2024-11-02
A Modena il re non è il Cavallino ma il maiale
La caccia era riservata solo ai feudatari in passato e allora la plebe s’ingegnò per utilizzare al meglio (e per intero) il suino. Durante un assedio di papa Giulio II, i cittadini di Mirandola inventarono lo zampone. Amato, poi, da Rossini, Garibaldi, Zola e D’Annunzio.Nella costellazione modenese, fatta di cavallini rampanti e gorgheggi tenorili, non poteva mancare solida base di cultura materiale laddove, oltre ai tortellini, c’è di più. Nel suo Viaggio in Italia, scritto nel 1957, un insospettabile Guido Piovene così la introduceva al lettore: «La politica, i motori, le opere dell’intelligenza umana appaiono sempre avvolte dai grassi odori del cibo, passione non direi principale, ma fondamentale», laddove «il maiale è un idolo pubblico». Rincara la dose, anni dopo, Giorgio Maioli. «Il maiale troneggia sulla cucina modenese con la sua aria di benevole dittatore», ma «sempre pronto a sfriggere e a sciogliersi al fine di assecondare la felicità degli ospiti». Chiude democraticamente il cerchio Dario Zanasi, tanto che «a vederlo ispira simpatia e ottimismo» posto che «offre tutto di sé, con imbattibile altruismo». Che poi la suinosa creatura sia d’accordo anche sull’epico finale sarebbe tutto da verificare, ma questa è un’altra storia.Per inquadrare il tutto, bisogna risalire alle radici. Nel centro storico i maialini erano sorta di quattrozampe di compagnia, circa due per ogni nucleo familiare, pari a circa il 20% della popolazione complessiva. La sua lavorazione è un’arte trasmessa con rigorosa formazione chirurgica tanto che, nelle colline modenesi a Porcile, poi ribattezzata pudicamente Portile, venne creata la prima scuola dedicata all’arte dei lardaroli, nel 1547. Un rigore accademico: numero chiuso, non più di venti aderenti all’anno, con un curriculum inattaccabile per età (preferibilmente giovani), attività dedicata, integrità umana e professionale. Ne uscivano «macellai da sangue» che «sapevano maneggiare coltelli e mannaie con l’abilità di un giocoliere». Per spiegare la diffusione dell’allevamento del maiale nel contesto storico del Modenese non basta la presenza copiosa di ghiande ad alimentare la ciccia suina, ma anche il fatto che procurarsi la carne in altri contesti non era così facile.La caccia era riserva praticamente esclusiva dei feudatari del tempo tanto che, alla gente del luogo, la caccia di caprioli e cinghiali era permessa solo in certi periodi, a patto che consegnassero, poi, la testa dell’animale come prova. Una deroga per gli ecclesiastici, a condizione però «di non cedere la selvaggina a uomini rustici». Ci si mise di mezzo anche la scienza, tanto che un illustre clinico del tempo, l’autorevole Baldassarre Pisanelli, ebbe a chiosare: «Il fagiano fa venire l’asma alle genti rustiche, che questi tali se ne astengano e le lascino per le persone nobili e delicate». Dedicarsi, quindi, a cotiche e zamponi era conseguente anche perché, come ha scritto Nessia Liniado, il maiale «è l’unico animale che restituisce all’allevatore, e con larghissimo interesse, tutto ciò che ha ricevuto durante la sua effimera esistenza».Su queste basi, la lavorazione del maiale via via passò dalla fase artigianale a quella industriale, con l’esordio, nel 1821, della prima azienda dedicata, Bellentani. Il vento fresco delle colline contribuiva a un affresco naturale ben descritto da Sandro Bellei con una prosa degna del miglior Giovanni Pascoli o Giosuè Carducci. «Le rosse cosce suine, appese a lunghissimi “attacapanni” metallici, vengono esposte a prendere un po’ di tintarella e a respirare a pieni pori» quella «brezza asciutta e dolce che vien dal mare, pettinandosi con gli aghi resinosi del bosco e si profuma dei freschi aromi dei castagneti perdendo contro il calcare dei monti gli ultimi residui di salsedine». Pare di sentire Edmondo Bernacca in diretta… La conclusione è degna dei migliori film di Vittorio De Sica: «La loro metamorfosi da crisalidi a farfalle dura circa un anno», trasformandosi poi in un bendiddio tradotto alla modenese «l’ha mess ‘l porc