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2023-05-05
Mosca accusa Washington per l’attacco al Cremlino. Zelensky: «Putin criminale»
Volodymyr Zelensky a L'Aia (Ansa)
Mentre da una parte il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, continua a invocare la condanna dell’omologo russo, Vladimir Putin, presso il tribunale della Corte internazionale penale dell’Aia, e dall’altra la Russia sferra su Kiev il più potente attacco del 2023, si complica anche l’unico canale diplomatico in corso. L’atteso vertice tra i due viceministri della Difesa di Kiev e Mosca, in programma quest’oggi a Istanbul, per estendere l’accordo sul grano, è stato smentito dai russi. Un incontro delicato dopo quanto accaduto mercoledì, quando due droni hanno sorvolato il Cremlino e l’esplosione di uno dei due velivoli comandati a distanza ha provocato un incendio al tetto del palazzo del Senato. Un episodio ancora controverso e pieno di ombre che ha scatenato inevitabilmente reazioni da una parte e dall’altra.
Al momento, in attesa di raccogliere prove, la posizione ufficiale di Mosca attribuisce la responsabilità dell’attacco all’intelligence ucraina e agli Stati Uniti in qualità di mandanti. Lo ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, all’agenzia Ria Novosti. Immediata la risposta americana affidata alle parole del portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale, John Kirby, che a Msnbc ha detto: «Le affermazioni della Russia secondo cui gli Stati Uniti sono dietro all’attacco di droni al Cremlino sono false: gli Stati Uniti non incoraggiano né consentono all’Ucraina di colpire al di fuori dei suoi confini». Pure il direttore accademico del Consiglio russo per gli affari internazionali, Andrej Kortunov, non ha dubbi, anche se rispetto a Peskov è più cauto nelle sue dichiarazioni rilasciate all’Adnkronos: «La realtà è che non sappiamo con certezza chi sia stato. La tipologia dell’attacco fa presupporre a qualcosa di organizzato da professionisti e non da dilettanti». Un attacco che ha immediatamente innalzato il livello di preoccupazione per un’escalation. L’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, ha chiesto alla Russia di «non usare questo presunto attacco come scusa per innalzare il livello del conflitto». Parole a cui ha risposto il vicepresidente del Consiglio di sicurezza di Mosca, Dmitrij Medvedev, che su Twitter ha scritto come «l’attacco con i droni porterà esattamente all’escalation del conflitto», aggiungendo anche che «questo è proprio ciò che vogliono Washington e molti stupidi a Bruxelles» e definendo l’invio dei droni «un attacco terroristico perpetrato dalle autorità di Kiev, guidato dagli Usa e approvato dalla leadership europea».
La Cina, intanto, tramite il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha immediatamente chiesto che «le parti evitino azioni che potrebbero portare a un’ulteriore escalation». Anche perché qualcuno è tornato addirittura ad agitare lo spettro nucleare. Un’eventualità commentata senza mezzi termini dal fondatore del gruppo Wagner, Evghenij Prigozhin, che alla domanda sull’uso del nucleare in seguito all’attacco con i droni ha risposto con un laconico: «Non facciamo i pagliacci minacciando una bomba vigorosa a causa di un drone per bambini», aggiungendo poi come sia «necessario punire colui che li ha mandati».
Tuttavia Kiev si difende dalle accuse affidandosi direttamente alle parole del presidente Zelensky che durante la conferenza stampa tenuta mercoledì a Helsinki, dove si è presentato in una visita a sorpresa, ha detto: «Noi stiamo combattendo la guerra sul nostro territorio difendendo le nostre città e i nostri villaggi. Non abbiamo abbastanza armi per poterlo fare. Non vogliamo attaccare Putin, lo lasciamo al tribunale». Il presidente ucraino ieri ha parlato proprio dalla sede della Corte internazionale penale dell’Aia, durante la sua visita in Olanda: «Vogliamo tutti vedere qui nella Capitale del diritto internazionale Vladimir Putin, colui che merita di essere condannato per azioni criminali e sono sicuro che succederà». Sempre dalla sala stampa del tribunale dell’Aia, Zelensky è tornato a chiedere la fornitura di caccia all’Occidente e ha per ora allontanato l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, affermando che non è possibile farlo durante la guerra.
Nel frattempo Putin, dopo l’attacco dei droni, ha voluto dare dei segnali simbolici per dimostrare di avere la situazione sotto controllo: ieri si è presentato regolarmente nel suo ufficio del Cremlino, dove ha incontrato il ministro dello Sviluppo economico e il 9 maggio sarà presente alla parata militare per la Giornata della vittoria, che si terrà a Mosca in occasione della ricorrenza della sconfitta del nazismo.
