2025-04-26
Le multinazionali mollano il gay pride. Cortei alla disperata ricerca di fondi
Negli Usa sono sempre di più i gruppi che hanno smesso di sponsorizzare le manifestazioni. Gli attivisti hanno iniziato a chiedere soldi a piccole aziende e comunità locali per cercare di racimolare qualcosa.Per i giannizzeri arcobaleno, la pacchia sembra davvero finita. Protette e coccolate dai soloni progressisti, le lobby Lgbt hanno fatto per anni il bello e il cattivo tempo, imponendo alla maggioranza i capricci di una minoranza boriosa e rancorosa, sempre pronta a formulare minacce e a lanciare boicottaggi contro chi non si piegava ai loro diktat. La potenza di fuoco delle cricche arcobaleno, però, non stava tanto nella grancassa offerta da media e intellettuali accondiscendenti, quanto piuttosto nei finanziamenti a pioggia elargiti sia da enti pubblici che da soggetti privati. Adesso, però, la musica è cambiata e le mangiatoie hanno iniziato a svuotarsi.Come ha rivelato Bloomberg, infatti, le associazioni Lgbt americane sono prossime alla bancarotta e stanno trovando enormi difficoltà nel reperire i fondi per allestire i loro caratteristici carrozzoni annuali, altresì noti come gay pride. E non si parla di bruscolini, bensì di «centinaia di migliaia di dollari in sponsorizzazioni aziendali andate perdute». Vista la mala parata, spiega la nota agenzia statunitense, gli organizzatori si stanno affannando nel tentativo di racimolare i denari mancanti, facendo appello a piccole imprese ed enti locali. Eppure, anche qualora la spuntassero per questo 2025, la sostenibilità a lungo termine rimarrebbe comunque a rischio: «Non sappiamo se riusciremo a tenere in piedi la baracca», ha ammesso per esempio Suzanne Ford, la direttrice del San Francisco Pride, a cui mancano ancora la bellezza di 200.000 dollari a causa del ritiro di importanti finanziatori come Comcast, Anheuser-Busch, Benefit cosmetics e Diageo. Tra i leader arcobaleno, ovviamente, c’è già chi grida al tradimento degli sponsor di antica data: «Noi, come comunità (Lgbt, ndr), spendiamo i nostri soldi in queste aziende e quindi mi aspetto che loro ricambino», ha tuonato uno stizzito Andi Otto, il direttore esecutivo di Twin cities pride, potente associazione che fa base in Minnesota. Ma perché le imprese hanno deciso di piantare in asso gli unicorni? I motivi sono tanti. Una risposta l’ha fornita un recente sondaggio di Gravity research, che ha condotto la sua ricerca su decine di dirigenti aziendali operanti in vari settori: dagli appaltatori federali alle aziende sanitarie, fino ai marchi di consumo. Come emerso dalla rilevazione, «due dirigenti su cinque hanno dichiarato di voler ridurre la partecipazione al Mese del pride 2025 rispetto agli anni precedenti. Questo include sia il coinvolgimento interno, con la promozione dell’equità sul posto di lavoro, sia il coinvolgimento pubblico, con la sponsorizzazione diretta o la partecipazione agli eventi del pride».Come ha illustrato Luke Hartig, il presidente di Gravity research, a pesare su questa scelta è soprattutto l’opinione dei politici e degli elettori conservatori (che sono ovviamente anche consumatori), che guardano a questi eventi con sempre maggior fastidio: «Sei aziende su dieci», spiega Bloomberg, «citano le pressioni dell’amministrazione Trump come ragione principale del loro cambio di marcia. Quasi il 40% delle aziende sottolinea la minaccia di reazioni negative da parte di attivisti e consumatori di estrazione conservatrice, inclusi oltre tre quarti dei marchi di consumo». Insomma, il punto è chiaro: a forza di coccolare le minoranze, molte imprese si sono dimenticate della maggioranza. E adesso ne stanno pagando il prezzo.In ogni caso, fa notare sempre Hartig, la tendenza è in atto già da prima che Donald Trump vincesse le elezioni. Nel maggio 2023, infatti, diverse aziende hanno iniziato a sfilarsi dalle lobby Lgbt quando partì un’enorme campagna di boicottaggio contro la catena di supermercati Target, che aveva avuto la brillante idea di lanciare una «collezione pride» con capi d’abbigliamento per bambini trans e non binari. L’azione di boicottaggio fu talmente efficace che l’azienda, in meno di dieci giorni, perse addirittura 10 miliardi di dollari di valutazione di mercato. Stessa sorte, del resto, era toccata un mese prima ad Anheuser-Busch, il celebre colosso delle bevande che, per promuovere la Bud Light (versione ipocalorica della Budweiser), aveva ingaggiato l’influencer trans Dylan Mulvaney: le vendite, anche in quel caso, erano colate a picco.Queste due campagne, com’era lecito aspettarsi, hanno messo in allarme le aziende gay friendly. Da allora, spiega Hartig, numerosi dirigenti «hanno capito che i diritti Lgbt erano diventati una questione politica molto delicata nel contesto delle elezioni del 2024 e che era sempre più rischioso per le aziende impegnarsi in qualsiasi modo» per promuovere il pride, in particolare «le imprese meno inclini al rischio, che generalmente hanno un’ampia base di consumatori di idee conservatrici o provenienti da ambienti rurali». Di qui la fuga di massa, che ha raggiunto l’apice quest’anno. Chiusi i rubinetti delle multinazionali, insomma, agli unicorni sono rimaste solo le collette e le visite porta a porta. Andando avanti di questo passo, però, non resterà che alzare bandiera bianca. Anzi: arcobaleno.