a l’ora», ha messo il maiale all’ombra, cioè in cantina.Lasciamo la poesia e andiamo sulla prosa, quella concreta. Del maiale, come è noto, non si butta via niente a iniziare dal sangue. Un tempo lavorato a mo’ di frittata, con un soffritto di lardo e pancetta abbinato ad un impasto con pane, parmigiano e uova. Anche perché, con buona pace dell’illustre archiatra Pisanelli, la ciccia suina non va relegata nel purgatorio dietetico in quanto, ad esempio, rispetto a quella vaccina, in alcuni tagli è più ricca di vitamine e minerali, come il ferro.Ma torniamo ai grandi classici conosciuti in tutto il mondo. Lo zampone, che ora troviamo confezionato con ricercato design, leggenda racconta sia nato per necessità agli inizi del Cinquecento quando, nella Mirandola assediata per l’ennesima volta dalle truppe papaline di Giulio II, si fece di necessità virtù insaccando la poca carne rimasta dentro la cotica delle zampe anteriori. A conferma, un’opera del Seicento dove l’artista dell’epoca ritrae un salumaio con una corona di zamponi e altri insaccati alle spalle. Degni, di cotante origini, gli ambasciatori. Gioacchino Rossini veniva apposta a Modena per farne incetta. Giuseppe Garibaldi, dall’esilio a Caprera, se ne faceva mandare scorte di conforto da Giuseppe Bellentani. Emile Zola, in un suo tour d’Italie, non seppe trattenersi: «Ppporta all’anima, talora triste, un afflato di gioia, tanto che rappresenta la quintessenza, il meglio di maiale». Non da meno Gabriele D’Annunzio, che ne esalta «la rotonda compattezza porcina».Il 29 settembre, reso famoso da Lucio Battisti, a Modena aveva un altro significato e non solo religioso in quanto «giorno di san Michele»: in quella data si accendeva il semaforo verde per dare la caccia agli zamponi pronti per la maratona golosa. «Non si attendeva neppure l’ora del pranzo». Gente di ogni censo, belle dame comprese, «già all’ora della colazione soddisfano l’impaziente appetito con una o più fette del benemerito zampone», Giorgio Maioli cit.Roba da ingelosire la salsiccia, considerata da sempre la madre degli insaccati tanto che, a Modena, viaggia a paso doble: rossa e gialla. La prima ad usum populi, quella gialla codificata negli statuti del 1547, dove i quarti di nobiltà suina vengono arricchiti con zafferano, formaggio e uova, frutto di una felice intuizione attribuita a Cristoforo di Messisbugo, cuoco degli Estensi. Citata da Alessandro Tassoni ne La secchia rapita con Modena «città della salsiccia fina». Maiale ecumenico, il cui sacrificio era utile a tutte le classi sociali. Prendiamo il lardo, conservato gelosamente dalle massaie entro i vasi di coccio per l’uso quotidiano, era anche il compenso in natura che il vescovado offriva ai mastri comacini che decoravano con sapiente scalpello le architetture del Duomo così come i parroci lo offrivano come sussidio calorico alle famiglie più indigenti.La Treccani suina, a Modena, sarebbe interminabile: si va dai ciccioli al salam figadà (il gemellino modenese della più nota salama da sugo ferrarese), ma la citazione della staffa la merita il cotechino. La cui prima traccia scritta risale al 1745, codificato da Pellegrino Artusi, con la ricetta 322 come cotechino in galera, avvolto cioè con una fetta di manzo, legato perché non ne fuggano gli umori e rosolato poi con olio e cipolla. Benedizione finale con brodo di cottura, lambrusco e infine sacrificato al tavolo con fette rigorosamente dello spessore di due dita.Tuttavia, se il maiale è indiscutibilmente il re carnivoro della cucina modenese, la storia riserva sempre delle sorprese. Le rezdore di un tempo si alzavano all’alba passando per il pollaio «raccogliendo le uova dalla paglia ancora calda e ripagando le ovaiole più brave lasciandole in vita più delle altre». Una lungimirante strategia demografica ante litteram. Ai pulcini migliori «venivano bagnate le zampette in un bicchiere di vino, che trasmetteva forza e bellezza». I polli modenesi avevano una tale fama che, nel 1930, Umberto di Savoia e Maria Josè li onorarono quali «testimoni» del loro pranzo di nozze… in versione arrosto.