Sul campo invece la situazione rimane preoccupante. «Risponderemo all’attacco quando sarà necessario», aveva dichiarato l’ambasciatore russo all’Onu, Anatoly Antonov, dopo l’attacco dei droni. Ma a giudicare dalla violenta offensiva che Mosca ha lanciato nella giornata di ieri, in particolar modo su Kiev, la risposta è stata immediata. Nella notte, intorno alle 2 locali, nella Capitale e in tutta la regione è suonato l’allarme aereo, seguito poi anche nelle regioni di Zaporizhzhia, dove rimane alta l’allerta dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, secondo cui i russi avrebbero posizionato esplosivi e armi nelle vicinanze delle turbine dell’unità 4 della centrale nucleare. Anche Dnipropetrovsk, Chernihiv, Sumy, Kharkiv e Poltava sono state coinvolte dal raid russo. Nel consueto report pubblicato su Facebook dallo Stato maggiore, è stato reso noto che l’esercito russo ha lanciato sul territorio ucraino 68 attacchi aerei, 67 attacchi con lanciarazzi e due missili, provocando danni e distruzioni a infrastrutture e palazzi residenziali, mentre a Kherson sono morti 23 civili sotto i bombardamenti.
Il giallo dei droni tra Kiev e la pista interna
Continua a far discutere l’esplosione di due droni sul Cremlino avvenuta nella notte tra martedì e mercoledì. La Russia ha subito accusato l’Ucraina di aver perpetrato un «atto terroristico» per eliminare il presidente Vladimir Putin. L’attacco, è la tesi di Mosca, sarebbe stato deciso a Washington, con Kiev che avrebbe eseguito l’ordine ricevuto. Naturalmente, Volodymyr Zelensky e altri esponenti apicali della politica ucraina hanno negato tutto, insinuando anzi che l’attacco sarebbe in realtà una cosiddetta false flag, ossia un autoattentato finalizzato a provocare un inasprimento del conflitto e a giustificare dure rappresaglie.
Al momento ci si muove ancora nel campo delle ipotesi e delle congetture. In effetti, gli indizi a nostra disposizione disegnano sostanzialmente due scenari: attacco ucraino (probabilmente dimostrativo), oppure autosabotaggio russo. Esiste poi una terza pista, che conduce ad alcuni gruppi di dissidenti antiputiniani, ma allo stato attuale è senz’altro quella meno plausibile.
Andiamo con ordine. L’ipotesi di un coinvolgimento ucraino regge: come fa notare la Bbc, negli ultimi mesi Kiev ha organizzato diversi attacchi con droni su territorio russo, prendendo di mira una raffineria e alcune infrastrutture civili. Secondo diversi analisti militari, insomma, le forze armate ucraine sono perfettamente in grado di realizzare operazioni simili con l’ausilio di aeromobili a pilotaggio remoto. Anche Mosca, che dista circa 450 chilometri dal confine ucraino, rientra nel raggio d’azione dei droni in dotazione all’esercito di Kiev. Inoltre, benché non vi siano certezze, quello che si vede nel video che ha fatto il giro della Rete sembrerebbe un drone modello UJ-22, che è appunto di fabbricazione ucraina.
Che le forze armate di Kiev siano in grado di realizzare l’attacco, tuttavia, non vuol dire che l’abbiano effettivamente realizzato. Contro quest’ipotesi, infatti, sussistono numerose obiezioni. Tanto per cominciare, quella notte Putin non era presente al Cremlino e ci sono solidi motivi per pensare che gli ucraini lo sapessero. In questo caso, dunque, anziché perpetrare un attentato, è più verosimile che Kiev volesse dimostrare ai russi di poter agevolmente aggirare le loro difese. E qui arriviamo a un ulteriore aspetto problematico della vicenda: Mosca può contare su uno scudo contraereo molto efficiente, che è stato peraltro rafforzato dopo lo scoppio della guerra. Se davvero gli ucraini fossero riusciti a penetrare le difese moscovite, per Putin e le sue forze armate sarebbe un vero smacco.
Questo, del resto, è uno degli argomenti che potrebbe far propendere per la false flag. Non a caso, ha fatto molto clamore un video diffuso in Rete in cui si notano due uomini sulla sommità del Senato, proprio nel momento in cui uno dei due droni esplode. Chi erano? E che cosa ci facevano? Malgrado lo scalpore suscitato dalle immagini, tuttavia, non pare lecito parlare della cosiddetta «pistola fumante». E, infatti, nessun analista militare finora lo ha fatto. Ad oggi, le domande sono molto più numerose delle risposte, ma le sorprese potrebbero non essere finite.
