunciato e mai interamente realizzato, un sistema di istituzioni imperfetto, fatto di vecchi e nuovi materiali». Povero Benito Mussolini, da alfiere del «male assoluto» a titubante cerchiobottista moderato. Eppure la capacità di fare i conti con l'esistente per cambiarlo con i dovuti machiavellismi non è certo una qualità secondaria, per un buon statista. In ogni caso, nel quadro tracciato da Melis, non sono pochi gli aspetti interessanti dello Stato fascista che comunque emergono. A cominciare da lui, il motore immobile di tutta l'architettura littoria, Benito Mussolini. Lo studioso dedica poche ma incisive pagine alla rivoluzione portata dall'ex socialista a Palazzo Chigi: la giornata del nuovo presidente iniziava prestissimo e si protraeva per non meno di 12 o anche 15 ore, «il che», scrive Melis, «costituiva un record anche rispetto alla laboriosità proverbiale» di Giovanni Giolitti. C'era poi la scorsa di non meno di 350 giornali italiani ed esteri al giorno, il lavoro maniacale sulle carte, l'agenda frenetica degli incontri, le pause sportive per ritemprarsi.A ciò si aggiunga che, in un Paese già all'epoca abituato a ruberie e scandali, Mussolini, come scrisse Renzo De Felice, «non trasse dal potere alcun illecito profitto», mentre la sua famiglia «condusse sempre una vita relativamente modesta». Ce n'era abbastanza per sembrare un politico rivoluzionario. Divenuto capo del governo a 39 anni, 3 mesi e 2 giorni, Mussolini è stato inoltre il presidente del Consiglio più giovane che l'Italia abbia mai avuto dalla sua unificazione ad oggi, battuto solo in extremis da Matteo Renzi, fatto premier a 39 anni e un mese. L'età media del primo governo Mussolini, inoltre, era di 49 anni. Considerando tutti i 69 ministri succedutisi nella storia del regime ed elencati nel volume di Melis, troviamo un'età media di 47 anni all'atto del primo incarico ministeriale. Si consideri che oggi, in Europa, l'età media dei ministri è più o meno di 52 anni. Incisivo fu anche lo sfoltimento ministeriale operato dal fascismo: negli anni prefascisti, il numero dei ministeri era oscillato tra i 15 e i 18. Il primo governo Mussolini mantenne la struttura a 15 ministeri, di cui due coperti dal duce stesso. Già nei primi mesi del 1923, tuttavia, una serie di accorpamenti e soppressioni li portarono drasticamente a 11. Quanto all'insieme dei dipendenti ministeriali, Melis afferma che da un totale di 540.847 nel 1923 si passò a 520.979 nel 1928: risultati che l'autore giudica «relativamente modesti», ma di cui dice anche che invertirono la tendenza giolittiana all'aumento del personale. È stato di nuovo De Felice ad affermare che la riforma della pubblica amministrazione del 1923, «in base a criteri largamente innovativi e autoritari», aveva «portato ad una notevole riduzione del personale, specie avventizio».A quanti gli chiedevano di tagliare ulteriormente teste, vuoi per spirito «liberista», vuoi con intento «fascistizzatore», Mussolini rispondeva picche: il capo del fascismo riteneva che un ricambio immediato in grande stile non fosse nelle corde del primo fascismo, pieno di combattenti ma non certo di esperti amministrativi. Molto meglio, secondo il duce, puntare «sul progressivo (e non traumatico) apporto delle nuove generazioni fasciste», scrive De Felice.Insomma, gli uffici sarebbero stati riempiti da camicie nere, ma nel corso delle generazioni. Per il momento, molto meglio tenersi buona la burocrazia che c'era, con «alcuni benefici di ordine materiale e morale», spiegava ancora lo storico reatino. Delle novità modernizzatrici, tuttavia, ci furono. Melis cita il ministero dei Lavori pubblici, dove, afferma, «crebbero eccellenti individualità» e «idee nuove, spesso decisive, per l'attività pubblica». Il dicastero acquisì talmente tanta importanza da permettersi di assumere un ruolo non solo tecnico, ma anche politico, come quando, in un documento del 1927, dichiarò «non più ammissibile» che lo Stato rimanesse «passivo di fronte alle iniziative delle imprese elettriche» che si permettevano di «trasportare energia al nord piuttosto che al sud, trascurando determinate regioni, e proprio le più bisognose, a vantaggio di altre più progredite e fortunate». Altre operazioni di rivoluzione ministeriale, non citate nel saggio, potrebbero essere ricordate. Pensiamo solo al ministero dell'Aeronautica, diretto da Italo Balbo fra il 1929 e il 1933. La mano del gerarca si fece sentire su tutta l'organizzazione burocratica. Innanzitutto fece riunire in un unico edificio, inaugurato nel 1931, i dodici uffici fino ad allora dislocati in tutta Roma. La vita del ministero, fin negli aspetti più minuti, fu improntata a velocità ed efficienza. «Volle uffici luminosi, aperti, in cui le vetrate sostituivano i muri divisori, con un servizio di posta pneumatica, telefoni interni, ascensori moderni», scrive uno dei biografi del trasvolatore, Claudio Segre, che aggiunge: «I visitatori notavano l'essenzialità e la semplicità dei mobili - niente poltrone, né tappeti, né tende. Tutti sedevano su delle semplici sedie di legno». La pausa pranzo fu ridotta a quaranta minuti, che tutti gli impiegati, insieme nello stesso momento, erano soliti consumare in piedi. Ogni impiegato ricevette spazzolino e dentifricio dal ministero e fu caldamente invitato a usarli dopo mangiato. La mattina, spesso, Balbo in persona passava per gli uffici, controllando la puntualità del personale. E almeno di questa «imperfezione», possiamo dire che la nostra macchina statale avrebbe un certo bisogno ancora oggi.
Emmanuel Macron (Getty Images). Nel riquadro Virginie Joron
L’eurodeputata del Rassemblement National: «Il presidente non scioglie il Parlamento per non mostrare la sua debolezza ai partner europei. I sondaggi ci danno al 33%, invitiamo tutti i Repubblicani a unirsi a noi».
content.jwplatform.com
L'evento organizzato dal quotidiano La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Sul palco con il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin, il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, il direttore Ingegneria e realizzazione di Progetto Terna Maria Rosaria Guarniere, l'Head of Esg Stakeholders & Just Transition Enel Maria Cristina Papetti, il Group Head of Soutainability Business Integration Generali Leonardo Meoli, il Project Engineering Director Barilla Nicola Perizzolo, il Group Quality & Soutainability Director BF Spa Marzia Ravanelli, il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il presidente di Generalfinance, Boconi University Professor of Corporate Finance Maurizio Dallocchio.
Kim Jong-un (Getty Images)
- Individuata dagli Usa una base sotterranea finora ignota, con missili intercontinentali lanciabili in tempi ultra rapidi: un duro colpo alla deterrenza del resto del mondo. La «lezione» iraniana: puntare sui bunker.
- Il regime vuole entrare nella ristretta élite di Paesi con un sistema di sorveglianza orbitale. Obiettivo: spiare i nemici e migliorare la precisione delle proprie armi.
- Pyongyang dispone già di 30-50 testate nucleari operative e arriverà a quota 300 entro il 2035. Se fosse attaccata, per reazione potrebbe distruggere Seul all’istante.