2021-11-03
La Murgia attacca Ricolfi su «Rep» per difendere i propri privilegi
Passato al quotidiano diretto da Maurizio Molinari, il sociologo attacca il politicamente corretto e scatena un vespaio. Gad Lerner rosica: «Ha espugnato la roccaforte nemica». La femminista lo insulta perché «maschio, etero e bianco».Non è bastato dare al suo articolo il titolo più soporifero della storia del giornalismo (Le cinque varianti delle parole) per neutralizzare l'impatto dello sbarco di Luca Ricolfi a Repubblica. Il suo pezzo di lunedì, dedicato alle modificazioni subite dal politicamente corretto dagli anni Settanta a oggi, ha immediatamente stuzzicato il vespaio dei volenterosi carnefici woke. C'è stato chi, come Gad Lerner, ci è andato tutto sommato morbido, limitandosi a commentare la mera associazione fra il sociologo e Repubblica, giusto per regolare qualche conto col suo ex giornale: «Complimenti a Luca Ricolfi. Il suo odierno approdo a Repubblica, il giornale della sinistra «antipatica» contro cui ha condotto una coerente battaglia culturale, è a suo modo una vittoria. Può compiacersi di avere espugnato la roccaforte nemica. Metamorfosi di un giornale...», ha twittato. Il premio «esprit de finesse» se lo è invece aggiudicato Michela Murgia che, con un paragone rivelatore più delle sue ossessioni private che delle sue idee politiche, ha scritto sui social: «Leggo Ricolfi su Repubblica e non posso fare a meno di pensare che il clitoride ha 8.000 terminazioni nervose, ma ancora non è sensibile quanto un editorialista italiano maschio bianco eterosessuale quando sente minacciato il suo privilegio». Letture freudiane a parte, un paio di domande sorgono spontanee. Per esempio: perché dobbiamo leggere le tesi di Ricolfi alla luce di un sottotesto corporativo mentre la cosa non vale per la Murgia? Magari è lei che reagisce così perché vede minacciata la sua nicchia ideologica che le garantisce visibilità, no? Ma sappiamo bene, sin da Marx, che ideologia è sempre il nome che si dà alle idee degli altri, le proprie invece sono scienza. Il quesito ancor più profondo, però, è: che ne sa, la Murgia, che Ricolfi è un «maschio bianco eterosessuale»? Certo: che sia maschio e bianco lo si capisce anche dalle foto, e persino Wikipedia riporta che il sociologo è sposato con una donna. Ma sono proprio queste evidenze che, per la scuola ideologica della Murgia, non sono tali. Se dire che un neonato con il pene è un maschietto è «assegnazione forzata del sesso», se il pronome che dobbiamo usare con ciascuno va sempre chiesto all'interessato, com'è che poi con Ricolfi, o con ciascuno di noi, basta un'occhiata ed è lecito presumere vita, morte, miracoli e generi? Una risposta a queste domande ce la fornisce in realtà Chiara Valerio, nell'articolo riparatore comparso ieri, sempre su Repubblica: «Per sentirsi appartenenti alla non-categoria del maschio bianco eterosessuale», spiega la studiosa, «non è necessario essere bianchi, maschi o eterosessuali ma solo occupare una posizione tale da non dover mai contrattare le risorse». Ah, ecco. Quindi Christine Lagarde (presidente della Bce, donna), Tim Cook (ad di Apple, gay) o Jay-Z (rapper milionario, nero) sono comunque «maschi bianchi eterosessuali». Va da sé che, se definiamo ogni potente come maschio-bianco-etero, il potere maschio-bianco-etero non finirà mai. Geniale. La Valerio ci invita comunque alla calma. Infatti, «ciò di cui Ricolfi parla, in Italia non è mai accaduto». Il che è parzialmente vero. Ma l'autrice si scorda di precisare se questo sia un bene o un male. Del resto, se comunque la deriva che si intravede dietro l'angolo è quella, denunciarla con preveggenza dovrebbe essere un merito, non una colpa. Nella sua strategia di minimizzazione, la Valerio giunge anche a stravolgere la realtà, precisando anche che nessuno verrà denunciato per una battuta spinta in un contesto privato: «Si tratta di scegliere volta per volta, secondo il contesto, un linguaggio, anzi un tono della lingua». Sembra di sognare. Lo specifico del politicamente corretto, infatti, è esattamente il fatto di azzerare i contesti. Attaccare Dante perché islamofobo, censurare Dumbo per la caratterizzazione di certi personaggi, licenziare gente per uno status privato scritto dieci anni prima, mettere alla gogna qualcuno per una battuta, un gioco fra amici, una barzelletta detta in un contesto conviviale: la cancel culture è questa cosa qua, la riduzione del linguaggio a un unico registro, calato in un eterno presente governato da istanze poliziesche. Nel frattempo, mentre in Italia si sghignazza su questi parrucconi privilegiati che vedono ovunque lo spettro del politicamente corretto solo perché spaventati dal mondo che cambia, in America, dove per l'appunto sono più avanti di noi su questa china, si fanno sempre più insistenti le preoccupazioni degli stessi ambienti liberal rispetto alla deriva intollerante della sinistra woke. E così persino il New York Times, facendo una breve rassegna delle ultime conquiste in fatto di «linguaggio inclusivo», ammette che «per alcuni il nuovo lessico è diventato una sorta di codice imperscrutabile, fissato a una frequenza che solo una fetta ristretta e altamente istruita del Paese può comprendere, o addirittura una cartina di tornasole politica in cui le risposte cambiano continuamente». Si avverte una giustificata paura: poiché non c'è e non ci può essere un canone, per quanto si sia sensibili all'altrui suscettibilità, si rischierà sempre di incappare in un reato linguistico stabilito cinque minuti prima. Nel mondo dei buoni, sono tutti potenzialmente colpevoli.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)