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La Casa Bianca: «Falsità». Il fondatore della Wagner: «Rispondere con il nucleare? Non facciamo i clown». Pioggia di missili sugli invasi. Pechino: «Evitare l’escalation».Gli ucraini hanno già colpito in questo modo. Lo scudo contraereo degli aggressori però era stato rafforzato.Lo speciale contiene due articoli.Mentre da una parte il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, continua a invocare la condanna dell’omologo russo, Vladimir Putin, presso il tribunale della Corte internazionale penale dell’Aia, e dall’altra la Russia sferra su Kiev il più potente attacco del 2023, si complica anche l’unico canale diplomatico in corso. L’atteso vertice tra i due viceministri della Difesa di Kiev e Mosca, in programma quest’oggi a Istanbul, per estendere l’accordo sul grano, è stato smentito dai russi. Un incontro delicato dopo quanto accaduto mercoledì, quando due droni hanno sorvolato il Cremlino e l’esplosione di uno dei due velivoli comandati a distanza ha provocato un incendio al tetto del palazzo del Senato. Un episodio ancora controverso e pieno di ombre che ha scatenato inevitabilmente reazioni da una parte e dall’altra. Al momento, in attesa di raccogliere prove, la posizione ufficiale di Mosca attribuisce la responsabilità dell’attacco all’intelligence ucraina e agli Stati Uniti in qualità di mandanti. Lo ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, all’agenzia Ria Novosti. Immediata la risposta americana affidata alle parole del portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale, John Kirby, che a Msnbc ha detto: «Le affermazioni della Russia secondo cui gli Stati Uniti sono dietro all’attacco di droni al Cremlino sono false: gli Stati Uniti non incoraggiano né consentono all’Ucraina di colpire al di fuori dei suoi confini». Pure il direttore accademico del Consiglio russo per gli affari internazionali, Andrej Kortunov, non ha dubbi, anche se rispetto a Peskov è più cauto nelle sue dichiarazioni rilasciate all’Adnkronos: «La realtà è che non sappiamo con certezza chi sia stato. La tipologia dell’attacco fa presupporre a qualcosa di organizzato da professionisti e non da dilettanti». Un attacco che ha immediatamente innalzato il livello di preoccupazione per un’escalation. L’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, ha chiesto alla Russia di «non usare questo presunto attacco come scusa per innalzare il livello del conflitto». Parole a cui ha risposto il vicepresidente del Consiglio di sicurezza di Mosca, Dmitrij Medvedev, che su Twitter ha scritto come «l’attacco con i droni porterà esattamente all’escalation del conflitto», aggiungendo anche che «questo è proprio ciò che vogliono Washington e molti stupidi a Bruxelles» e definendo l’invio dei droni «un attacco terroristico perpetrato dalle autorità di Kiev, guidato dagli Usa e approvato dalla leadership europea». La Cina, intanto, tramite il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha immediatamente chiesto che «le parti evitino azioni che potrebbero portare a un’ulteriore escalation». Anche perché qualcuno è tornato addirittura ad agitare lo spettro nucleare. Un’eventualità commentata senza mezzi termini dal fondatore del gruppo Wagner, Evghenij Prigozhin, che alla domanda sull’uso del nucleare in seguito all’attacco con i droni ha risposto con un laconico: «Non facciamo i pagliacci minacciando una bomba vigorosa a causa di un drone per bambini», aggiungendo poi come sia «necessario punire colui che li ha mandati».Tuttavia Kiev si difende dalle accuse affidandosi direttamente alle parole del presidente Zelensky che durante la conferenza stampa tenuta mercoledì a Helsinki, dove si è presentato in una visita a sorpresa, ha detto: «Noi stiamo combattendo la guerra sul nostro territorio difendendo le nostre città e i nostri villaggi. Non abbiamo abbastanza armi per poterlo fare. Non vogliamo attaccare Putin, lo lasciamo al tribunale». Il presidente ucraino ieri ha parlato proprio dalla sede della Corte internazionale penale dell’Aia, durante la sua visita in Olanda: «Vogliamo tutti vedere qui nella Capitale del diritto internazionale Vladimir Putin, colui che merita di essere condannato per azioni criminali e sono sicuro che succederà». Sempre dalla sala stampa del tribunale dell’Aia, Zelensky è tornato a chiedere la fornitura di caccia all’Occidente e ha per ora allontanato l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, affermando che non è possibile farlo durante la guerra.Nel frattempo Putin, dopo l’attacco dei droni, ha voluto dare dei segnali simbolici per dimostrare di avere la situazione sotto controllo: ieri si è presentato regolarmente nel suo ufficio del Cremlino, dove ha incontrato il ministro dello Sviluppo economico e il 9 maggio sarà presente alla