2022-06-07
Morto «lo Scriba» Gianni Clerici. Una grande penna fra le racchette
Gianni Clerici (Stefania D'Alessandro/Getty Images)
Il mitico giornalista aveva 91 anni. Dopo aver praticato il tennis da giovane, lo ha raccontato a generazioni col suo tocco speciale. Una volta segnalò a Sergio Tacchini un ragazzino secondo lui bravo: Pete Sampras. il ragazzino) accompagnata dal silenzio dei nobili in una stanza fresca affacciata sul lago di Como. Aveva 91 anni e il battito del cuore sintonizzato sul ritmo della pallina da tennis. Si faceva chiamare «lo Scriba», è stato uno dei più grandi giornalisti italiani. «Per favore non aggiungere… di tennis», direbbe. «I serragli non mi sono mai piaciuti». Neanche reporter gli andava bene, «perché a riportare sono i setter. Sono un giornatore, un giornalista-scrittore che narra quello che altrimenti non avreste modo di sapere. Così mi sono presentato alla mia dentista».Regolàti i conti con le definizioni rimane lui, minuto e immenso nella capacità di rendere epico un sedicesimo di finale al Roland Garros e di raccontare l’arrivo del nuovo millennio da Tonga, dove il giorno cambia prima. Rampollo di una famiglia di commercianti di idrocarburi che a Como possedeva un quartiere («quello di Sant’Agostino dove partono le corriere, il segnale che avrei avuto una vita itinerante»), Clerici è stato tennista professionista e prima firma del leggendario Il Giorno dell’Eni, quello di Gianni Brera, Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, Tiziano Terzani. Leggenda vuole che rubasse le fidanzate a Maurizio Chierici intercettando le lettere delle ammiratrici indirizzate a quest’ultimo con la scusa che c’era un refuso nel cognome del destinatario. Poi è stato icona di Repubblica fino a un anno fa, quando un ictus lo ha costretto alla penombra. Ha scritto una decina di libri, fra i quali l’immortale Gesti bianchi, l’enciclopedia 500 anni di tennis, Diario di un parroco del lago, l’autobiografia Quello del tennis e un prezioso romanzetto sulla fine di Mussolini a Giulino di Mezzegra. Ha attraversato 70 anni di sport e di vita con la penna in mano, orgoglioso di sottolineare: «Non ho mai lavorato un giorno, ero allergico alle polveri sottili della tipografia». Soprattutto, con il fido compare Rino Tommasi, ha inventato la doppia conduzione televisiva raccontando il tennis e i suoi segreti. Mentre il primo teneva il conto di aces e statistiche, lui era un pozzo di conoscenza e di ironia: aneddoti, riferimenti, gossip. Sulla soglia dei 90 anni è riuscito a mettere insieme perfino un volume su Tennis nell’arte: da Tiepolo a Goya a Hopper. Ribattezzato «Dottor Divago» da Tommasi per la sua capacità di parlare d’altro (oggi si direbbe contaminare), negli anni Novanta il Gianni ha letteralmente costruito con l’esempio una generazione di cronisti capaci di andare oltre la nuda notizia nel rispetto della consecutio. Aveva avuto maestri pazzeschi, li incontrava una volta la settimana a Lezzeno, Crotto del Misto, luogo di pantagrueliche libagioni, sede del Club del Giovedì. Grandi forchette, vulcani del pensiero popolare. A tavola c’erano Gianni Brera, Giovanni Arpino, Mario Soldati, Giorgio Bassani. «Non potevo esimermi dall’imparare a scrivere. Ma il più speciale era l’oste, il Bondi, che Brera definiva l’italiano più intelligente privo di licenza elementare. Poi arrivò anche Ottavio Missoni che trasferì il club a Milano, al Boeucc. Tutto più mondano». Accompagnava il finale con una smorfia.Quando doveva scrivere un libro si rintanava in Canton Ticino, dove il mondo fa più silenzio. A Roveredo, vicino a Lugano, trovava ispirazione per due motivi: il posto sembrava deserto e quei pochi abitanti parlavano dialetto «senza la vergogna che contraddistingue gli italiani. Eppure il dialetto è un valore primario, mia nonna parlava francese e dialetto. I dialoghi del mio libro Diario di un parroco del lago sono in dialetto, lo faceva anche Andrea Camilleri». È considerato uno dei massimi esperti di tennis della storia. Durante gli Us Open del 1987 il giornalista americano Bud Collins gli suggerì di andare a veder giocare un ragazzino fenomeno nel torneo juniores, Michael Chang. Clerici prese appunti, poi andò da Sergio Tacchini e gli sussurrò: «Metti sotto contratto il suo avversario, ne vale due». Era Pete Sampras. Da giocatore era orgoglioso di un record al Foro Italico: sette partite, sette sconfitte. Andò a Wimbledon in 500 da Como e quando arrivò trovò chiuso il club. Si lamentò con il custode che lo cacciò in malo modo: era domenica. Ha amato Roger Federer alla follia («Riassume in sé l’essenza dello sport»), non ha mai rimpianto il genio di John McEnroe. «Era uno sbruffone. Quando dissi a sua madre che il ragazzo avrebbe meritato quattro sberle da piccolo, lei rispose: faceva già paura allora». L’italiano che lo Scriba venerava è Nicola Pietrangeli: «Due Roland Garros. E poi è l’unico che ho battuto». Negli ultimi tempi prima dell’ictus passeggiava magro e profetico a Pescallo, una piccola e nascosta Portofino dietro Bellagio, con scarponi e bastoncini da trekking. Non c’è nulla di più fastidioso che interferire con ricordi personali, chiedo scusa. Ma un giorno riconobbe la mia auto e cominciò a lasciare bigliettini sul tergicristallo. Per un nuovo libro, per un commento o un saluto. Diceva: «È il mio WhatsApp, ma più umano».
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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