parata militare per la Giornata della vittoria, che si terrà a Mosca in occasione della ricorrenza della sconfitta del nazismo.Sul campo invece la situazione rimane preoccupante. «Risponderemo all’attacco quando sarà necessario», aveva dichiarato l’ambasciatore russo all’Onu, Anatoly Antonov, dopo l’attacco dei droni. Ma a giudicare dalla violenta offensiva che Mosca ha lanciato nella giornata di ieri, in particolar modo su Kiev, la risposta è stata immediata. Nella notte, intorno alle 2 locali, nella Capitale e in tutta la regione è suonato l’allarme aereo, seguito poi anche nelle regioni di Zaporizhzhia, dove rimane alta l’allerta dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, secondo cui i russi avrebbero posizionato esplosivi e armi nelle vicinanze delle turbine dell’unità 4 della centrale nucleare. Anche Dnipropetrovsk, Chernihiv, Sumy, Kharkiv e Poltava sono state coinvolte dal raid russo. Nel consueto report pubblicato su Facebook dallo Stato maggiore, è stato reso noto che l’esercito russo ha lanciato sul territorio ucraino 68 attacchi aerei, 67 attacchi con lanciarazzi e due missili, provocando danni e distruzioni a infrastrutture e palazzi residenziali, mentre a Kherson sono morti 23 civili sotto i bombardamenti.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/mosca-washington-attacco-cremlino-2659954561.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-giallo-dei-droni-tra-kiev-e-la-pista-interna" data-post-id="2659954561" data-published-at="1683225144" data-use-pagination="False"> Il giallo dei droni tra Kiev e la pista interna Continua a far discutere l’esplosione di due droni sul Cremlino avvenuta nella notte tra martedì e mercoledì. La Russia ha subito accusato l’Ucraina di aver perpetrato un «atto terroristico» per eliminare il presidente Vladimir Putin. L’attacco, è la tesi di Mosca, sarebbe stato deciso a Washington, con Kiev che avrebbe eseguito l’ordine ricevuto. Naturalmente, Volodymyr Zelensky e altri esponenti apicali della politica ucraina hanno negato tutto, insinuando anzi che l’attacco sarebbe in realtà una cosiddetta false flag, ossia un autoattentato finalizzato a provocare un inasprimento del conflitto e a giustificare dure rappresaglie. Al momento ci si muove ancora nel campo delle ipotesi e delle congetture. In effetti, gli indizi a nostra disposizione disegnano sostanzialmente due scenari: attacco ucraino (probabilmente dimostrativo), oppure autosabotaggio russo. Esiste poi una terza pista, che conduce ad alcuni gruppi di dissidenti antiputiniani, ma allo stato attuale è senz’altro quella meno plausibile. Andiamo con ordine. L’ipotesi di un coinvolgimento ucraino regge: come fa notare la Bbc, negli ultimi mesi Kiev ha organizzato diversi attacchi con droni su territorio russo, prendendo di mira una raffineria e alcune infrastrutture civili. Secondo diversi analisti militari, insomma, le forze armate ucraine sono perfettamente in grado di realizzare operazioni simili con l’ausilio di aeromobili a pilotaggio remoto. Anche Mosca, che dista circa 450 chilometri dal confine ucraino, rientra nel raggio d’azione dei droni in dotazione all’esercito di Kiev. Inoltre, benché non vi siano certezze, quello che si vede nel video che ha fatto il giro della Rete sembrerebbe un drone modello UJ-22, che è appunto di fabbricazione ucraina. Che le forze armate di Kiev siano in grado di realizzare l’attacco, tuttavia, non vuol dire che l’abbiano effettivamente realizzato. Contro quest’ipotesi, infatti, sussistono numerose obiezioni. Tanto per cominciare, quella notte Putin non era presente al Cremlino e ci sono solidi motivi per pensare che gli ucraini lo sapessero. In questo caso, dunque, anziché perpetrare un attentato, è più verosimile che Kiev volesse dimostrare ai russi di poter agevolmente aggirare le loro difese. E qui arriviamo a un ulteriore aspetto problematico della vicenda: Mosca può contare su uno scudo contraereo molto efficiente, che è stato peraltro rafforzato dopo lo scoppio della guerra. Se davvero gli ucraini fossero riusciti a penetrare le difese moscovite, per Putin e le sue forze armate sarebbe un vero smacco. Questo, del resto, è uno degli argomenti che potrebbe far propendere per la false flag. Non a caso, ha fatto molto clamore un video diffuso in Rete in cui si notano due uomini sulla sommità del Senato, proprio nel momento in cui uno dei due droni esplode. Chi erano? E che cosa ci facevano? Malgrado lo scalpore suscitato dalle immagini, tuttavia, non pare lecito parlare della cosiddetta «pistola fumante». E, infatti, nessun analista militare finora lo ha fatto. Ad oggi, le domande sono molto più numerose delle risposte, ma le sorprese potrebbero non essere finite.
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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